D'amore, di morte e di altri divieti
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D'amore, di morte e di altri divieti

Le ordinanze dei sindaci e la libertà individuale

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D'amore, di morte e di altri divieti

Le ordinanze dei sindaci e la libertà individuale

Informazioni su questo libro

Negli ultimi vent'anni, le politiche di sicurezza urbana e prevenzione della criminalità, finalizzate a contrastare la percezione di insicurezza dei cittadini, hanno assunto una portata sempre più ampia. Gli enti territoriali e, in particolare, i sindaci, ne sono divenuti i principali protagonisti: ma il potere – anche di fare del bene – può dare alla testa, ed è così esploso il numero di ordinanze emanate troppo spesso in modo incontrollato. Come mostra Lucia Quaglino in questo eBook, molte di queste ordinanze hanno l'obiettivo di vietare taluni comportamenti che, a ben guardare, non vanno a vantaggio della sicurezza dei cittadini: il risultato è dunque quello di ridurne i margini di libertà senza arrecare alcun tipo di beneficio, come dimostrano diversi studi riportati nel testo. Eppure una ordinanza tira l'altra: risolvono pochi problemi, ma piacciono molto agli amministratori locali.Il sospetto è che la motivazione di un generico "ordine pubblico" da garantire sia in realtà solo un pretesto per assecondare e compiacere umori e desideri dell'elettorato. Del resto, tali ordinanze sono spesso accomunate da una forte dose di paternalismo. Il potere nell'ambito della sicurezza urbana è così diventato un vero e proprio strumento di politica sociale, con obiettivi diversi da quelli dichiarati. Ma fino a che punto è accettabile che la mano di un pubblico amministratore s'intrometta negli stili di vita delle persone?Per l'autrice, occorre giungere a un ridimensionamento dell'uso di tale strumento: meno divieti e più responsabilità individuale, perché non sia un soggetto terzo a compiere scelte che competono esclusivamente ai cittadini.

