Venticinque% per tutti. Il dibattito
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Nicola Rossi

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Venticinque% per tutti. Il dibattito

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#25xtutti: per avere un fisco più semplice, più equo e più efficiente l'Istituto Bruno Leoni ha proposto una riforma radicale. Un'imposta ad aliquota unica (flat tax), un "minimo vitale" per un contrasto autentico alla povertà e una drastica semplificazione della spesa fiscale.La proposta dell'IBL e l'ampio dibattito ospitato da Il Sole 24 Ore sul tema, ripreso poi da altri organi di stampa, ha costretto un po' tutti a tornare a discutere dell'impalcatura del sistema fiscale, e non soltanto di micro-interventi, di volta in volta considerati salvifici.In questo libro il lettore può ritrovare tutti gli interventi apparsi all'interno di quel dibattito, assieme alle repliche degli studiosi che hanno elaborato #25xtutti (Nicola Rossi ma anche Paolo Belardinelli, Eugenio Somaini e Dario Stevanato).

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Informazioni

Editore
IBL Libri
Anno
2018
ISBN
9788864403489

Un rapporto diverso fra Stato e cittadini: flat tax e minimo vitale, di Nicola Rossi{1}

La proposta avanzata dall’Istituto Bruno Leoni (#25%pertutti) e l’ampio dibattito ospitato dal Sole 24 Ore sul tema della flat tax e ripreso poi da altri organi di stampa ha costretto un po’ tutti – pensiamo – a tornare a discutere dell’impalcatura del sistema fiscale, e non soltanto di micro-interventi, di volta in volta considerati decisivi. In questa ricca discussione, sviluppatasi grazie alla lungimiranza di Guido Gentili, le critiche che ci sono state mosse sono state ora di merito, ora invece – sia detto senza polemica – di carattere ideologico.
Prima di affrontarle, è il caso, però, di tornare sulla motivazione di alcune delle scelte di fondo presenti in quella proposta.
Le motivazioni
Perché un’aliquota unica per tutte le principali imposte del sistema? La proposta IBL lascia al 25% l’aliquota dell’IVA ordinaria, fissa allo stesso livello le aliquote dell’IRES e delle imposte sostitutive e unifica sempre al 25% le aliquote IRPEF. Non si tratta – come è stato scritto – di una scelta dettata dalle esigenze della comunicazione. Individuare una sola aliquota per le imposte principali significa anche rendere meno semplice l’utilizzo delle aliquote come strumento di politica tributaria. L’idea che incrementi di specifiche aliquote possano essere percepiti, valutati ed eventualmente sanzionati dagli elettori al momento del voto ha mostrato tutti i suoi limiti: l’esempio delle addizionali IRPEF (annegate nelle righe delle buste paga) lo testimonia ampiamente. La variazione di volta in volta di questa o quella aliquota è diventata, al contrario, la strada bipartisan più semplice e meno dolorosa per reperire risorse senza spesso sopportarne le conseguenze. Disporre di un’unica aliquota rende, al contrario, gli aumenti dell’aliquota stessa immediatamente chiari, comprensibili e quindi sanzionabili E può contribuire a spingere le forze politiche a scontrarsi su altri parametri più immediatamente decifrabili (e valutabili da parte degli elettori). Sulla quota di reddito esente da imposta e, dunque, sul peso da attribuirsi alla diffusione della povertà. Sulla progressione della stessa quota esente al crescere del reddito. Sul rapporto fra quota esente e caratteristiche familiari. Sulla complessità del sistema fiscale e sul rapporto fra fisco e contribuenti.
