Se va bene, andrà peggio
eBook - ePub

Se va bene, andrà peggio

Scenari sulla crisi dell'euro

  1. Italian
  2. ePUB (disponibile sull'app)
  3. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Se va bene, andrà peggio

Scenari sulla crisi dell'euro

Informazioni su questo libro

Negli otto capitoli scritti da economisti e autorevoli studiosi (Alberto Bisin, Forrest Capie, Natale D'Amico, Antonio Foglia, Carlo Lottieri, Pietro Monsurrò, Antonio Polito, Vito Tanzi e Geoffrey Wood) troverete analisi della situazione bancaria e degli squilibri economico-finanziari nell'Europa di oggi, ipotesi di lavoro su cosa accadrebbe a inflazione, crescita e produttività in caso di uscita italiana dall'euro, indagini sui precedenti storici di break up monetari così come scenari più centrati sulla situazione politica e finanziaria italiana.

Domande frequenti

Sì, puoi annullare l'abbonamento in qualsiasi momento dalla sezione Abbonamento nelle impostazioni del tuo account sul sito web di Perlego. L'abbonamento rimarrà attivo fino alla fine del periodo di fatturazione in corso. Scopri come annullare l'abbonamento.
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Perlego offre due piani: Base e Completo
  • Base è ideale per studenti e professionisti che amano esplorare un’ampia varietà di argomenti. Accedi alla Biblioteca Base con oltre 800.000 titoli affidabili e best-seller in business, crescita personale e discipline umanistiche. Include tempo di lettura illimitato e voce Read Aloud standard.
  • Completo: Perfetto per studenti avanzati e ricercatori che necessitano di accesso completo e senza restrizioni. Sblocca oltre 1,4 milioni di libri in centinaia di argomenti, inclusi titoli accademici e specializzati. Il piano Completo include anche funzionalità avanzate come Premium Read Aloud e Research Assistant.
Entrambi i piani sono disponibili con cicli di fatturazione mensili, ogni 4 mesi o annuali.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì! Puoi usare l’app Perlego sia su dispositivi iOS che Android per leggere in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo — anche offline. Perfetta per i tragitti o quando sei in movimento.
Nota che non possiamo supportare dispositivi con iOS 13 o Android 7 o versioni precedenti. Scopri di più sull’utilizzo dell’app.
Sì, puoi accedere a Se va bene, andrà peggio di AA.VV in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Economia e Politica monetaria. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
IBL Libri
Anno
2012
eBook ISBN
9788864400976
Argomento
Economia
1. Quando Prodi ci fece uscire dall’euro, di Antonio Polito
 
 
Non credo che l’euro crollerà: magari perderà qualche pezzo ma ce la farà. Non credo che l’Italia ne uscirà: a gran fatica ma resisterà. Non credo alla legge di Murphy, secondo la quale “se una cosa può andare storta, andrà storta”. I popoli, come gli uomini, apprendono dai propri errori. Almeno così spero. Però, se dovesse andare storta, andrà pressappoco così.
Dall’Economist del 6 giugno 2014
 
