Imposizione fiscale e libertà
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Imposizione fiscale e libertà

Sottrarre e ridistribuire risorse nella società contemporanea

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Imposizione fiscale e libertà

Sottrarre e ridistribuire risorse nella società contemporanea

Informazioni su questo libro

«A questo mondo non v'è nulla di certo tranne la morte e le tasse». Così scriveva Benjamin Franklin al fisico francese Jean-Baptiste Le Roy il 13 novembre 1789, ma forse in poche altre realtà come nell'Italia odierna queste parole, che accostano morte e imposizione fiscale, suonano angosciose. Le cifre parlano infatti chiaro per quel che riguarda le ricadute della nostra fiscalità sulle attività produttive e, dunque, su quanto costituisce condizione di ogni sostentamento e progettualità.Alla base di questa abnormità del prelievo fiscale nel nostro paese vi è peraltro l'esasperazione di presupposti tipici dell'età moderna, studiati con accuratezza soprattutto dalla tradizione liberale propriamente detta, la quale non ha mai mancato di evidenziare nello Stato, e nell'ideologia che lo sorregge, la radice ultima del problema del progressivo incremento dei poteri coercitivi fiscali.È allora con l'accettazione di una mentalità "impositiva", inculcataci fin dalla nascita, che bisogna confrontarsi (anche) quando si parla di fisco (termine che in origine designa il patrimonio pubblico e non uno specifico settore amministrativo destinato alla riscossione dei tributi); una mentalità per la quale lo Stato, ammantato da un'aura sacrale, di tutto sarebbe chiamato a incaricarsi e, dunque, tutto potrebbe pretendere.Daniele Velo Dalbrenta è docente di Filosofia del diritto nel Dipartimento di Scienze giuridiche dell'Università degli Studi di Verona. Nel 2014, insieme a Carlo Lottieri, ha curato per IBL Libri il volume Libertates. Stato, politica e diritto alla prova delle libertà individuali.

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Informazioni

Capitolo 1. La tassazione oggi: la reductio ad unum dell’obbligo politico, di Luigi Marco Bassani