Perché una progressività per deduzione? Di progressività non ce n’è una sola e il ricorso alla morale è un espediente piuttosto patetico per evitare la scelta fra forme diverse di progressività. La realtà dei fatti è che forme diverse di progressività implicano concezioni diverse del rapporto fra il cittadino e lo Stato. Nella progressività per scaglioni (associata a una tendenziale gratuità della fornitura di servizi pubblici) lo Stato chiede sempre di più al crescere del reddito. Nella progressività per deduzione (associata – come nella proposta IBL – a una tendenziale fornitura dei servizi pubblici a titolo oneroso per i contribuenti più abbienti) lo Stato offre sempre di meno al crescere del reddito. Nel primo caso, si valuta positivamente una intermediazione significativa e potenzialmente senza limiti delle risorse da parte dello Stato. Nel secondo caso, si considera desiderabile che lo Stato limiti la propria presenza nell’economia e nella società e non costringa oltre un limite dato i margini di libertà dei singoli. Che l’IBL sposi senza infingimenti la seconda tesi non è un mistero. Rimane da capire perché mai i sostenitori della prima tesi si rifugino dietro il ricorso alla morale anziché riconoscersi, in modo trasparente, in una tradizione di pensiero per cui l’azione dello Stato è una “variabile indipendente”.
L’obbiettivo della nostra proposta è, infine, una riduzione netta della pressione fiscale (e, contestualmente, della spesa). In un Paese con la fiscalità che ha l’Italia è quasi ridicolo chiedersi perché: ma sono in molti, in realtà, a pensare che più che abbassare le tasse si debba fare nuova e maggiore spesa (possibilmente a debito). I fatti sono lì per smentirli. Si è interpretata la recessione successiva alla crisi del 2011 come una recessione come tante altre. Più lunga, certo. Più severa, forse. Ma da trattare con i rimedi di sempre: un po’ di disavanzi pubblici e il motore sarebbe ripartito. Ovviamente così non era. Le recessioni che seguono a una crisi finanziaria sono un animale del tutto diverso. Richiedono, per essere superate che il campo di gioco venga prontamente sgombrato dalle macerie e finché ciò non è fatto versare benzina (a debito, per giunta) in un motore non funzionante è del tutto inutile. Oggi, con colpevole ritardo, un po’ di detriti sono stati finalmente rimossi, la polvere sollevata dalla crisi comincia a posarsi e riemergono con nettezza i problemi di sempre: quelli che da oltre vent’anni ci consegnano un tasso di crescita della produttività e ritmi di crescita largamente inferiori alla media europea. Continuare a battere la strada dei pannicelli caldi (un po’ di decontribuzioni qui, qualche nuovo bonus lì, sempre a debito) è, a questo punto, ancor di più una inutile sfida al buon senso. Le questioni strutturali vanno affrontate in termini strutturali. Il peso del pubblico nell’economia e nella società italiana è una di esse. Nasconderselo non serve a nulla.
Le critiche
Ciò premesso, veniamo alle critiche. Da un punto di vista economico – sostiene Alberto Bisin (“Tutti i limiti della flat tax”, La Repubblica, 19 luglio 2017) – «è ben possibile che [la proposta configuri] il sistema fiscale migliore date le condizioni politiche del paese» ma da un punto di vista economico essa «non configura certo un sistema fiscale ottimale».
Più in dettaglio la “non ottimalità” della proposta deriverebbe dal fatto che la stessa «non tiene sufficientemente in conto l’opportunità di trasferire il carico fiscale da redditi a consumi». Le imposte indirette valgono oggi poco meno del 20% delle entrate tributarie. Dopo la proposta il peso delle indirette passerebbe al 30%. Le imposte dirette passerebbero, invece, da poco più del 49% al 36%. È ancora poco? Non è “ottimale”? O non sarebbe piuttosto, innegabilmente, un passo avanti senza precedenti? Il meccanismo di finanziamento dei servizi pubblici descritto nella proposta avrebbe, inoltre, gravi difetti in termini di incentivi. Un meccanismo assicurativo e obbligatorio di finanziamento della sanità simile a quello ipotizzato dall’Istituto Bruno Leoni è in vigore in Olanda dove è esteso all’intera popolazione (e non solo alla popolazione più abbiente come nel nostro caso) e dove una sorta di fondo di garanzia interviene per evitare le disfunzioni citate da Alberto Bisin. E che dire dell’università (un altro campo in cui la logica della proposta IBL potrebbe essere facilmente applicata)? Sarebbe “inefficiente” o in qualche senso “subottimale” chiedere ai contribuenti più abbienti di sostenere il costo dell’istruzione universitaria dei loro figli (e di non godere invece, come accade oggi, di un sussidio indebito)?
