L’Italia verticale
di Raffaele Nigro
Dalle Langhe agli Iblei, cime, colline, vallate
Guardo la penisola con le spalle al Mediterraneo e gli occhi all’Europa. Ho di fronte un tentativo complicato di riunire gli Stati europei in una confederazione sempre più spaccata da vicende storiche diverse. Ho di fronte a me un’organizzazione politica decisa a tagliare la penisola in due tronconi e a chiudersi progressivamente in una fortezza economica che intende sfidare anche l’eternità. Quella moria lenta dell’Impero austro-ungarico così ben definita da Claudio Magris si è andata cristallizzando in una congerie di paesi spaventati dalle invasioni extracomunitarie e vicine al carattere arcigno e reazionario della Gran Bretagna. Alle mie spalle c’è invece un continente agitato da un pulviscolo di paesi di diversa colorazione culturale ed economica che guardano al vecchio continente come alla meta negata della felicità. Ma davanti a me c’è anche una penisola lunga, sezionata in aree storicamente segnate da divisioni antiche e che da tempo provo a guardare secondo una visione politica e geografica non più strutturata in Italia settentrionale, centrale e meridionale. L’immagine di una finestra spalancata su un universo nuovo o su un modo diverso di concepire il futuro. A cominciare dal beneficio che portano l’aria pura, i cibi sani, una concezione più lenta della vita. La vera guerra aperta alle pestilenze del cancro e della nevrosi.
Mi appare allora una cultura tirrenica alla mia sinistra, una adriatica a destra e il grande Appennino al centro. Questa catena di montagne, di valli, di colline funge, nella mia lettura geografica dei due continenti che ho sotto i piedi e davanti agli occhi, come un’ascissa terrosa e floristica che lega l’Europa e il Mediterraneo. Il Sud è storicamente il luogo della povertà e della fuga. Il Nord quello della ricchezza e oggi della difesa a oltranza dei confini. A questa arteria montana gli abitanti dei Sud mediterranei si aggrappano, intenzionati ad attraversarla tutta o in parte per cercare una vita diversa, a volte il respiro della stessa vita. Mi appare dunque un’Italia lunga e in piedi, un’Italia verticale, un colosso di Rodi con la testa nelle pianure ricche dell’Europa e i piedi nella miseria del Mediterraneo.
Queste tre fasce geografiche hanno espresso nei secoli altrettante forme di culture e di strutturazioni del territorio, che oggi vogliamo definire e descrivere nelle loro diversità e peculiarità, convinti che una riflessione intorno al loro modo di presentarsi dia vita a un approccio culturale economico e politico assolutamente diversificato e tale da far superare quella separatezza che l’Italia ha vissuto e vive tra un paese di polentoni e uno di terroni, tra un mondo borbonico, uno papalino e uno leghista.
Cominciamo da sinistra.
Trovo che il Tirreno abbia prodotto una cultura creativa, della ricerca di luoghi lontani, stimolata dall’immensità del mare, il luogo della mente che si aggetta verso la Spagna e di lì verso l’Atlantico, il luogo della mente inquieta, che cerca, animata dalla poesia, dal sentimento, dal sogno e dalla fantasia. Il Tirreno, con le sue coste a picco, ha fatto sentire gli abitatori dell’area come schiacciati contro il mare, li ha visti sempre in posizione di fuga, come pronti per spiccare un salto. Le Repubbliche marinare in primis. La mente febbrile di Caboto e Colombo a seguire. E insieme l’ansia e la disperazione di chi lasciava Napoli per l’America dove si andava a cercare fortuna. E poi le grandi flotte dei Doria e dei Costa, approdate in tempi moderni nelle navi della Costa Crociere e della Msc.
Il Tirreno è anche il mare su cui, purtroppo, sono approdati i fenomeni malavitosi fioriti in Spagna e migrati in Italia a partire dal Trecento. La conquista spagnola dell’Italia meridionale ha fatto sì che il malaffare si aggrappasse alle nostre coste e seminasse in Campania la camorra. Cui hanno fatto seguito nell’Ottocento la mafia in Sicilia e dai primi del Novecento la ’ndrangheta in Calabria. Sono consequenziali? Io non lo so, sta di fatto che i tre fenomeni malavitosi hanno aggredito e abitato tutta la costa meridionale del Tirreno. Tutti e tre nell’antico Vicereame e nel Reame. Da dove si sono poi diffusi nel mondo intero. Creando forme di Stato nello Stato e di bubboni creativi ma violenti e parassitari. Il Viceregno era un governo che agiva per conto del re lontano e che aveva il compito di spremere le casse dei regnicoli. I quali hanno praticato l’arte dell’inganno nei confronti di uno Stato che non sentivano come proprio. Un’arte che ha prodotto una forma di disprezzo e di sottrazione delinquenziale alle leggi. Ciò che si continua a praticare al giorno d’oggi e che si è fatta globale.
