1. Le principali tappe della crisi
Nel 2009 la Grecia scopre di avere i conti pubblici in dissesto: il rapporto deficit/Pil è al 12,5%, il debito al 120% del Pil e la disoccupazione al 9,6% (raggiungerà poco dopo il 13%).
Mentre le agenzie di rating cominciano a tagliare il proprio giudizio sull’affidabilità del debito, il primo ministro George Papandreou è costretto a dar vita a programmi di taglio della spesa pubblica e aumento delle tasse. Comincia quella che i commentatori chiameranno “austerity”. Intanto il continuo rialzo dei tassi d’interesse accompagnato alla progressiva riduzione del Pil spingono Papandreou a cercare l’aiuto dell’Unione europea: il taglio della spesa pubblica serve a raddrizzare i conti nel lungo periodo, ma nel breve il governo ha disperato bisogno di liquidità per pagare stipendi e creditori.
Nasce così, negli anni successivi, la cosiddetta “troika” (Commissione europea, Bce, Fmi) che approva due piani di salvataggio, svalutazione dei crediti e altri prestiti per un valore complessivo di 380 miliardi di euro, ponendo in capo ai governi alcune condizioni. Perché la Grecia diventi prima o poi indipendente dagli aiuti internazionali è infatti necessario che attui quelle riforme strutturali, con obiettivo finale il pareggio di bilancio, che le permettano in futuro di tornare a finanziarsi da sola sul mercato. Fra grandi difficoltà e risultati non sempre incoraggianti, negli anni successivi, la Grecia riesce a seguire questa strada: con Papandreou, Papademos e Samaras la Grecia punta a correggere i conti pubblici chiedendo grossi sacrifici a tutti, creditori inclusi.
Nei successivi anni il Pil si è quasi sempre contratto, la disoccupazione è rimasta alta e il debito è tuttora poco sostenibile. Eppure la Grecia è finora riuscita a evitare il male peggiore: un default che, come vedremo, potrebbe distruggere non solo le finanze pubbliche ma la stessa economia reale. Questo percorso è andato avanti fino al 2015 quando, con l’elezione di Alexis Tsipras a primo ministro, il governo greco ha deciso di non seguire più, almeno alla lettera, le condizioni europee. Dopo mesi di impossibilità a chiudere un accordo, si è così arrivati a un referendum promosso da Tsipras sul piano di salvataggio proposto dall’Eurogruppo: il 5 luglio i greci lo hanno respinto con oltre il 61% dei voti contrari, contro il 39% dei favorevoli. In seguito Tsipras ha firmato un secondo accordo, per certi versi ancora più rigido del primo, in cambio di un nuovo pacchetto di salvataggio per una cifra compresa fra gli 82 e gli 86 miliardi di euro, di cui 24 al sistema bancario per evitarne la chiusura. I risultati sono ancora da vedere, ma l’ipotesi di uscita della Grecia dall’euro non è ancora scongiurata.
2. I sette miti da sfatare sulla crisi greca
i. L’austerity europea è la vera responsabile della crisi greca.
ii. La troika ha impoverito i greci, favorendo banche e speculatori.
iii. L’uscita dall’euro farebbe aumentare crescita e occupazione.
iv. A danneggiare la Grecia non sono stati tanto i politici corrotti, ma quelli che hanno accettato i diktat europei.
v. La spesa pubblica è stata un bene per i greci, il rigore dei conti un male non necessario.
vi. La troika fa pagare alla Grecia interessi sul debito spropositati.
vii. Senza l’euro la Grecia potrebbe finanziare da sé la spesa pubblica, senza aumentare le tasse, e azzerando così di fatto il peso del suo debito.
3. I conti pubblici vanno male: la crisi nasce da qui
Per analizzare le cause della crisi bisogna partire da una considerazione di base. Quella greca è una crisi del debito sovrano, cresciuto tanto da impedire allo Stato di ripagarlo. Prima di vedere i dati dobbiamo fare una premessa: al contrario di quel che si crede, la ricerca di liquidità sui mercati da parte di un governo non segue criteri tanto diversi da quelli seguiti da un privato.