Ma al di là di questo o quello specifico aspetto, è la critica in sé che lascia perplessi. Se questo fosse il principale punto debole della proposta, come nei migliori courtroom movies verrebbe infatti naturale dire: «Grazie, Vostro Onore, non ho altro da aggiungere». Una proposta di politica economica – e in particolare di politica fiscale e sociale come quella in discussione – cerca di superare i limiti del sistema vigente, di ovviare alle sue principali carenze, di evitare le sue più evidenti distorsioni. Nel farlo, è importante avere come punto di riferimento la teoria economica ma, naturalmente, a una proposta di riforma complessiva non si chiede di essere necessariamente “ottimale” (nel senso che gli economisti attribuiscono a questa espressione). Il termine di paragone – in altre parole – non può che essere la situazione attuale o, meglio ancora (come vedremo oltre), le evoluzioni della situazione attuale qualora prevalesse l’idea di tenere fermi alcuni principi cui si ispira l’attuale sistema tributario e, in particolare, la struttura dell’imposta personale.
Passiamo quindi al merito, dando per note le caratteristiche essenziali della proposta. Ci è stato rimproverato (in particolare, da parte di Vincenzo Visco, “Un fardello pesante per i ceti medi”, Il Sole 24 Ore, 29 giugno 2017) di voler aumentare le imposte indirette, di voler penalizzare il ceto medio, di mettere a rischio il servizio sanitario nazionale e persino di volere una semplificazione di facciata. Nel primo caso, siamo di fronte a una lettura frettolosa della proposta. Ci siamo limitati a ipotizzare che non vengano disinnescate le clausole di salvaguardia già in vigore che prevedono che l’aliquota ordinaria IVA passi al 25% dal 2018 (l’aliquota ridotta al 13% nel 2020). Su questo fronte, in altre parole, non si propone nulla di diverso da quanto già nelle cose. Nel secondo caso, invece, non si tiene adeguatamente conto di due aspetti: la differenziazione geografica del “minimo vitale” (per cui la perdita registrata da alcuni contribuenti meridionali non è in realtà tale in termini reali) e il bizzarro disegno del cosiddetto bonus 80 euro (i cui beneficiari registrano comunque nel complesso una riduzione e non un aggravio di imposta). Se se ne tenesse adeguatamente conto, si arriverebbe facilmente a conclusioni diverse. Nel terzo caso, infine, si dimentica che il contributo sanitario richiesto ai più abbienti verrebbe definito in ogni suo aspetto dalle singole Regioni ivi incluse le modalità di opting out: non è francamente difficile immaginare soluzioni in grado di tenere insieme la tenuta del sistema sanitario nazionale con il valore segnaletico dell’opting out. Infine, sulla semplificazione saremmo molto curiosi di poter comparare le 124 pagine (da 5.500 battute ciascuna) di istruzioni del modello Redditi 2017 con quelle che seguirebbero alla nostra proposta.
Sulla stessa linea è stato osservato (sempre da Alberto Bisin) che la proposta «limita fortemente la progressività delle imposte». Quale progressività? Ci si rende conto che la progressività dell’imposta personale è oggi limitata ai soli redditi da lavoro dipendente e da pensione inferiori ai 30mila euro circa di imponibile? Non ricordiamo moti di indignazione sull’argomento, per quanto ce ne sarebbero i motivi. Ci si rende conto che la progressività nominale del sistema vigente è largamente vanificata dalla fornitura tendenzialmente gratuita dei servizi pubblici? Siamo certi che rovesciando l’impianto logico del sistema (minore progressività nominale e fornitura tendenzialmente onerosa per i contribuenti abbienti dei servizi pubblici) l’equità del sistema non ne possa guadagnare? Non dice nulla la prevalente composizione sociale degli elettorati delle forze politiche che sostengono o avversano la proposta (o simili proposte)?