Sull’Adriatico si è impiantata invece una cultura del commercio e del contrabbando. Lo stesso che si praticava nelle zone di confine delle Alpi.
C’era un tempo il mare di Venezia, una Repubblica che fondava sui commerci e sulla conquista dei mercati la propria politica. La strettoia del mare non permetteva che nascessero altri mercanti e neppure grandi viaggiatori marini. Gli statuti marinari di Trani furono bloccati dai veneziani e Bari, che ebbe qualche fortuna nel medioevo, cominciò a temere il mare con i Turchi. «All’armi all’armi la campana sona/ so’ sbarcati li Turchi alla marina!».
Una spinta alla conoscenza non mancò tuttavia neanche su questo mare. La praticò Marco Polo, ma da giovane rampollo di una famiglia di mercanti provò a cercare a dorso di cavalli luoghi di compravendita in Estremo Oriente. Mentre padre Matteo Ricci partì per obbedire ai progetti di evangelizzazione dettati da Ignazio di Loyola.
In generale Venezia operava una politica di conquista e di dominio. Penso ai Balcani, all’Albania, a Corfù. E in questa operatività le razzie e i furti praticati da marinai adriatici divennero memorabili con le spoglie di san Matteo, san Nicola, santa Eufemia, san Trifone.
Ma nel Centro e nel Sud dell’Adriatico ancora oggi la mercatura è quotidiana, e quotidiani gli scambi. Magari non si accarezzano grandi idee e grandi progetti. Anche adesso, nonostante trent’anni di arrivi dalle sponde balcaniche, la vicinanza non ha mai suggerito forme di sopraffazione economica e i nostri cuochi hanno aperto ristoranti in quei paesi. Perché la costa balcanica ha sempre avuto rapporti di scambio con l’Italia, dalle invasioni degli Illiri alla civiltà dei Romani e poi su verso Ladislao di Durazzo signore anche di Napoli, fino a Scanderbeg che si riconosce vassallo degli Aragonesi e a Bona Sforza regina di Polonia e poi ancora a Elena di Montenegro e Sofia d’Austria che il giovane Franceschiello venne ad aspettare sul porto di Bari. Un sogno di impero ci fu solo durante il fascismo, ma fu un fenomeno finito in burletta se non in tragedia.
Al centro dei due schieramenti marini resta un territorio alpestre e boschivo che è la spina dorsale dell’Italia, l’Appennino. Una catena di montagne che ritengo esprima da sempre una cultura uniforme dalle Langhe all’Aspromonte e ai monti Iblei. L’uniformità si legge in una serie di aspetti che costituiranno, seppure in maniera non esaustiva, i vari capitoli di questo libro e che fanno dell’Appennino un unicum antropologico letterario botanico faunistico e urbanistico. Un unicum che ha generato anche una scrittura legata alle radici e al localismo, a dispetto di un globale che sta uccidendo le specificità della tradizione. Faccio alcuni esempi che spero servano a rendere più chiare le premesse fin qui annunciate.
Senza dimenticare come proprio l’Unesco abbia battezzato l’importanza e l’unicità della dieta mediterranea, parto dall’osservare il modo in cui si coltivino tanti prodotti della terra. Mi piace avere come punto di partenza la vite. Pur avendo pergolati a difesa delle case di campagna, l’Appennino ha viti a spalliera e a ceppaia, non ha i tendoni, che sono propri della pianura assolata. Sono dell’Appennino le fungaie e i felceti. Come dimenticare le distese di gallinacci nascosti dalle felci, i chiodini e gli ovoli buoni, i porcini spugnosi che giungono nel loro lussureggiare di ocra nei ristoranti delle metropoli e della pianura? E poi i ricci che ridono alla spinta delle castagne, per non parlare dei legumi e delle noci e delle nocciole che cadono sui prati di collina e dei monti e dei tartufi che uniscono oggi le aree coltive dell’Appennino meridionale a quelle delle Langhe.
Oltre alle piante che ho citato, la flora delle nostre alture è fatta di acacie, di canneti, di alberi da frutta come meli, peri e fichi, mentre gli alberi ornamentali sono cipressi olmi faggi abeti olivi. La grande spina dorsale degli oliveti, che in Toscana offre un olio speciale che sa di erba e di frescura, scende dal Centro Italia e invade tutto il Sud e si fa cornice del Mediterraneo. La grande foresta italiana che è ricca di faggi di tigli di olmi e di castagni e che aspetta di essere studiata e riconosciuta come peculiare dell’Appennino. Uno spettacolo sterminato e sconosciuto tra equiseti, capelveneri e felci coricati tra i rovi. Che meraviglia!