Per capirlo facciamo un esempio molto semplice. Sono un normale cittadino che deve decidere a chi prestare una certa somma di denaro. Se non sono sprovveduto mi informerò sul conto dei potenziali debitori per scegliere, infine, quello che offre maggiori garanzie di restituirmi il capitale con l’interesse. Se Tizio è un giocatore d’azzardo e Caio un onesto padre di famiglia, è abbastanza ovvio che la mia decisione si orienterà su quest’ultimo. Tizio ha una sola strada per convincermi: aumentare gli interessi a mio vantaggio. A quel punto la mia scelta non è più così scontata. Se do 100 euro a Caio so che, al 99%, me ne ridarà 110 fra una settimana. Se li do a Tizio so invece che, sempre in una settimana, posso perdere tutto oppure avere indietro 150 euro, con un guadagno secco del 50% senza fatica. In presenza di una remunerazione potenziale più alta, la scelta dipenderà dalla mia propensione al rischio.
Con gli Stati vale grosso modo lo stesso principio. Se sono un investitore che deve decidere dove mettere i propri soldi, a parità di rendimento, dovrei sempre scegliere i titoli più sicuri. Perché mai acquistare i bond greci, se sul mercato posso trovare i più affidabili bund teutonici o, meglio ancora, i titoli di Svizzera e Liechtenstein che le agenzie di rating giudicano fra i più sicuri al mondo? Se lo faccio è perché sui titoli di Stato a dieci anni la Svizzera mi offre un rendimento di 0,091 (ad aprile era addirittura negativo), la Germania di 0,771, mentre la Grecia di 18,238 (dati del 6 luglio 2015) con uno spread di oltre 1.746 punti base. Nei primi due casi, calcolando l’inflazione, non ricavo nulla o addirittura perdo qualcosa, mentre nel terzo ci guadagno parecchio. Ciò a patto che, ovviamente, la Grecia non fallisca: in quel caso devo dire addio a tutti i miei investimenti.
Ma per quale ragione uno Stato è più affidabile di un altro? Fra le varie motivazioni troviamo, anzitutto, proprio il rapporto debito/Pil (più uno Stato è indebitato, più è facile che non ripaghi il proprio debito) in cui la Grecia – si fa per dire – primeggia.
Figura 1. Grecia, debito/Pil 2006-2015{2}
Figura 2. Germania, debito/Pil 2006-2015
Figura 3. Debito greco al confronto con la media dell’Eurozona
Dai tre grafici si nota chiaramente come la Grecia abbia un rapporto fra debito pubblico e prodotto interno lordo peggiore rispetto alla Germania e alla stessa media europea (per la precisione è il peggiore d’Europa). È ovvio che uno Stato che ha assommato debiti per una cifra pari a quasi il doppio della somma dei beni e dei servizi prodotti in un anno non possa offrire grandi garanzie di solvibilità. Ed è proprio per questo motivo che gli investitori, per assumersi il rischio default, chiedono tassi d’interesse più alti.
Un rapporto debito/Pil al 174% (salito al 177% nel mese di giugno) è quasi il doppio rispetto al limite che due economisti come Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff identificano come il massimo accettabile: a loro giudizio, infatti, un debito sopra il 90% del Pil non solo è difficilmente sostenibile, ma frena la stessa crescita economica creando un ostacolo insormontabile alla ripresa.{3}
Il rapporto debito/Pil non è però l’unico indicatore dello stato di salute di un Paese. Un altro parametro fondamentale è, ovviamente, il bilancio del governo che – tramite il rapporto percentuale deficit/Pil – dà la misura di quanto una nazione sta sforando il proprio budget (più si sfora, più si fa debito ed è difficile rimettere le cose a posto). Anche in questo campo la Grecia non è certo messa bene. Per capirlo paragoniamo i tre grafici di Grecia, Italia e Germania.
Figura 4. Grecia, rapporto debito/Pil dal 2006 al 2014
Figura 5. Italia, rapporto debito/Pil dal 2006 al 2014
Figura 6. Germania, rapporto debito/Pil dal 2006 al 2014
Dal confronto si nota chiaramente come la Germania, dopo una fase altalenante, abbia dal 2013 conseguito il pareggio di bilancio; l’Italia, dallo stesso anno, resta nel limite del 3% di rapporto deficit/Pil stabilito dal Patto europeo di stabilità e crescita. La Grecia, al contrario, partendo da un deficit sensibilmente più alto già nel 2006, non ha fat...