parte ii / il paese che verrà
I nodi dell’identità afgana
Fabrizio Foschini
La natura dei rapporti che intercorrono tra la società afgana e le istituzioni statali che la governano ha attratto da secoli l’interesse degli osservatori. Un aspetto particolarmente rilevante di questi rapporti è quello relativo all’adesione o meno, da parte della popolazione, a un’identità nazionale trascendente rispetto alle comunità etno-linguistiche, regionali e tribali. L’immagine proposta dell’Afghanistan è stata a volte appiattita su quella di un paese di inconciliabili minoranze etniche perennemente in lotta fra loro. Molti autori concordano sostanzialmente nel definire quello afgano uno stato atrofizzato rispetto alla società, identificata principalmente nella società rurale, e necessariamente contrapposto a essa.
Eppure, dal punto di vista della mera legittimità, lo stato afgano – o meglio, l’idea di “stato afgano”, se non le sue declinazioni contingenti – ha goduto a lungo di quella che si definirebbe una “cattiva salute di ferro”. Nonostante da ormai quattro decenni perdurino conflitti armati tra i vari governi susseguitisi e i gruppi di ribelli che vogliono rovesciarli, non si è mai assistito alla nascita di movimenti separatisti o autonomisti. I ribelli di turno rivendicano il diritto a governare sostituendosi alle élite al potere, che condannano da un punto di vista politico o religioso, ma non estendono la loro critica all’idea stessa di statualità afgana, né in nome di spinte centrifughe di parti del paese, né secondo criteri di inclusività transnazionale d’ispirazione religiosa o etnica.
La mancata apparizione di questa linea di faglia in un conflitto così longevo e distruttivo sembrerebbe smentire la criticità attribuita al mosaico etnico. Eppure la presenza di comunità etno-linguistiche distinte ha rivestito un’importanza sempre crescente negli ultimi decenni, fino a diventare il fattore forse più significativo nel determinare percezioni e priorità all’interno del gioco politico afgano.
Una società segmentata
Durante gli anni Settanta e Ottanta del Novecento, antropologi e storici, dovendo descrivere la società afgana d’anteguerra, hanno enfatizzato alcuni dei suoi aspetti più radicalmente “altri” rispetto alle società occidentali. Tra questi: la coesistenza di autorità governative e tribali / di villaggio, queste ultime dotate di codici di riferimento etici alternativi alle leggi statali e di peculiari forme di “democrazia assembleare”; l’assenza di monopolio della violenza da parte dello stato e la relativa estraneità e indifferenza della popolazione rispetto alla vita politica nazionale, limitata a circoscritte élite di Kabul; la pervasività delle aqwam (sing. qawm), comunità o meglio gruppi di solidarietà più o meno consanguinei, nel regolare la vita degli individui. Tutta l’enfasi veniva quindi posta sulla segmentarietà della società afgana, il cui unico riferimento universale era costituito dall’islam, con l’unico caveat della molteplice e instabile origine dei segmenti comunitari, non equiparabili a classici gruppi etno-linguistici, ma piuttosto a gruppi tribali, locali o persino sociali.
Anche durante la successiva guerra civile degli anni Novanta e dei primi Duemila, l’attenzione degli studiosi si è concentrata sulle forme parastatali di organizzazione della società, in particolare sul fenomeno dei cosiddetti “signori della guerra” che si spartivano il controllo del territorio. Le vistose peculiarità etico-giuridiche dell’entità statale che ha unificato sotto il proprio controllo la maggior parte del territorio afgano tra il 1996 e il 2001, l’Emirato islamico dei Talebani, e la sua breve durata, hanno invece comportato una lacuna nella valutazione del suo rapporto dialettico con la società in termini di rappresentatività e identità.
Anche i numerosi studi sulle modalità con cui i Talebani hanno mobilitato segmenti rilevanti della società afgana nella nuova fase del conflitto tutt’ora in corso, pur registrando regolarmente la presenza di un discorso “nazionalista” tra le strategie di comunicazione e propaganda messe in atto dai Talebani, non si sono soffermati abbastanza sul contenuto specifico e sui recipienti di questo messaggio. D’altra parte, le ricerche sulla società afgana nel nuovo assetto istituzionale – incentrate sui meccanismi politici, la società civile o i giovani – di norma commissionate e spesso compilate da stranieri, hanno fatto proprio un tabù già squisitamente afgano: quello di non affrontare direttamente il tema delle identità etniche.
Tabù culturali
La definizione dell’identità, etnica e nazionale, rappresenta infatti in Afghanistan un argomento difficile, la cui superficie convenzionale “di facciata” può difficilmente esser scalfita senza offendere la sensibilità di una o più spesso di tutte le parti coinvolte. Nonostante i recenti sviluppi indichino come la questione identitaria sia fondamentale per leggere il futuro prossimo dell’Afghanistan ancor più che il suo passato recente, l’analisi riguardo alle percezioni identitarie esistenti in seno alla società è ancora piuttosto ferma.
Il dato standard d’anteguerra, di cui si ha ancora traccia palpabile nell’atteggiamento di molti afgani, specie di estrazione urbana e di età media, è l’elusività da eccessivi riferimenti alla propria appartenenza etnica come affatto privi di tatto e potenzialmente pericolosi. Questo tabù culturale contiene una buona dose del paternalismo con cui i sovrani afgani che hanno governato il paese nei decenni precedenti al conflitto portavano avanti un blando discorso patriottico al di sopra delle diseguaglianze tra le comunità che lo costituivano. Per buona parte del Novecento tali diseguaglianze sono state ricondotte all’arretratezza di molte regioni rispetto alla capitale e alle poche zone sviluppate, ma anche a una sottintesa egemonia di gruppi sociali e comunitari in base alla...