Non sto a dire della fauna che popola il sottobosco. Il riccio è il silenzioso osservatore delle auto che sfrecciano sulle strade dissestate dal ghiaccio, la volpe è guardinga e coda tesa nella fuga, il falco spaventa piccioni e topi col suo geometrico rotare. I lupi, per quel che resta dei lupi, raramente abbandonano le alture e con loro i piccoli orsi abruzzesi. E i cinghiali, che grande problema costituiscono oggi i cinghiali per le nostre forre e le nostre periferie, dopo i ripopolamenti fatti dagli enti regionali. I cacciatori hanno trovato finalmente animali da cacciare, anche se io amo ricordare le famiglie di cinghiali capeggiate dalle mamme e fatte poetiche da un gruppo di porcellini che vanno in fila indiana.
Diversa trovo anche la conformazione dei centri urbani, arrampicati su colline e montarozzi nell’Appennino, con stradine serpeggianti, con vallate che separano i colli e i paesi, questi paesi generalmente piccoli e organizzati intorno a un campanile, sistemati in senso circolare intorno a un castello o a una piazza che occupa la parte più alta del posto e avvolta in grappoli di case con tetti spioventi, con coppi e tegole curve. Agglomerati fatti dolci dalla poesia e resi fascinosi dalle architetture che la storia ci ha lasciato in eredità e che fanno da richiamo anche a coloro che amano il mare, ma che di sera vogliono assaporare la cultura antica dei borghi.
Ma a tutto questo debbo aggiungere una peculiarità artistica e religiosa dell’Appennino. Si pensi alla diffusione del monachesimo. Mentre dalla Grecia arrivavano, in età medievale, i basiliani e si rifugiavano nelle vallate, nelle lame, nelle alture, realizzavano chiese ipogee in grotte naturali, cercando il cielo negli anfratti, dal Centro Italia si diffondevano i benedettini, inviati o aiutati dalla Chiesa, perché bisognava frenare il culto ortodosso e reimpostare le linee del culto latino. Fu così che si diffuse la cultura delle Madonne bianche, lattee, provenienti da nord, le Madonne dei grandi pittori umbri e fiamminghi e da sud la cultura delle Madonne nere, che arrivavano dalla Palestina, dalla Turchia e dalla Grecia, raccontavano che Maria è nata a Nazareth ed è vissuta a Efeso, paese assolato della Turchia occidentale.
E intanto in queste montagne e su queste colline si andava impiantando un tipo di cultura uniforme come è uniforme la diffusione della pittura del Tre, Quattro e Cinquecento.
L’Appennino è luogo dell’ascesa, erte dove gli occhi sono portati a guardare verso l’alto e dove la fatica dell’altura da scalare impedisce la parola e favorisce il pensiero. Al contrario della pianura che non costringe se non a camminare, non impone sforzi e dispone piuttosto allo svago. Oppure della tavola piatta del mare che nella considerazione sociale dei nostri tempi significa divertimento e fuga dalla riflessione o luogo dei travasi di popoli in cerca di asilo o di fortuna. La collina e la montagna sono invece luoghi della ricerca del metafisico, del silenzio che spinge la mente a riflettere sul senso dell’esistenza, sull’autenticità e sulla superficialità, su valori e disvalori e, cosa più importante, sulla vita oltre la vita.
Ma per effetto di una politica dissennata che non ha favorito la nascita del lavoro in altura e di una cultura della superficialità e del chiasso e dell’appariscenza, la collina e il grande osso appenninico hanno rappresentato in questi anni i luoghi da cui fuggire in cerca di metropoli. Se anticamente, per scampare alla malaria e alle invasioni, le alture erano ricercate, in tempi moderni si tende ad abbandonarle. Anche le strade hanno lasciato i crinali e sono precipitate a valle, magari costeggiando i fiumi. La pianura è diventata luogo della ricchezza e del benessere, delle terre buone da coltivare, da abitare e da cementificare. Mentre l’Appennino è stato trasformato in luogo dove è più complicato guadagnarsi la vita e vincere la solitudine.
Eppure sull’Appennino c’è un diverso valore del quotidiano. Più lungo, più lento, più profondo. Prigioniero del freddo che attanaglia la mente, costringendola spesso al chiuso e alla meditazione. Più genuino per quel che riguarda le colture, perché fatte in quantitativi limitati e non industriali come in pianura. Terra buona per lenticchie fagioli ceci cicerchie e pomodori al secco. Prodotti sani, non avvelenati, capaci di allungare la vita o almeno di migliorare la salute.