L’ironia della storia – meglio ancora, il sarcasmo della storia – ha voluto che fosse proprio Romano Prodi, l’uomo che più di tutti è legato nel ricordo degli italiani all’ingresso nell’euro (avvenuto nel Capodanno del 1999) ad annunciare ufficialmente l’uscita del suo paese dalla moneta unica. Nella sua nuova veste di presidente della Repubblica, il mite professore bolognese ha avuto l’ingrato compito di rivolgersi con un discorso televisivo a reti unificate alla nazione nella tarda serata di venerdì 30 maggio, proprio alla vigilia del week end della Festa della Repubblica. Anche se la notizia era stata anticipata qualche ora prima dalla emittente privata La7 (da più di un anno di proprietà di alcuni Fondi americani, e per questo spesso accusata di aver seguito un’agenda segreta sabotando in tutti i modi l’euro) non è certo mancato il pathos nel discorso di Prodi, al solito farcito di condanne morali della “speculazione” e di denunce dell’avidità della finanza, e denso di citazioni tratte dalla prima enciclica di Giovanni Paolo III, il pontefice africano da poco salito al soglio di Pietro.
Il presidente ha spiegato che il ricorso al mercato del debito era ormai diventato proibitivo per l’Italia a causa degli elevatissimi tassi che gli investitori impongono su Btp e Bot; e che dunque il paese aveva urgente bisogno di riappropriarsi di un’autonoma politica monetaria, per inflazionare il suo debito e recuperare competitività per le esportazioni, da sempre la valvola di sfogo di ogni crisi in Italia. In realtà, la quarta economia del continente è stata costretta ad abbandonare la moneta unica che ormai peraltro scarseggiava nel paese, provocando una paralisi nel consumo e negli investimenti tale da non lasciare altra scelta. 
Ora, come all’inizio degli anni Novanta, l’Italia punta a svalutare la sua nuova moneta, che non si chiamerà più “lira”, per evitare sgradevoli paragoni con il passato, ma “Azzurro” come il colore della Nazionale di calcio (nella inconfessabile speranza che una vittoria negli imminenti Mondiali tiri su il morale degli italiani). Purché però l’Azzurro non si svaluti troppo, impoverendo ulteriormente le imprese e le famiglie che nel breve lasso di un fine settimana hanno già visto i loro depositi bancari perdere gran parte del proprio valore. Anche l’attesa di una forte ripresa delle esportazioni, favorita da una moneta più debole, dovrà fare i conti con le decisioni che questa settimana saranno prese dal Consiglio europeo d’emergenza convocato a Bruxelles, che potrebbe escludere con effetto immediato l’Italia dal mercato unico, imponendo tariffe e dazi sui suoi prodotti. Per ora non si registrano fenomeni di assalto alle banche da parte dei risparmiatori, dopo i tre giorni di chiusura forzata degli sportelli imposti dal governo, ma bisogna considerare che nel corso dell’ultimo anno ingenti capitali hanno già lasciato il paese prima che scattassero i nuovi controlli valutari: si calcola una fuga di circa 500 miliardi di euro.
Ufficialmente la Banca d’Italia, che nella notte tra sabato e domenica ha ripreso a stampare moneta presso la nuova sede del Poligrafico dello Stato, ha fissato un cambio 1:1 tra Azzurro ed Euro. Ma è previsione comune degli economisti che l’Azzurro in breve tempo varrà non più di mille delle vecchie lire. Se così accadrà, chiunque abbia risparmi in Italia vedrà dimezzato il proprio capitale.
Gli effetti dell’uscita di Roma dal sistema-euro sono al momento ancora incalcolabili: sull’area nel suo complesso, dove innumerevoli istituzioni finanziarie e banche, a cominciare dalla Bce, sono creditrici dell’Italia possedendo titoli del debito che ora valgono nella migliore delle ipotesi il 50% del loro valore nominale; e sull’economia di quel paese che certamente subirà un colpo durissimo, se si considera che nel caso della Grecia il ritorno alla dracma è costato nel primo anno un crollo di circa il 40% del prodotto interno lordo.
La tempesta che ha travolto l’Italia negli ultimi due mesi ha avuto però ragioni più politiche che finanziarie. Si può anzi senza dubbio parlare di un caso di political slippage. La nuova maggioranza uscita dalle elezioni dell’anno scorso non è infatti riuscita a imporre al paese – e ai sindacati, che ne erano i grandi azionisti – la continuazione della politica di sacrifici e di riforme strutturali che il governo tecnico di Mario Monti aveva avviato nel 2012 e che era stata bruscamente interrotta dal voto anticipato del novembre di quell’anno. Fino ad allora era sembrato che il vascello dell’Italia potesse superare, seppure a fatica, i marosi della bufera che si era abbattuta sui paesi europei con alto debito. Ma quella politica è stata cambiata dal nuovo governo prima sotto la pressione di un elettorato stanco di austerità, che era stato corteggiato alle elezioni e al quale si è dovuto pagare un prezzo; e in seguito a causa di un serio errore di giudizio sul comportamento dei partner europei. Il governo Bersani ha infatti scommesso sull’ipotesi che fosse solo un bluff il nein tedesco al primo budget del neo-ministro del Tesoro Fabrizio Barca, pupillo della sinistra più radicale, che puntava a una politica espansiva e keynesiana per far uscire il paese da una lunga e dolorosa recessione. Probabilmente i governanti di Roma sono stati ingannati anche dalla componente Spd del nuovo governo di “grande coalizione” tedesco, apparsa almeno a parole più disposta della cancelliera Merkel a tollerare una deroga al fiscal compact da parte degli italiani, in nome del comune obiettivo della crescita. Negli ambienti del centrosinistra italiano molti danno la colpa di questo misunderstanding all’inesperienza del ministro degli Esteri, Rosy Bindi, un politico di lungo corso ma facile alle gaffe, che è stata risarcita con l’incarico della Farnesina della mancata elezione al Quirinale: da candidato ufficiale del suo partito è stata all’improvviso messa da parte per fare strada a Prodi. Ma il disastro politico va ben al di là di un pur loquace ministro. 