Al sorgere dell’età moderna le fila del “politico” e del “giuridico” si intrecciavano fino a diventare del tutto inestricabili. La fuoriuscita dal “cosmo medievale”, da quell’universo di relazioni forti che intrappolavano il soggetto in una dimensione religiosa e di appartenenza comunitaria, avviene sotto il segno di un potere irresistibile e auto-fondantesi che, nel corso del tempo, abbiamo chiamato “Stato moderno”. «Nel corso di alcuni secoli si determina e si afferma progressivamente e inesorabilmente una organizzazione del potere del tutto diversa da quelle che l’hanno preceduta».{50} E lo Stato ha rappresentato in primo luogo una forma di semplificazione estrema dei rapporti sociali, una riduzione a unità di quella che era stata la molteplicità di centri, di piani di vita, di vissuti, e di lealtà che costituivano l’esperienza millenaria dell’uomo europeo.
Sulla via di questa semplificazione i progetti politici della modernità sono svariati e, per certi versi, ordinati sia gerarchicamente, sia cronologicamente. Il primo è la costruzione di un’unica sala di comando, un unico centro volto a svuotare la società della sua frammentazione: l’unità politica parte da un centro, monarchico o parlamentare, in grado di riordinare l’esistente al fine di azzerare tutto ciò che si frappone fra l’autorità politica e l’individuo. Il secondo progetto politico del moderno, quello che diventa palese con il consolidarsi delle monarchie assolute, è la costruzione del “diritto pubblico”, ossia la tendenziale coincidenza fra ordinamento giuridico e politica.
La caratteristica unica della statualità è quella di ricoprire di vesti giuridiche il fenomeno politico. La “nuda politica” appartiene ai tempi passati, o a popolazioni semibarbare. A partire dalla piena affermazione dello Stato, e segnatamente nell’età del suo trionfo, tutta la politica è stata reinventata e incasellata nelle categorie concettuali del diritto pubblico. Non solo quella dei secoli e dei luoghi che hanno concretamente conosciuto una politica di matrice statuale, ma anche quella di epoche o di aree differenti. Il diritto pubblico europeo è per sua stessa natura “imperialista”. Non riconosce altro che concetti e categorie formatesi all’ombra della plurisecolare evoluzione dello Stato. E vuole chiamare “diritto” ciò che in realtà sono rapporti di forza fra gruppi umani.
Se molti anni fa Gianfranco Miglio metteva in guardia gli studiosi sul fatto che fosse «necessario […] liberarsi dall’idea che i rapporti politici possano essere convertiti in rapporti giuridici: diritto e politica sono da sempre due realtà autonome ed eterogenee», egli era comunque ben consapevole che alla base della costruzione statuale stava appunto la fondamentale convinzione (finzione) di poter descrivere in termini “giuridici” rapporti di carattere eminentemente politico. Miglio, che segnalava solo “un’interferenza strutturale” fra i due fenomeni, reputava fallimentare il bilancio di quattro secoli di costruzione del diritto pubblico.
L’impresa che la moderna teoria giuridica si era proposta – trasporre ed esaurire la politica entro l’ordinamento giuridico – si rivela del tutto utopica, e destinata, fin dal suo sorgere, al fallimento.{51}
Ma da quale punto di vista si può parlare di fallimento? Per Miglio era chiaro: le due realtà erano inconciliabili, il diritto pubblico è una contraddizione logica, dato che tutto il diritto è negoziazione privata.{52} Quindi il fallimento è di natura intellettuale, al punto che occorrerebbe, per amor di verità, che «la scienza politica […] [si imponga] quale a-valutativo punto di partenza proprio di questa scoperta»,{53} ossia l’irriducibilità del politico al giuridico, dell’ordinamento giuridico allo Stato.
E tuttavia, se lo sguardo si sofferma anziché sulle storture logiche e sugli affanni dell’ideologia statuale, sugli esiti della modernità in termini di comando di un piccolo gruppo umano su una vasta moltitudine, sul suo dispiegarsi quale grandiosa macchina per la creazione di cittadini a partire da un materiale grezzo quale quello umano, il bilancio appare tutt’altro che fallimentare. Lo Stato ha creato cittadini assai docili e pienamente consapevoli di dover ottemperare con consistenti dazioni di sangue o di danari, a seconda delle necessità storiche, alle richieste del Leviatano.
I fallimenti sono piuttosto tutti sul versante dei tentativi di porre limiti allo Stato moderno e alla sua pretesa di considerare le vite e le proprietà dei cittadini alla mercé della classe al potere. Le vesti giuridiche di cui si agghinda lo Stato mostrano certamente le corde dal punto di vista scientifico (proprio come sottolineava Miglio), ma sono ancora in grado di produrre ciò che nessuna altra organizzazione politica nella storia ha mai neanche lontanamente sognato: un controllo capillare delle vite dei propri sudditi.
Nel corso degli ultimi secoli lo Stato appariva agli ingenui commentatori della politica come un docile strumento per finalità più elevate: la costruzione della Nazione, il trionfo di una razza, il ribaltamento dei rapporti di produzione capitalistici. Ancora oggi non di rado ci si imbatte in frettolose affermazioni quali «lo Stato è ciò che noi lo facciamo essere». È evidente che tale ingenua concezione non dà conto in alcun modo della realtà delle istituzioni politiche moderne, che hanno una loro oggettività e logica, e non si prestano affatto a essere analizzate sulla base del fine che servono. Max Weber, com’è ben noto, riteneva inammissibili le descrizioni dello Stato moderno fondate sui presunti fini di quest’ultimo, perché, come ci spiega uno studioso, «le comunità politiche hanno di volta in volta perseguito ogni concepibile fine e l’hanno potuto fare senza perdere le loro caratteristiche di Stato moderno».{54}
No, lo Stato non è affatto un docile strumento delle classi al potere, o delle concezioni politiche dominanti. Ha ben ragione Paolo Grossi quando definisce lo Stato «lo schema ordinante di una precisa realtà storico-politica [...] una categoria storica dall’intenso valore interpretativo [...] caricato di una storicità intensissima». Lo Stato è «inequivoco nei suoi contenuti politico-giuridici: [...] Un macrocosmo unitario che tende a porsi come struttura globale munita d’una volontà onnicomprensiva. Stato è cioè [...] l’incarnazione storica di un potere politico perfettamente compiuto».{55}
In questo senso, ossia nella prospettiva dell’obbligo politico, vale a dire dello Stato quale garante di un’obbligazione globale da parte dei cittadini nei suoi (loro stessi?) confronti, il bilancio, per tornare alle osservazioni precedenti, non appare certo disastroso. Lo Stato è, fra i vari modi che l’esperienza politica occidentale ha sperimentato per organizzare le convivenze umane (polis, civitas, res publica, imperium), quello che maggiormente fa diventare automatico l’obbligo politico, ossia legittima la coercizione rendendola pienamente accettabile. E ciò, naturalmente, è il sottoprodotto principale e più duraturo del reinventarsi della politica in termini di diritto pubblico.
