Dalla libertà alla schiavitù
Tra i tanti casi di deduzioni di buon senso circa gli affari sociali, che trovano aperta contraddizione nei fatti (come accade quando le misure prese per censurare un libro ne aumentano la circolazione, o quando i tentativi di prevenire l’usura aggravano i tassi per i debitori, o quando capita che vi sia una maggiore difficoltà nell’ottenere certi beni nei luoghi di produzione piuttosto che altrove), ce n’è uno che merita particolare attenzione: quanto più migliorano le condizioni dei tempi, tanto più ci si lamenta dei loro mali.
Quando la gente comune non aveva alcun potere politico, raramente si lamentava della propria soggezione; ma quando le libere istituzioni in Inghilterra raggiunsero un livello tanto avanzato che cominciarono a essere invidiate da tutti i popoli del continente, le accuse contro il governo aristocratico andarono ad aumentare. Finché si ebbe un grande allargamento del suffragio, seguito subito dalla lamentela per cui le cose non andavano bene abbastanza, per il desiderio di un ampliamento del suffragio ancora superiore.
Se osserviamo il trattamento riservato alle donne dai tempi più selvaggi, quando sopportavano ogni sacrificio e potevano mangiare soltanto se agli uomini avanza del cibo, al medioevo, quando toccava loro servire gli uomini a tavola, fino ai giorni nostri in cui i diritti della donna sono al primo posto, negli ordinamenti sociali, non possiamo non concludere che tanto peggiore era il male e tanto minore la coscienza di esso. Se pure oggi le donne sono trattate assai meglio che in passato, si lamentano ben più energicamente ogni giorno. E si lamentano tanto di più le donne di quello che viene comunemente considerato il “paradiso delle donne”:{1} l’America.
Un secolo fa difficilmente si sarebbe trovato un uomo che almeno ogni tanto non finisse sbronzo, e allora si veniva disprezzati in caso non si reggessero due o tre bottiglie di vino. Eppure, non c’erano proteste contro l’alcolismo. Oggi, dopo che cinquant’anni di validi sforzi da parte dei gruppi che avversavano l’uso smodato di alcol, e altre cause più generali, hanno portato a una società comparativamente sobria, ecco che da più parti si invocano leggi per prevenire gli effetti rovinosi del commercio di alcol.
Qualcosa di simile avviene nel campo dell’istruzione. Qualche secolo fa, per esempio, la capacità di leggere e scrivere era appannaggio esclusivo delle classi agiate. E nessuno si sognava di affermare che si dovessero istruire anche i lavoratori (o chi l’avesse affermato sarebbe caduto nel ridicolo). Ma al tempo dei nostri nonni, l’istituzione delle scuole domenicali,{2} sostenuta da alcuni filantropi, cominciò a diffondersi e venne seguita dalla nascita delle scuole quotidiane. Col risultato che all’interno delle masse le persone in grado di leggere e scrivere non furono più un’eccezione e, di conseguenza, anche la domanda di una letteratura più accessibile. Ebbene: fu proprio allora che si incominciò a lamentare il fatto che il popolo periva per assenza di conoscenza, e che lo Stato non doveva accontentarsi d’impartire l’istruzione, ma doveva renderla obbligatoria.
Il fenomeno si ripete per gli alimenti, il vestiario, le abitazioni e per tutte le altre necessità della vita.
Tralasciando gli Stati rimasti nella barbarie, c’è stato un progresso cospicuo dal tempo in cui l’uomo, non ancora civilizzato, viveva di pane d’orzo e di segale o di farina d’avena, ai giorni nostri, in cui il consumo di pane bianco di frumento è pressoché universale. Dal tempo in cui rozzi indumenti non coprivano le ginocchia e lasciavano nude le gambe a oggi, con le classi lavoratrici che, al pari dei loro datori di lavoro, si coprono tutto corpo con almeno un paio di strati di vestiario. Dal tempo delle capanne senza camino e dal secolo XV, quando anche la casa d’un benestante era priva di fregi e intonaci, a oggi, in cui il più umile casolare dispone di più d’un locale – le case degli artigiani di norma ne hanno più d’uno – e tutte sono egualmente dotate di focolari, camini e finestre a vetri. Tutte tappezzate, tutte verniciate e dipinte. C’è stato un grande progresso nella vita del popolo. Un progresso, indubbiamente, che si è andato accentuando negli ultimi tempi.
Chiunque, infatti, raffronti lo stato di oggi a quello di una sessantina d’anni fa, quando la piaga della povertà era molto più diffusa e molto più numerosi i mendicanti, non può non restare profondamente colpito se alle condizioni di allora raffronta le case spaziose che oggi occupa il ceto operaio, i migliori vestiti dei lavoratori, che si vestono di popeline la domenica, e quelli delle domestiche competono con quelli delle signore, e gli standard di vita più elevati conducono a una grande domanda per le migliori qualità di cibo da parte delle masse lavoratrici. Tutto ciò è il risultato di un duplice cambiamento: l’aumento dei salari e la diminuzione del prezzo dei beni, e una distribuzione delle imposte che ne ha sgravato le classi più povere e a danno di quelle più abbienti. Oltre a ciò, l’osservatore sarà anche colpito dal contrasto fra la modesta importanza che il benessere del popolo ricopriva allora nell’opinione pubblica e il posto che occupa ai nostri giorni, col risultato che, in Parlamento e fuori, i piani per portare beneficio a milioni di persone sono il pane quotidiano, e ogni uomo di mezzi si suppone sia pronto ad aderire a qualche sforzo filantropico.
Eppure, benché il livello intellettuale e fisico delle masse stia crescendo oggi a velocità ben maggiore che in passato, benché la diminuzione del tasso di mortalità stia a testimoniare come la vita, in media, sia meno dolorosa d’un tempo, mai come ora si sentono lamentele sulla sofferenza del popolo; mai si è ripetuto con tale veemenza che soltanto una rivoluzione sociale potrebbe porre rimedio a questo stato di cose. Di fronte a così evidenti progressi, assieme all’aumento della longevità che da solo sarebbe la prova di un miglioramento generale, si proclama che la società è giunta a uno sfacelo tale da dover essere distrutta e ricostruita dalle fondamenta.
Il fatto è che, in questo come nei casi già citati, alla diminuzione del male corrisponde l’aumento delle accuse contro di esso; quanto più si manifesta la potenza dello sviluppo naturale delle cose, tanto più si tende ad affermarne l’impotenza.
Con questo non si afferma che i mali a cui si vuole porre rimedio siano insignificanti. Nessuno pensi che, accentuando il paradosso, io voglia chiudere gli occhi sulle sofferenze di gran parte dell’umanità. Il fato della stragrande maggioranza delle persone è sempre stato, ed è tutt’ora, tanto triste da provare pena solo a pensarci. Senza dubbio il tipo oggi esistente di organizzazione sociale non può essere visto con soddisfazione da nessuno che abbia davvero a cuore il loro destino; e non c’è dubbio che molte delle attività che lo caratterizzano siano ben poco ammirevoli. Le inflessibili divisioni di rango e l’immensa diseguagli...