Trovo la cultura dell’Appennino uniforme dappertutto. Si danno la mano la Sila il Pollino le Dolomiti lucane il Vulture, le catene dell’Irpinia, il Subasio la Maiella, la costola di Umbria Toscana e Marche. Di qui, toccando le gibbosità delle Cinque Terre, si sale verso le colline dell’Astigiano fino a toccare le Langhe a sinistra e le alture interne del Veneto, del Trentino e del Friuli. Qui dominano la neve e le piogge, l’aria rigida sa ancora di fumo e di pulito nelle stagioni del freddo oppure di secco in estate, contro l’umidità dello scirocco che lava le pianure marine e impedisce di trasformare i maiali in prosciutti e salsicce e il latte in caciocavalli e formaggi. È questa la grande lisca dell’Appennino, col suo freddo secco e salutare, alla quale si aggrappano colline e vallate e dove sono fioriti i borghi più antichi e le città storiche d’Italia. Dove le sorgenti danno vita a fiumi e torrenti, che finiscono nelle pianure e nelle marine e portano nelle nostre case la freschezza dell’acqua e della vita.
Crovi e l’Appennino
Come ho già detto, l’Appennino ha dato vita nel tempo a una letteratura antropologica molto peculiare. Una letteratura legata alla terra, a una vita pastorale e contadina, alla vita delle masserie, delle malghe, dei santuari, della piazza e a forme di lavoro gemmate dalla tradizione, a rapporti umani più semplici e meno convulsi.
È la vita che ho conosciuto nella mia giovinezza.
A farmi certo che l’Appennino fosse il fondamento della mia scrittura, una scrittura che ho battezzato antropologica, fu negli anni novanta il movimento di opinione che accompagnò il mio romanzo I fuochi del Basento (1987), che pur ambientando le vicende nell’Appennino lucano, riprendeva l’atmosfera narrativa diffusa nei romanzi di Carlo Levi, Cesare Pavese, Corrado Alvaro e suggeva umori dalla letteratura sudamericana, Guimarães Rosa e García Márquez, e da quella africana di Thomas Mofolo, Tahar Ben Jelloun, Mohamed Choukri. Pochi anni più tardi vedeva la luce il romanzo di Raffaele Crovi, Appennino, dove gli scenari della narrazione erano quelli dell’Appennino emiliano e le terre di Matilde di Canossa. Erano luoghi a cui Crovi si sentiva legato profondamente, tant’è che i romanzi da lui scritti negli anni novanta investono tutti la vita delle colline emiliane, con al centro La valle dei cavalieri (1993). I suoi romanzi facevano eco ad alcuni racconti di Bevilacqua e di Celati, quelli nati intorno ai fiumi e sulle colline parmigiane, nei luoghi montuosi e di acque sorgive. Richiamavano la narrativa onirica di Carlo Sgorlon che avevo conosciuto fin da giovane. Sgorlon era così innamorato delle sue colline da acquistare un intero bosco disteso sotto le finestre di casa sua e impedire che venissero cementificate. Un amore non diverso avevano espresso Silone e Jovine. In quanto a me, avevo narrato del Basento, dell’Olivento e dell’Ofanto, insieme ai fiumi lucani ero sceso alle pianure della Puglia, avevo assistito all’arrivo della Vlora nel porto di Bari con un carico spropositato di balcanici. Nell’incontro con l’Adriatico avevo raccontato la vita dell’Appennino lucano, la sua forza etica, diversa da quella della Puglia, una cultura più meditativa e meno pragmatica.
Crovi aveva scritto fino a quel momento della sua esperienza di vita milanese. In versi e in prosa aveva narrato la società industriale e metropolitana, con quella vena ironica e critica che usano sempre coloro che dalla provincia sono approdati in città. Ma in una seconda fase della sua vita di editore e di narratore esplose in lui la voglia di raccontare le terre dell’interno, la quotidianità che aveva vissuto in gioventù sui colli dell’Emilia, la bellezza della vita di provincia, la genuinità contadina della terra natale. Aveva scoperto che l’Appennino era la terra dove le tradizioni e la cultura arcaica ancora sopravvivevano. Ma Appennino significava d’un tratto il mondo dei borghi, piccoli e grandi, la cultura del localismo contrapposta al globalismo. Faceva eco quel pensiero a un altro tema agitato da Milan Kundera e relativo alla lentezza, al silenzio, alla riflessione, ai panorami antropologici fitti di anziani e di una gioventù che ancora rispettava la famiglia e il valore del riconoscersi figli.
Ricordo un viaggio che feci con Livia, mia moglie, nelle terre di Matilde di Canossa. Andammo a trovare il Crovi nella sua Cola, in Emilia, per visitare i luoghi che aveva preso a decantare. Credo fosse il ’98 e venivo da Pontremoli, da una serata afosa e difficile, in conclusione della campagna per il premio Bancarella. Che aria asciutta e pulita si respirava sulle colline! Non sentivo più la pelle madida di sudore e respiravo a pieni polmoni.
Il giorno dopo, per i saliscendi delle Cinque Terre avevamo raggiunto Cola. La casa di Crovi era un’abitazione rurale a due piani, il gia...