Quando la situazione dei conti pubblici italiani si è rapidamente deteriorata in ragione del forte aumento nella spesa pubblica per investimenti, e i mercati hanno ritirato la fiducia all’Italia nonostante quella spesa fosse ormai fuori dal conteggio del deficit grazie alla golden rule strappata da Monti durante il suo gabinetto, anche il socialista Hollande, fin lì il lord protettore europeo del “compagno” post-comunista Bersani, si è tirato indietro. La Francia, i cui conti non sono affatto in ordine e le cui banche sono state tra le più esposte prima alla uscita della Grecia e poi a quella del Portogallo, rischiava di fare la stessa fine sui mercati, con uno spread tra i suoi titoli e i “bund” tedeschi che ormai sfiorava quota 500. L’Eliseo non ha dunque potuto far altro che abbandonare Roma al suo destino per tentare di salvare il destino francese.
Ciò che veramente ha capovolto il tavolo europeo sul quale il governo italiano voleva giocare la sua rischiosissima partita è stato l’insuccesso del referendum in Francia all’inizio dell’anno. Dopo la Grexit, infatti, Berlino era stata pressata da Parigi, da Londra e da Roma perché accettasse finalmente un trasferimento di risorse all’interno dell’area e garantisse il debito dei paesi più esposti, condizioni ritenute ormai indispensabili per salvare l’intero progetto europeo. La Germania, guidata da un governo di “grande coalizione”, stavolta non ha detto no ma ha proposto uno scambio: più integrazione fiscale in cambio di più integrazione politica. Euro-bond in cambio di un euro-governo. Alla fine, è stata proprio la Francia a respingerlo. Di fronte alla possibilità che Bruxelles, cioè Berlino, potesse controllare e decidere in materie come le tasse, la spesa, la sanità, la difesa o la scuola, l’elettorato francese è stato percorso da un’ondata “sovranista” che ha fatto rivivere i tempi di de Gaulle, ha trasformato il Front National nel primo partito della destra francese e ha spazzato via il governo del socialista Ayrault che si era schierato per il sì nel referendum che doveva approvare il nuovo Trattato federalista. La vittoria del no è stata invece nettissima, con il 61% dei voti. E dunque il progetto di Hollande di un’Unione fiscale è saltato. A conferma del fatto che non è la Germania ma la Francia il paese che fissa il ritmo e il limite del processo di unificazione europea. Si è arrivati così al vertice decisivo di maggio quando, nel “si salvi chi può” generale, l’Italia si è trovata con le spalle al muro e con i mercati in fiamme. Dopo Atene e Lisbona, l’incendio è dunque arrivato al Colosseo.
A conferma di un’antica superstizione molto diffusa in Italia, dove si possono ancora trovare cinema o teatri nei quali si salta dalla fila 16 alla fila 18, la legislatura numero 17 era del resto nata fin dalle sue origini sotto una cattiva stella. Il suo parto prematuro fu infatti frutto del calcolo elettorale e della fretta, dopo l’improvvida caduta del governo Monti nel settembre del 2012. Ancora prima dell’estate tutti gli osservatori erano concordi nel prevedere che sarebbe durato fino alla scadenza naturale della legislatura, nella primavera dell’anno seguente. Invece il risultato elettorale di un limitato test elettorale amministrativo, svoltosi nel maggio di quell’anno, fece letteralmente perdere la testa ai partiti spingendoli a scelte poco ponderate e dettate dall’ansia di riconquistare un po’ di quel seguito popolare che si sentivano sfuggire tra le dita. Berlusconi, avvertendo un vero e proprio rischio di estinzione per il suo partito umiliato nelle urne e abbandonato dal tradizionale alleato della Lega, propose una “grande riforma” costituzionale che puntava a introdurre in Italia il semi-presidenzalismo alla francese ma in realtà serviva solo a riprendere l’iniziativa. Dal suo canto la sinistra, temendo che questa fosse una trappola e il preludio a un ritorno in campo di Berlusconi, certamente indebolito ma pur sempre temibile con il suo apparato mediatico in una competizione presidenziale, si convinse che era meglio rompere gli indugi e tentare di capitalizzare con un voto anticipato il vantaggio di cui godeva nei sondaggi. D’altra parte il partito di Bersani, nato in tempi relativamente recenti da una fusione tra reduci del Partito Comunista e della Democrazia Cristiana, era ormai insofferente alla politica di austerità del governo Monti e subiva la concorrenza a sinistra di nuove liste come quella del comico Grillo e di vecchi mestieranti della politica come Di Pietro. Così che nel partito le originarie posizioni riformiste avevano via via ceduto il passo a pulsioni più radicali e all’illusione che una grande operazione di stimolo keynesiano potesse essere consentita dalla ripresa elettorale della sinistra europea nel voto francese prima e in quello tedesco poi (speranza rivelatasi, come poi si è visto, infondata).  