1. L’obbligo politico: l’autoaffermazione dell’ordinamento
Il tema dell’obbligo politico (political obligation) appare per la prima volta nelle Lectures on the Principles of Political Obligation, di Thomas Hill Green. All’inizio del saggio Green chiarisce che per “obbligo politico” egli intende «sia l’obbligo del soggetto verso il sovrano, del cittadino verso lo Stato, e le obbligazioni degli individui fra di loro, fatte rispettare da una entità politicamente superiore». Green vuole mostrare la funzione morale delle leggi e di un sistema di diritti «e così facendo scoprire il vero fondamento o la giustificazione per l’obbedienza alle leggi».{56} Se l’intento della ricerca era quello di chiarire le profonde differenze esistenti fra i tre tipi di obbligo (politico, giuridico e morale), il bilancio di Green è assai deficitario. L’obbligo politico risulta un semplice puntello morale per il rispetto assoluto dell’intero ordinamento.
Fin dalla sua comparsa nel panorama degli studi il tema dell’obbligo politico si presenta come il fondamento del rispetto delle leggi: di una visione della cittadinanza quale obbedienza al sistema di diritti e doveri imposto dall’ordinamento giuridico. Il tema è evidentemente tutto sorto all’ombra dello Stato e per certi versi un mero riflesso del suo trionfo. Una meccanica dell’obbedienza e dell’accettazione generale delle leggi è sottintesa a qualunque analisi sul significato degli obblighi del cittadino.
«Avere un’obbligazione politica equivale ad avere un dovere morale di obbedienza nei confronti delle leggi del proprio Paese o Stato», così esordisce una recente voce su political obligation della Stanford Encyclopedia of Philosophy.{57} Non dissimilmente venti anni fa Lorenzo Ornaghi scriveva: «La questione generale dell’obbedienza all’autorità si specifica nei termini […] del “perché” e “fino a quando” gli individui si sentono – si devono sentire – “moralmente” obbligati a prestare obbedienza al potere dello Stato».{58}
Per Thomas Green lo Stato era il vero vettore delle libertà umane: se da un lato doveva espandere la sfera dei diritti e delle opportunità dei cittadini, esso aveva anche il dovere morale di utilizzare la sua forza per aiutare «i cittadini come corpo collettivo a dare il massimo e il meglio di loro stessi».{59} La visione della libertà che vien fuori in una delle sue ultime conferenze è davvero molto lontana da quella liberale classica. Seppure la «libertà, rettamente intesa, è la più grande benedizione e il suo conseguimento è il vero fine di tutti i nostri sforzi in quanto cittadini», occorre comunque abbandonare subito l’antica nozione di «libertà da vincoli o obblighi».{60} Addirittura, Green adombra l’idea che la libertà sia essenzialmente una competizione, tanto che essa «può essere goduta da un uomo o da un gruppo umano al costo della perdita della libertà da parte di altri». Si tratta quindi di un bene a fortissima “rivalità nel consumo”, che solo lo Stato può produrre, giacché si fonda sul «potere positivo […] di fare o godere di qualcosa che valga davvero esser fatto o goduto […] qualcosa che facciamo o godiamo in comune con gli altri». È proprio questa dimensione interamente collettiva e relazionale – nella quale lo Stato ha anche il compito di gerarchizzare i “godimenti”, di stabilire ciò che ha (deve avere) valore per gli individui – che produce un obbligo politico generale. Thomas Green, come accennato, non aveva certo risolto il problema che si era prefisso, ossia di distinguere i tre tipi di obbligazione: politica, morale e giuridica, ma il tema rimane collegato al suo nome.
2. Passerin d’Entrèves: consenso e libertà
Green era stata una lettura importante di un maestro del Novecento italiano, Alessandro Passerin d’Entrèves, che lo aveva incontrato non appena arrivato a Oxford, ossia nel 1928,{61} ed era stato affascinato dall’idea di sviscerare l’obbligo al quale «è sottoposto l’uomo come cittadino, in quanto membro […] di una comunità giuridicamente organizzata e socialmente coesiva».{62} Occorreva tentare di giustificare i «vincoli di dipendenza che abbracciano l’uomo dalla culla sino alla tomba». La ricerca dell’autore inglese gli sembrava fondamentale giacché, «ridotta alla sua espressione più semplice, la domanda alla quale ogni pensatore politico non può sfuggire è pur sempre una sola: perché l’uomo deve obbedire a un altro uomo?».{63}
Qui Passerin d’Entrèves riprende in parte la definizione del politico resa celebre da Étienne de La Boétie, ma la declina in modo diverso. Nel suo Discorso sulla servitù volontaria de La Boétie poneva il problema nei termini del come mai alcuni individui comandano e altri obbediscono. Il “mistero dell’obbedienza civile” era quello di
Riuscire a comprendere come sia possibile che tanti uomini, tanti paesi, tante città e tante nazioni talvolta sopportino un tiranno solo, che non ha altro potere se non quello che essi stessi gli accordano, che ha la capacità di nuocere loro solo finché sono disposti a tollerarlo, e che non potrebbe fare loro alcun male se essi non preferissero sopportarlo anziché opporglisi […] Se accadesse soltanto in paesi stranieri e in terre lontane, e ce lo venissero a raccontare, chi di noi non penserebbe che si tratta d’invenzione, di una trovata, e non della verità? Per di più, non c’è bisogno di combattere questo tiranno, né di toglierlo di mezzo; si sconfigge da solo, a patto che il popolo non acconsenta alla propria servitù.{64}
Ma lo studioso aostano pone contestualmente il problema del perché. Se secondo de La Boétie, «la prima causa della servitù volontaria è l’abitudine»,{65} per Passerin il dovere dell’obbligo politico non è un mero riflesso condizionato dalla storia. Egli è convinto che vi sia una «differenza sostanziale fra l’obbligo politico e gli altri molteplici doveri che si pongono all’uomo». Sarebbe un obbligo «globale [che] implica e convalida tutta una serie di altri obblighi, astraendo dai casi singoli e imponendo comportamenti che possono talora trovarsi […] in aperto e tragico conflitto con l’obbligo morale».{66} Ed egli avverte anche che «l’obbligo politico può essere un potente sonnifero» nei confronti della coscienza, giacché «può risolvere […] gli scrupoli morali».{67}
A suo avviso, la domanda «perché bisogna obbedire alle leggi?» è quella «centrale della filosofia politica» e in un suo saggio del 1973 si chiede alfine qual...

