Capitolo 1 – I bambini che giocano sulla sabbia
Oggi l’economia come materia di studio ha un grosso problema: i suoi metodi sono sbagliati e, pertanto, producono risultati sbagliati. Quei metodi pretendono di realizzare i dettami della nuova scienza teorizzata da Bacone, secondo cui «fin dall’inizio la mente non viene lasciata libera di seguire il proprio corso, ma viene guidata in tutti i passi, e l’attività procede come se fosse svolta da una macchina».{4}
È una situazione molto triste. È triste che gli economisti, in prevalenza uomini, credano ciecamente nella validità dei propri metodi meccanici e dei loro esiti. Offrono consigli ai governi e criticano l’uno il lavoro dell’altro, come se l’economia fosse una scienza esatta. Appaiono felici e orgogliosi delle proprie imprese virili. Indossano abiti eleganti, scrivono rapporti stilisticamente ineccepibili e forniscono dati convincenti. Quanto vorrei che avessero ragione! Sono intelligenti e lavorano indefessamente. Hanno seguito le regole che sono state sviluppate dai loro colleghi più brillanti. Sono persone serie e ben intenzionate. Non meritano di rappresentare una scienza priva di scoperte scientifiche. Nessun essere umano che abbia un minimo di pietà potrebbe rallegrarsi dei loro macroscopici errori.
Mi sento un po’ come una zia che osserva il nipotino di tre anni e i suoi amichetti giocare sulla sabbia. Sono così impegnati nel gioco, così pieni di fiducia e di vita, così sicuri di vivere la realtà. La zia sarebbe un vero mostro se si rallegrasse dei loro errori, se si compiacesse del fatto che confondono verità e finzione. Li asseconda e li rassicura. “Sì, Hans, stai costruendo un bellissimo castello di sabbia. È stupendo. Sì, Eric, va tutto bene”.
È questa la tristezza insita nei giochi dei bambini. Diversamente dai giochi delle bambine, che hanno quasi sempre qualche punto di contatto con la realtà, i giochi da spiaggia dei maschietti sono totalmente astratti, tranne per quei pochi bimbi che da grandi guideranno davvero una ruspa. (Potremmo fare un paragone con l’equivalente tecnologico dei vecchi giochi da spiaggia, i videogames. Forse preparano i ragazzini a pilotare un caccia, ma sono ugualmente lontani dalla realtà). Il fatto triste, inspiegabilmente triste, dell’economia moderna è che la maggior parte di ciò che dichiara di aver realizzato dal 1945 a oggi è pura finzione.
Una caratteristica sorprendente di questo fatto doloroso è la facilità con cui si può dimostrare la mia tesi “dall’interno”. Ciò che intendo affermare in questo libro non è difficile da capire. Non sono certo la prima a sostenerlo. E non è oggetto di controversia tra gli economisti. Beh, non proprio. La conclusione è controversa, perché dico che non si può salvare nulla di ciò che è stato realizzato con metodi sbagliati. Come osservavo prima, gran parte della teoria economica sviluppata dal secondo dopoguerra andrebbe ripensata ex novo. Quasi tutte le presunte scoperte “scientifiche” dell’economia andrebbero completamente riesaminate con un altro metodo per ottenere un minimo di credibilità. Questa sì che è un’affermazione controversa, ed esprimerla in maniera così compiuta vuol dire far salire la pressione a quasi tutti gli economisti. Se una tizia nega l’utilità di tutto il suo lavoro, potete ben capire perché un economista andrebbe subito in agitazione.
Ma le singole parti di ciò che mi accingo ad affermare non sono controverse; anzi, sono banali e prive di originalità. Se andate a trovare un economista nel suo studio e discutete serenamente con lui le tre componenti della mia argomentazione, converrà su ciascuna di esse, a condizione che gli parliate in tono pacato e ragionevole. (Sarà d’accordo, naturalmente, finché non ne intuirà le conseguenze e cercherà di salvaguardare il suo posto di lavoro; ma non riesco a immaginare nessuno che possa essere tanto vile e ascientifico). Purtroppo, se mettete assieme le tre parti, vi renderete conto che l’economia moderna è diventata molto simile ai giochi che fanno i bambini sulla sabbia. È abbastanza sorprendente: si possono dimostrare le falsità di una teoria scientifica con delle argomentazioni che incontrerebbero il consenso di tutti gli addetti ai lavori.