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1. Introduzione

 
Negli ultimi vent’anni le politiche di sicurezza urbana e prevenzione alla criminalità, volte a contrastare la percezione di insicurezza dei cittadini, hanno assunto una portata sempre più ampia. A livello istituzionale, è sorto un dibattito in merito alle relative competenze, le quali sono state affidate talvolta a livello centrale, talvolta a livello locale.
Nel tempo gli enti territoriali e, in particolare, i sindaci, ne sono divenuti i principali protagonisti: ma il potere – anche di fare del bene – può dare alla testa, ed è così esploso il numero di ordinanze più dannose che utili. Molte sono infatti finalizzate a vietare taluni comportamenti che, a ben guardare, non vanno a intaccare la sicurezza dei cittadini, mentre invece ne riducono i margini di libertà.
Il sospetto è che, dietro alle motivazioni riconducibili all’ordine pubblico, ci sia anche una buona dose di paternalismo,{1} oltre a un’assuefazione smodata per la pianificazione, che spinge il decisore pubblico a orientare i comportamenti dei cittadini verso un determinato fine ritenuto da lui migliore o auspicabile. I poteri in ambito di sicurezza urbana diventano così dei veri e propri strumenti di politica sociale, con finalità pertanto diverse da quelle dichiarate.
In merito al paternalismo, si è soliti distinguere tra un paternalismo forte, riconducibile a un obbligo/divieto categorico da parte dei poteri pubblici, e uno debole, quando invece si tenta di orientare in maniera non coercitiva la scelta dei cittadini verso un certo fine (ad esempio, scrivendo sui menù dei ristoranti le calorie, in modo da indirizzare la scelta dei consumatori verso i cibi più sani). Nelle ordinanze sindacali si riconoscono entrambe le forme di paternalismo: da una parte, infatti, sono vietati alcuni comportamenti; dall’altra si influenzano gli atteggiamenti delle persone, in quanto sono sanzionati, a livello morale, comportamenti di per sé legittimi. Ne consegue una fortissima limitazione delle possibilità di scelta dei cittadini e un giudizio implicito sui loro comportamenti.
Tramite i divieti, quindi, più che tutelare la sicurezza urbana, si consolida ulteriormente il potere pubblico, che si estende sempre di più nella vita dei cittadini. Li si rende così sempre meno responsabili e sempre più dipendenti dall’intervento delle autorità pubbliche. In ogni caso, quale che sia il reale motivo, queste ordinanze fanno discutere: non si può evitare di chiedersi fino a che punto sia accettabile che la mano di un pubblico amministratore s’intrometta negli stili di vita delle persone, e qual è il limite di quella sfera di libertà individuale indispensabile che dovrebbe appartenere sempre e comunque a ogni cittadino. 
Una risposta univoca, probabilmente, non esiste, ma l’intento di questo pamphlet è dare qualche strumento per consentire una riflessione più approfondita in materia.
Come si vedrà nei vari capitoli, se da una parte alcune di queste ordinanze possono essere in parte giustificate dal fatto che effettivamente rispondono a un bisogno di sicurezza dei cittadini, dall’altra molte sembrano rispondere più a un bisogno dei sindaci di esercitare il proprio potere: sono state, infatti, emanate ordinanze "a cascata", come espressione degli interessi e della volontà politica in carica, più che come volontà di intervenire sui problemi di sicurezza urbana e incolumità pubblica.{2}
Le ordinanze, spesso fantasiose e spettacolari, quasi sempre anche generiche e frammentate, servono quindi ad assecondare e compiacere umori e desideri dell’elettorato, a scapito però della stabilità del diritto.{3} Tant’è che le norme in materia di competenze sindacali hanno creato molti dubbi a livello normativo e giurisprudenziale.
Ma il problema non è solo questo. Come detto, riguarda anche e soprattutto la sfera della libertà individuale, a oggi sempre più ridotta. Come scrive Fabio Corvaja in modo molto chiaro: «si ragiona di libertà che nascono naturalmente limitate o che per loro essenza implicano dei limiti, proprio al momento in cui il legislatore va costituendo poteri potenzialmente illimitati, la cui unica fenomenologia concreta è quella dell’abuso». L’autore propone quindi di «capovolgere la prospettiva, ritornando a quella propria dello Stato di diritto e del suo principio di ripartizione, che muove da una sfera di libertà in linea di principio illimitata del cittadino, alla quale si contrappongono poteri tendenzialmente limitati di intervento dello Stato».{4}
Dopo aver descritto come negli ultimi anni si siano alternate le competenze sulla sicurezza urbana tra i vari livelli di governo (secondo capitolo), si analizzano più nel dettaglio le diverse ordinanze sindacali: gli ambiti di applicazione, i destinatari e l’ammontare delle sanzioni. Come si vedrà nel terzo capitolo, le ordinanze tendono a essere molto generiche e simili tra loro: perché, allora, non preferire degli strumenti legislativi ordinari, così che i provvedimenti siano validi a livello nazionale?
Numerosi studi dimostrano che tali ordinanze sono spesso inutili per raggiungere i risultati auspicati, eppure una tira l’altra, come le ciliegie: risolvono pochi problemi, ma piacciono ai sindaci, che arrivano anche a stabilire come devono essere disposte le antenne paraboliche.
Ovviamente i sindaci ambiscono a essere rieletti, e per questo ritengono di dover intervenire sulla percezione di insicurezza dei cittadini (quinto capitolo). Eppure la percezione di insicurezza non corrisponde a un effettivo aumento dei reati, mentre sembra di più celare il bisogno di soddisfare il "senso per il paternalismo" degli italiani, che hanno poca considerazione per i valori di "responsabilità" e "responsabilità individuale" (che, secondo L’Indagine 2013 sui Valori della Nazione, sono agli ultimi posti tra i valori degli italiani) e preferiscono invece affidarsi a "qualcun altro". Addirittura gli italiani sarebbero disposti a pagare più tasse purché i comuni abbiano più risorse per intervenire sulla sicurezza.{5}
Questa mancanza di responsabilità sembra quindi giustificare e rafforzare la tendenza dei sindaci a fare uso di ordinanze, che diventano così strumento privilegiato per tutelare il potere e la portata dell’azione pubblica più che per proteggere la sicurezza dei cittadini, a scapito della loro libertà personale.
Non solo: nel sesto capitolo si spiega perché le ordinanze in questione sono anche discriminatorie, inefficaci, regressive, distorsive, moralistiche, invasive e pianificatrici dell’ordine sociale.
È quindi auspicabile un ridimensionamento dell’uso di tali strumenti: meno divieti e più responsabilità individuale, per dare ai cittadini la possibilità di raggiungere i risultati che desiderano e perché un soggetto terzo non scelga al posto loro sulla base di un obiettivo ritenuto da lui desiderabile.
 