Andando più nello specifico, alcune riserve sono state espresse (da Giorgio Spaziani Testa, “TASI sostituita con una ‘Service Tax’ a carico dei fruitori dei servizi”, Il Sole 24 Ore, 13 luglio 2017) circa il trattamento fiscale degli immobili implicito nella proposta con particolare riferimento alla tassazione degli immobili non locati e al ruolo dei Comuni nella determinazione delle rendite catastali. Qui è appena il caso di segnalare due aspetti. Primo, la proposta implica un favor significativo per gli investimenti immobiliari rispetto agli investimenti a carattere finanziario. Se le rendite di questi ultimi sono infatti tassate con l’aliquota unica al 25%, le rendite catastali (rientrando all’interno dell’imponibile IRPEF) sono tassate in base all’aliquota media effettiva che tocca il 25% solo per imponibili particolarmente elevati. La differenza non è da poco ed è particolarmente significativa per i contribuenti con imponibile basso o medio. Secondo, ai Comuni la proposta riserva più che la determinazione delle rendite catastali un ruolo attivo nella individuazione degli abusi catastali, e con esso un ruolo attivo nella determinazione del gettito relativo allo specifico Comune.
Una diversa critica riguarda invece l’ipotesi che ai redditi oggetto di integrazione al minimo vitale si applichi un’aliquota marginale al 100% (Stefano Toso, “Una perdita di gettito difficile da assorbire”, Il Sole 24 Ore, 6 luglio 2017). La questione riguarda, ad esempio, il caso di un giovane senza lavoro per il quale la proposta prevede che il minimo vitale venga erogato per un numero limitato di anni e che a partire dal secondo anno il minimo vitale venga erogato in proporzione decrescente in contanti e in proporzione crescente sotto forma di un voucher contributivo non cedibile e utilizzabile da qualunque datore di lavoro a fronte dei suo obblighi contributivi e fiscali derivanti dall’assunzione di quella persona. Il che, com’è ovvio, attenua fino quasi a escluderla l’ipotesi di una aliquota marginale pari al 100%.
Rimane aperta una questione rilevante così sintetizzabile: «sarebbe bello, ma nelle condizioni date di finanza pubblica non possiamo permettercelo» (Giampaolo Galli e Lorenzo Codogno, “Bisogna ridurre la spesa, poi agire sulla pressione fiscale”, Il Sole 24 Ore, 4 luglio 2017). Certo, se non avessimo dissipato i proventi della pur timida spending review realizzata fra il 2014 e il 2016 il tema non si porrebbe. Ma purtroppo così non è e sappiamo bene che in una prospettiva di stabilizzazione del debito, l’avanzo primario – oggi all’1,5% circa – dovrebbe essere portato verso il 4%. Non ci sarebbero, dunque, margini per un diverso utilizzo di eventuali ulteriori risparmi sul versante delle spese. L’argomento è serio, ma ci sembra di avere risposto immaginando una transazione graduale al nuovo sistema. La proposta ipotizza che il passaggio al nuovo regime non potrebbe intervenire prima di un triennio e che gli interventi in grado di determinare un calo di gettito si produrrebbero contestualmente al manifestarsi dei risparmi derivanti dalla revisione strategica della spesa. Si noti che il quadro programmatico contenuto nel DEF 2017 già oggi prevede per il 2020 un avanzo primario (strutturale e non) molto vicino al 4%. Il che suggerisce che la proposta sia, in questi termini, finanziariamente praticabile. Salvo che, naturalmente, non si ritengano del tutto infondate le previsioni del governo. Ovviamente tutto ciò presume che già dalla prossima legge di bilancio non si continui a disperdere le poche risorse disponibili in mille inutili rivoli. E che la riforma venga realizzata in un contesto di disciplina e di rigore di bilancio. Che è essenziale per la credibilità della stessa, tanto più in una condizione della finanza pubblica difficile come la nostra.