Nell’ansia di sfruttare l’occasione unica che la storia sembrava offrire al Pd, da anni fermo intorno al 25-27% dei voti ma balzato al primo posto per la crisi verticale dell’avversario, Bersani non esitò a ricorrere al vecchio sistema elettorale che in Italia tutti conoscono come “porcellum”, con un intraducibile gioco di parole che fa riferimento al suo carattere truffaldino. 
Il risultato fu una frammentazione nel voto analoga a quella che aveva già portato la Grecia al default e all’uscita dalla moneta unica; ma corretta da un abnorme premio di maggioranza previsto nella legge. Per cui il partito di Bersani (che aveva presentato una lista unica insieme alla sinistra radicale guidata da un popolare governatore meridionale, Nichi Vendola), con appena il 33% dei voti si vide assegnare il 55% dei seggi alla Camera bassa; mentre al Senato, dove vigeva un differente sistema elettorale, non raggiunse la maggioranza e fu costretto a cercare alleati con cui scendere a patti.
Il voto fu sorprendente da molti punti di vista. Al secondo posto si piazzò il Movimento 5 Stelle patrocinato da Grillo, un ex cabarettista diventato leader politico e guru internettiano, l’unica forza nel cui programma c’era esplicitamente la proposta dell’uscita dall’euro e dell’insolvenza del debito. Solo terzo il Pdl. Non ebbe successo neanche la lista Italia futura, lanciata da Luca Cordero di Montezemolo, un manager molto noto come presidente della Ferrari, che si era presentata con un impegnativo programma di riforme liberali, ma il cui appeal mediatico non riuscì a scalfire il populismo dilagante nell’elettorato italiano, ormai agitato da pulsioni anti-establishment e anti-europee e in preda ai numerosi demagoghi che dominarono la campagna elettorale.
Si andò così alla formazione di un governo di sinistra, autosufficiente alla Camera bassa ma dipendente al Senato dal voto dell’Idv di Antonio Di Pietro e di una pattuglia di deputati di 5 Stelle in rottura con Grillo per scontri di potere interni al movimento. Il peggior viatico per un governo che era chiamato a una gigantesca opera di risanamento dei conti pubblici, di tagli alla spesa e di riforme impopolari necessarie per recuperare competitività.
Cominciò così quel breve e convulso periodo di tensioni sociali, di tentativi eversivi, di allarmi per l’ordine pubblico, che tutti in Europa hanno imparato a conoscere e che i media italiani hanno battezzato come “l’inverno della Repubblica”. Ogni scintilla della battaglia politica accendeva un incendio sociale, ogni scontro parlamentare ne provocava uno nelle piazze. Il primo incidente grave è avvenuto a Parma, in seguito alla provocatoria introduzione di una moneta virtuale da parte dell’immaginifico neo-sindaco Pizzarotti, seguace di Grillo: in un supermercato gruppi di giovani aderenti ai centri sociali di Bologna e di Milano hanno tentato di fare una spesa proletaria pagando con il “parmigianino” (così è stata denominata questa moneta telematica) invece che con l’euro. Ne sono derivati scontri con le forze dell’ordine chiamate dai titolari dell’esercizio, che invece pretendevano moneta sonante.
Più grave si è fatta in Campania la situazione dell’ordine pubblico, anche se per cause molto diverse. Si è verificato infatti, specialmente nella zona a nord di Napoli e nell’area che ha come epicentro il comune di Casal di Principe, un  forte incremento di episodi di violenza armata da parte delle bande camorristiche che controllano quelle zone, con attentati a negozi e commercianti, rapine in banca e veri e propri regolamenti di conti in strada e in pieno giorno. L’allarme per la sorte dell’euro ha infatti spinto le organizzazioni criminali, impegnate in traffici internazionali su larga scala, a riscuotere in breve tempo tutti i crediti delle loro attività delinquenziali, dal racket all’usura, presumibilmente al fine di portare all’estero le loro ingenti risorse e di sottrarle al possibile default.
Molto pesante anche la situazione dei servizi pubblici, dai trasporti alla raccolta dei rifiuti urbani, che è stata paralizzata seppure a singhiozzo per mesi dagli scioperi dei Cobas, un sindacato autonomo molto forte nel settore pubblico il quale pretendeva per i propri assistiti pagamenti in contanti invece che versamenti bancari. Decine e decine di comuni sono stati commissariati perché sommersi dai debiti, il più importante e il primo dei quali è stato quello di Palermo.
Ora che il governo Bersani si è dimesso e il presidente Prodi ha annunciato la data delle prossime elezioni, è chiaro che al prossimo governo toccherà un’opera di vera e propria ricostruzione nazionale. Il paese è sull’orlo di una tragedia civile e sociale con pochi paragoni nella sua pur turbolenta e millenaria storia. Commentatori e analisti danno per scontato l’esito di un parlamento frammentato e diviso, di nuovo nominato con il “porcellum”; l’unica soluzione politica plausibile sarà probabilmente la formazione di un nuovo governo tecnico che, come il primo riparò al disastro del centrodestra, ripari ora a quello del centrosinistra. E già sui giornali si invoca il ritorno di un Mario: Monti, che dovrebbe lasciare l’incarico di presidente permanente della Ue, ereditato da Van Rompuy, per salvare con l’Italia anche il progetto europeo; o Draghi, che sarebbe chiamato a prestare la sua ormai lunga esperienza di banchiere centrale alla madrepatria, nella speranza che possa un giorno tornare nella moneta unica e nel novero delle grandi nazioni europee.
 