Non ho nessuna intenzione di fare arrabbiare i miei colleghi economisti, soprattutto perché vorrei che ascoltassero, veramente e per il loro bene, quello che dice zia Deirdre. Ma voglio chiarire il mio pensiero a tutti, inclusi gli economisti; perciò lo esprimerò nuovamente in una forma inequivocabile e, temo, anche irritante. Nessun economista è in grado di rispondere alle tre obiezioni principali che sollevo. E non perché io sia particolarmente intelligente, o perché le mie argomentazioni siano particolarmente raffinate. Gli economisti le conoscono già, e sanno che sono corrette. Alla luce di tali considerazioni, devono solo esaminare obiettivamente il proprio lavoro, che a quel punto si rivelerà per quello che è: un castello di sabbia.
Qui entra in gioco la sensibilità delle donne. Quello che le disturba è la pomposità maschile. Mentre mi trovavo in Olanda, ho provato a immaginare con altre colleghe come potevamo riportare l’economia nel mondo reale. Una di loro ha tirato fuori l’idea del sarcasmo femminile, che terrorizza sempre gli uomini. Ha detto in un contesto seminariale che una massa critica di donne avrebbe potuto facilmente indurre i colleghi ad assumere un atteggiamento meno spocchioso nei confronti dei loro giochi intellettuali. L’economista maschio che presentava l’ultimo modello econometrico o l’ultimo trucco statistico avrebbe ricevuto l’elogio imbarazzante che una zia affettuosa rivolge al nipotino di tre anni: “Bravo Eric, hai costruito un castello di sabbia meraviglioso. È molto più bello di tutti gli altri!”.
Non ho intenzione di ricorrere più di tanto al sarcasmo femminile in materia economica. Ma voglio spiegare perché sarebbe giustificato, e come la regina delle scienze sociali sia stata trasformata – dal secondo dopoguerra – in una sorta di castello di sabbia.
Come potete vedere, mi rivolgo sia agli economisti sia ai non-economisti. Voglio chiarire fin da subito a entrambi i pubblici che a mio giudizio l’economia è veramente la regina delle scienze sociali. È una straordinaria raccolta di strumenti intellettuali, rappresenta lo studio della prudenza. Qualunque economista può fornire centinaia di esempi che ne dimostrano l’importanza. Io stessa ho scritto un libro, intitolato The Applied Theory of Price,{5} che fa la stessa cosa, mentre insieme ad altri storici dell’economia ho dimostrato in che modo la prudenza può rappresentare un metodo per narrare la storia. Potete capire quanto sia meravigliosa l’economia dalla deferenza con cui vi si accostano i politologi, i sociologi e i giuristi. Nello stesso periodo in cui si è dedicata ai giochi da spiaggia, chiamiamoli così per brevità, l’economia ha esercitato una grandissima influenza sulle altre scienze sociali. Oggi le facoltà di giurisprudenza assumono economisti; le facoltà di scienze politiche sono imitazioni delle facoltà di economia; i sociologi apprezzano, correttamente, i modelli basati sulla scelta razionale; e i filosofi li usano per risolvere problemi secolari di giustizia. John Rawls, Robert Bates, Richard Posner, Robert Putnam, Robert Nozick e Jon Elster non sono degli sciocchi. L’economia è davvero speciale.
In altre parole, non sto cercando di sminuirne il valore. Non voglio che nessuno riponga il mio libricino dicendo: “Beh, grazie a Dio non ho bisogno di studiare l’economia; è un tale casino!”. Un sociologo che arrivasse a tale conclusione commetterebbe un errore. La prudenza è una motivazione comportamentale troppo importante per ignorare la scienza che la studia, come hanno fatto quasi tutti gli intellettuali a partire dalla fine del XIX secolo. E il capitalismo è un sistema economico che ha avuto troppo successo per lasciarne l’analisi nelle mani dei non-economisti. Io amo l’economia e ne ammiro sinceramente le tradizioni intellettuali. Non voglio assolutamente mettere fine alla discussione.
Anzi, mi paragono a una zia affettuosa, decisa a correggere un nipote dal grande potenziale che però ha preso delle cattive abitudini. Ne asseconda i giochi di fantasia quando ha tre anni, ma quando ne ha tredici o trenta lo costringe ad abbandonarli per fargli vivere una vita degna di questo nome. Se lo ama incondizionatamente, vuole che diventi un adulto sano ed equilibrato. Se pensassi che l’economia è una materia assurda, che i mercati e il capitalismo sono un male, o che gli economisti sono degli stupidi, non me la prenderei più di tanto.