Corollario a questa argomentazione è quella (dovuta ancora ad Alberto Bisin) secondo cui la proposta non sarebbe finanziariamente sostenibile perché non sostenibile sarebbe la corrispondente riduzione delle spese. In realtà la proposta IBL costa, a regime, 27 miliardi di euro interamente coperti da tagli di spesa. È appena il caso di ricordare che nel corso degli ultimi quattro anni sono stati operati tagli di spesa per 30 o 40 miliardi (a seconda delle fonti), purtroppo sciaguratamente dispersi senza molto costrutto. Il solo completamento del lavoro avviato da Carlo Cottarelli e Roberto Perotti potrebbe determinare una ulteriore riduzione delle spese per almeno circa 13 miliardi di euro. La revoca di alcuni irragionevoli recenti provvedimenti di spesa e la sostituzione di istituti assistenziali o prevalentemente assistenziali resi obsoleti dalla proposta consentirebbe di completare il lavoro. Se si vuole trovare un punto di attacco della proposta – che non a caso prevede un adeguato periodo di transizione per salvaguardare i conti pubblici – questo è fra i meno indicati.
Pensiamo così di aver risposto anche alla prima critica di marca “ideologica”: quella per la quale l’aliquota sarebbe troppo elevata (il 25%) e che pertanto sia opportuno immaginare percorsi ancora più aggressivi (Armando Siri, “Uno strumento utile al rilancio dei consumi”, Il Sole 24 Ore, 29 giugno 2017). È possibile che un abbassamento della pressione fiscale produca un’emersione della base imponibile e, pertanto, un aumento del gettito. Ma non è su queste basi che si può gestire la finanza pubblica di un Paese con un debito pubblico come quello italiano. Di converso, sarebbe un errore sottostimare l’effetto che potrebbe avere una aliquota veramente “unica” (il 25%): abituando gli italiani – come si è già segnalato - a considerare criticamente ogni aumento del prelievo.
La seconda critica “ideologica” viene, per così dire, dal fronte opposto. Riguarda la presunta superiorità etica della progressività per scaglioni (Enrico De Mita, “Perché il principio della progressività resta cruciale per il nostro sistema fiscale”, Il Sole 24 Ore, 28 giugno 2017, e Vincenzo Visco, ad esempio). Solo la progressività per scaglioni, si dice, aiuterebbe a fronteggiare le diseguaglianze. Premesso che – in punta di teoria – la recente ricerca economica ha prodotto risultati molto ambigui circa il profilo delle aliquote marginali al crescere dell’imponibile finendo per considerare la combinazione di un’aliquota piatta e di un “minimo vitale” come quella più vicina all’ottimo, nel concreto le convinzioni dovrebbero fare i conti con i fatti. Nel sistema attuale con una mano si applicano alle fasce più abbienti della popolazione aliquote marginali piuttosto elevate e con l’altra si concedono gratuitamente o quasi alle stesse i servizi pubblici (dalla sanità all’università fino ad arrivare – incredibile dictu – alla stessa assistenza). Non sarebbe più trasparente nei confronti dei cittadini, chiedere ai più abbienti fra di loro di pagare i servizi di cui usufruiscono a fronte di una diversa struttura dell’imposta personale?
Infine, l’arma “fine-di-mondo”: la proposta risentirebbe di un «forte impianto ideologico di stampo liberista» (Alberto Bisin, per tutti). È una affermazione francamente bizzarra. A molti sfugge, evidentemente, che, nelle previsioni ufficiali, la pressione fiscale per il 2020 è marginalmente superiore a quella prevista per il...

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