2. Competenze e responsabilità in termini di sicurezza urbana: il dibattito e le fasi

A partire da metà degli anni ‘90,{6} il dibattito sulla sicurezza urbana in Italia si è inserito all’interno della questione della riforma federalista. Da allora si sono succedute varie fasi di negoziazione e competizione a livello istituzionale, che hanno visto alternarsi l’adozione di strumenti differenti e, soprattutto, il definirsi di responsabilità in capo a diversi soggetti (a livello centrale e locale). Nel tempo, gli enti territoriali e, quindi, i sindaci dei diversi comuni, sono diventati i principali attori delle politiche sulla sicurezza urbana.
Di seguito saranno brevemente analizzate tali fasi, per capire come si sia arrivati all’attuale contesto normativo e come siano state ripartite le competenze tra i vari livelli di governo.{7}
Prima fase (1998-1999): di negoziazione
L’origine di questo processo può esser fatta risalire al biennio 1998/1999, epoca in cui comuni e prefetture collaborarono, tramite i protocolli d’intesa, per redigere i cosiddetti "progetti per la sicurezza".
Seconda fase (1999-2000): politiche integrate di sicurezza
Le intese proseguirono anche nel periodo successivo, con la diffusione di quelli che furono chiamati "contratti di sicurezza".{8}
Nel 1999 fu approvata la riforma del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, con la quale, per la prima volta, venivano coinvolti anche il sindaco del comune capoluogo di provincia, il presidente della provincia e i sindaci degli altri comuni. L’anno successivo fu espressamente prevista la collaborazione permanente tra Stato, regioni ed enti locali per garantire al meglio la sicurezza urbana ed extraurbana.{9} Si auspicava così di dare il via a nuove politiche integrate di sicurezza, con una normativa nazionale che sostenesse e promuovesse una politica di sicurezza a livello locale.
Terza fase (2001-2005): dell’incontro mancato
Tuttavia tali strumenti non diedero i risultati sperati, tant’è che la terza fase (2001-2005) fu definita dell’incontro mancato:{10} falliti i tentativi di collaborazione e coordinamento, si rimase ancorati a un modello di sicurezza nazionale centralistico.
In quegli stessi anni si diffusero nuovi accordi, detti "di programma", sottoscritti direttamente tra regioni e ministero dell’Interno: anche questi, come i protocolli e i contratti, disciplinavano le modalità di collaborazione e integrazione tra i diversi livelli istituzionali. Tuttavia presentavano delle novità di contenuto, in merito a una serie di programmi specifici che consentissero di intervenire in modo più concreto sui problemi (tra cui la formazione professionale e congiunta degli operatori della sicurezza, ossia Polizia di Stato, Polizia Locale, Arma dei Carabinieri; l’attività di razionalizzazione delle Forze di Polizia, attraverso il coordinamento delle sale operative e l’eventuale collegamento con agenzie private di sicurezza; l’attua...

Indice dei contenuti

  1. Titolo pagina
  2. 1. Introduzione
  3. 2. Competenze e responsabilità in termini di sicurezza urbana: il dibattito e le fasi
  4. 3. Gli ambiti di intervento, i destinatari e le sanzioni
  5. 4. Fino a dove arriva la mano pubblica? Una ciliegia tira l’altra
  6. 5. Le percezioni e i valori degli italiani tra contraddizioni e paternalismo
  7. 6. Gli effetti indesiderabili delle ordinanze sindacali
  8. 7. Conclusioni