Non voglio perciò che voi non-economisti vi rallegriate dell’imperfezione di questa materia strana e arrogante che si chiama economia. Se le mie tre critiche sono corrette, “imperfezione” è un understatement; e mi dispiace davvero dover dire che lo sono. Quasi tutta la produzione “scientifica” in campo economico, la maggior parte di ciò che appare sulle riviste di settore, non è solo banale – dopotutto, il grosso della scienza è banale, altrimenti avremmo tutti i giorni scoperte come quelle di Newton o di Einstein – è anche sbagliata. Le scoperte, le certezze, le raccomandazioni: è tutto sbagliato. Ma io sostengo, più in generale, che i piani degli esseri umani, anche in campo scientifico, non possono essere perfetti, e che da borghesi illuminati, umanisti consci delle proprie responsabilità civiche e membri della grande tradizione retorica occidentale, dovremmo abituarci alla nostra imperfezione. Anzi, a mio avviso, la causa dei tre vizi è proprio la ricerca di un meccanismo di perfettibilità tipica del “modernismo”.
I “vizi” a cui mi riferisco nel titolo del libro sono le tre cattive abitudini intellettuali portate nell’economia moderna dai tre più grandi pensatori degli anni Quaranta: Lawrence Klein, Paul Samuelson e Jan Tinbergen. Sono i vizi dell’osservazione, dell’immaginazione e della politica sociale. Vale a dire:
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Primo, la convinzione kleiniana che la “significatività statistica”, nel senso tecnico dell’espressione, coincida con la significatività scientifica.
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Secondo, la convinzione samuelsoniana che le “prove di esistenza” sviluppate teoricamente alla lavagna siano scientifiche.
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Terzo, e più importante dal punto di vista pratico, nonché giustificatrice delle altre due, la convinzione tinbergeniana che la prima e la seconda componente della pseudo-scienza – significatività statistica e dimostrazioni teoriche – si possano applicare nella costruzione dell’economia politica, per ottenere una sorta di ingegneria sociale.
Klein, Samuelson e Tinbergen sono stati tre grandi pensatori. Tuttavia il più grande dei tre è stato Tinbergen. Significatività statistica, dimostrazioni teoriche e ingegneria sociale sono tre importanti idee. Ma la più grande delle tre è l’ingegneria sociale.
Non sto scherzando. Quei tre erano dei geni: hanno ricevuto il premio Nobel per l’economia, rispettivamente, nel dodicesimo, nel secondo e nel primo anno dalla sua istituzione. Hanno segnato, influenzandosi a vicenda, la storia della disciplina negli anni Quaranta. Allora Klein era allievo di Samuelson. Tinbergen ispirò l’approccio adottato da Klein per adeguarsi ai modelli macroeconomici keynesiani – un programma, racconta Klein, suggerito dallo stesso Samuelson.
Io li ammiro sconfinatamente, e nulla di quello che sto per dire può offuscare la brillantezza delle visioni che svilupparono negli anni Quaranta. Abbagliarono anche me negli anni Sessanta, quando ebbi modo di ascoltarne le lezioni alla scuola di specializzazione. Ho conosciuto personalmente uno dei tre “grandi ingannatori”, e li ho seguiti fedelmente tutti e tre per decenni.
Ma nelle mani di alcuni dei loro discepoli meno sofisticati, come sono stata anch’io per molto tempo, le brillanti idee che hanno elaborato negli anni Quaranta si sono trasformate in castelli di sabbia. Quei bambini (le femmine si contano sulle dita di una mano) sono i figli o i nipoti intellettuali di Klein, Samuelson e Tinbergen. Intanto, i castelli di sabbia sono diventati altissimi, e la loro costruzione ha occupato molte carriere accademiche, ma sempre all’interno di quel piccolo recinto sabbioso. I loro giochi sono una mesta parodia della scienza di Smith, di Mill, di Keynes e persino di Klein, di Samuelson e di Tinbergen.
Le “virtù borghesi” del titolo sono i valori del mercato, che rappresentano effettivamente quanto di meglio possa esservi per il mondo moderno. Costituiscono a mio avviso le virtù precipue della vita intellettuale – una vita fiduciosa, negoziale e dialettica, disprezzata da un’aristocrazia basata sulla nascita o sul merito. Le virtù dell’agorà, del foro e del mercato non vengono particolarmente elogiate nemmeno dalla borghesia. Ma offrono un’alternativa alle virtù aristocratiche della torre d’avorio o alle semplicistiche e pragmatiche virtù campagnole, che secondo me, nel loro insieme, hanno ridotto l’economia in uno stato deplorevole.