Indice dei contenuti

  1. Title page
  2. Presentazione
  3. Introduzione. Quod non capit Christus, rapit fiscus, di Daniele Velo Dalbrenta
  4. Parte I - Profili storico-teorici
  5. Capitolo 1. La tassazione oggi: la reductio ad unum dell’obbligo politico, di Luigi Marco Bassani
  6. Capitolo 2. Quale giustificazione morale per il fisco e, quindi, per lo Stato? Elementi di dottrina cristiana per la giustificazione dell’autorità politica, di Andrea Favaro
  7. Capitolo 3. Stato fiscale e giustizia sociale, di Pio Marconi
  8. Parte II - Per un’analisi politico-economica
  9. Capitolo 4. La concorrenza fiscale tra ordinamenti, di Roberto Baggio
  10. Capitolo 5. I rapporti tra imposizione fiscale e libertà individuale nell’ordinamento italiano alla luce del dibattito sulla funzione redistributiva del tributo, i diritti proprietari e la libertà di iniziativa economica, di Andrea Giovanardi
  11. Capitolo 6. Libertà e fisco. Come ripensare il patto fiscale?, di Paolo Silvestri*
  12. Parte III - Tre casi di studio
  13. Capitolo 7. Imposizione fiscale e libertà: il caso veneto, di Gian Angelo Bellati
  14. Capitolo 8. Proprietà, eguaglianza e competizione tra sistemi. Considerazioni sul caso Apple-Eire, di Carlo Lottieri
  15. Capitolo 9. Origini e particolarità del sistema fiscale elvetico, di Paolo Pamini*
  16. Gli autori