2. Un giovane italiano al tempo della nuova lira, di Natale D’Amico
Roma, 29 giugno 2013
Oggi è sabato; sono stato a fare la spesa e a far benzina. Un salasso. Il pieno di benzina mi è costato 150 nuove lire (NL); le poche cose che ho comprato al supermercato 200 NL. I miei conti non tornano più. Dal mese scorso, quando l’Italia è uscita dall’euro, con un decreto legge è stato stabilito che in tutti i contratti lì dove c’era scritto euro si debba leggere Nuova Lira. La stamperia della Banca d’Italia, che evidentemente si era preparata per tempo, ha fornito la nuova carta moneta. Così il mio stipendio ora è pari a 2.000 nuove lire. È l’unica cosa per la quale il cambio è stato davvero uno a uno. Il giorno stesso del changeover, lunedì 19 maggio, nessuno è più stato disposto a pagare in euro; chi poteva si è fatto far credito dai negozianti; gli altri hanno stretto la cinghia, aspettando di ricevere lo stipendio, pur di poter conservare i pochi euro che avevano in casa. Nel giro di qualche giorno, i commercianti hanno aggiustato i prezzi: quel che costava un euro, velocemente ha preso a costare una NL e mezza; in qualche caso due. L’Istat è stata autorizzata a sospendere la pubblicazione dei dati sull’inflazione, con la scusa delle circostanze eccezionali che rendevano difficile fornire misurazioni corrette, ma con il vero obiettivo di non spaventare la gente. Secondo i miei calcoli, sul paniere della spesa nell’ultimo mese l’inflazione è stata pari ad almeno il 40%; ho fatto due conti, ed è come se il mio stipendio di 2.000 euro si fosse ridotto a poco più di 1.400. Non voglio neanche pensare cosa mi succede se si va avanti così; se non ho sbagliato a usare excel, già a settembre il mio stipendio si sarà ridotto all’equivalente di circa 500 euro.
La tragedia delle mie finanze personali non finisce purtroppo qui. Vivo in un piccolo appartamento, che ho comprato con l’aiuto dei miei genitori. Mi sono rimasti da pagare 100.000 ...

Indice dei contenuti

  1. Titolo pagina
  2. Prefazione, di Oscar Giannino
  3. Lo scenario
  4. 1. Quando Prodi ci fece uscire dall’euro, di Antonio Polito
  5. 2. Un giovane italiano al tempo della nuova lira, di Natale D’Amico
  6. L’analisi
  7. 3. Eurobond, eurobanche, euromercati, di Antonio Foglia
  8. 4. Come uscire da un’unione monetaria, di Forrest Capie e Geoffrey Wood
  9. 5. Separare la parte infetta, di Vito Tanzi
  10. Le conseguenze inintenzionali
  11. 6. L’Italia fuori dall’euro: cosa vorrebbe dire, di Pietro Monsurrò
  12. 7. Salvataggi bancari e utili idioti, di Alberto Bisin
  13. 8. La crisi dell’euro e le conseguenze politiche, di Carlo Lottieri
  14. Gli autori