“Virtù borghese” può sembrare un ossimoro, perché fin dalla metà del XIX secolo artisti e intellettuali non sono stati in grado di concepire la borghesia se non in termini di avidità. Ultimamente si è affermata una forma pacchiana di vita borghese, quella che dice: “Sì, voglio essere il numero uno. E allora? L’avidità è un bene. Non è stato Adam Smith a raccomandarla?”. No, Adam Smith non ha mai detto nulla di simile, e le virtù borghesi che analizzava vanno ben oltre il semplicistico motto: “Prendere, avere e conservare sono le parole da imparare”. Dunque non è intellettualmente opportuno, e neppure bello, per un economista, dichiarare che l’interesse egoistico lo ha portato ad acquisire i tre vizi. Le virtù della borghesia consiglierebbero serietà nell’approcciare i fatti, modestia nella costruzione delle teorie e prudenza nello sviluppo della politica economica. Ma nessuna di queste cose deriva dai tre progetti degli anni Quaranta. Nella scienza economica, le virtù borghesi possono fare uscire i bambini, e le poche bambine, dalle fantasie dei giochi da spiaggia e riportarli nel mondo reale.
Capitolo 2 – L’irrilevanza della significatività statistica
La prima tragedia che deriva dalla presunzione degli anni Quaranta si chiama “significatività statistica”. Questo concetto fu introdotto nell’economia negli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso da persone che conoscevano profondamente la statistica. Uno dei suoi più efficaci propugnatori è stato Lawrence R. Klein (1920-2013), economista della Università della Pennsylvania.
Per capire come una buona idea sia diventata una tragedia intellettuale, è necessario fare un esempio concreto. Oggi l’economia ce ne offre tantissimi.
Quando un economista vuole sapere, per esempio, se il salario minimo genera disoccupazione, guarda ai fatti. Ovviamente il salario minimo è una regolamentazione che vi impedisce di pagare la colf colombiana meno di 4 o 4,5 dollari all’ora, o di quanto stabilisce il Congresso. In quasi tutti i paesi esistono norme di questo tipo. Se il salario minimo generasse una disoccupazione elevata, la sua introduzione non sarebbe un provvedimento saggio, dal momento che i disoccupati stanno peggio dei lavoratori sottopagati. Per contro, se in realtà il salario minimo non creasse disoccupazione, potrebbe essere uno strumento utile.
L’economista si domanda: “Quali sono gli effetti reali?”. Dimenticatevi delle scelte partitiche o dell’impegno ideologico. Funziona o non funziona? Gli economisti tendono a porsi la domanda in questi termini, come potrebbero fare gli ingegneri. Non sono, come pensano spesso i non addetti ai lavori, solo ideologi svagati che non guardano mai ai fatti materiali. Sono persone pratiche. Come ho già detto, l’economia si potrebbe definire la scienza della prudenza. Sapere quali sono gli effetti del salario minimo è solo prudenza. Fin qui tutto bene. Nessuna tragedia, ma solo buon senso e realismo basato sui fatti.
Il problema – ed è uno dei più complessi che si pongono in economia – viene quando bisogna stabilire che cos’è un “fatto”. Un “fatto” è che la vostra colf colombiana sarebbe più felice se voi foste tenuti per legge a pagarle 4,5 dollari all’ora anziché i 3 dollari che forse sarebbe disposta ad accettare. Questo è chiaro, ed è la ragione per cui tante persone di buona volontà sono a favore di un salario minimo stabilito per legge. È difficile vivere decorosamente negli Stati Uniti se si percepiscono appena 3 dollari all’ora. Quale è la soluzione? Ne esistono diverse. Una potrebbe essere rendere illegale il pagamento di un salario inferiore al livello minimo di sussistenza.
Ma esiste anche un altro “fatto” dello stesso tipo, che potete vedere se ci riflettete un attimo sopra. Più alto è il salario che dovete pagare, meno è probabile che vogliate assumere la colf. Sì, forse sareste ancora disposti ad assumerla a 4,5 dollari all’ora anziché a 3 dollari. Ma ad alcuni un salario di 4,5 dollari all’ora potrebbe apparire eccessivo. Non è che non possano “permettersi” di pagarlo; è solo che non vogliono acquistare i servizi della colf a quel prezzo.
Piuttosto si adatteranno a fare le pulizie da soli. Oppure, se sono persone più abbienti, assumeranno una sola colf anziché due. Dopotutto, entro certi limiti una domestica si può assimilare a qualunque alt...