Parte terza
Ritorno ai luoghi: metabolismi urbani e place-making
I. Metabolismi urbani e place-making
di Daniela De Leo
1. I temi emersi.
Resilienza e rigenerazione sono concetti senz’altro ricorrenti nell’attuale discorso sulle trasformazioni delle città e dei territori. Nonostante questo, non sempre gli specialisti sono riusciti a convergere, in maniera unitaria, su definizioni e contenuti di entrambi, né tanto meno a indicare, con chiarezza, indirizzi e politiche per meglio promuoverle e implementarle. Il concetto di co-evoluzione, invece, ha avuto alterne fortune nel campo degli studi urbani1 ai quali, qui, ci si riferisce, ma senza riuscire a godere della stessa notorietà e diffusione degli altri due. Tuttavia lo si può senz’altro considerare un concetto affine, dal momento che esso implica – allo stesso modo – un orientamento verso la trasformazione, non solo degli spazi urbani, ma anche del rapporto con e tra i soggetti.
Negli ultimi dieci anni, in particolare – anche a fronte del ridimensionamento della fiducia, dell’investimento e dell’efficacia negli approcci top-down –, vi è stata molta enfasi su questi primi due concetti in corrispondenza dell’affermarsi di una maggiore consapevolezza circa l’opportunità di: a) occuparsi dell’esistente e del già costruito, riducendo o azzerando il consumo di suolo, b) includere nelle trasformazioni azioni in grado di interferire con le fragilità e i caratteri peculiari dei territori e, soprattutto, dei soggetti insediati, coinvolgendoli, per quanto possibile, direttamente nei processi attivati.
In maniera assai stringata potremmo qui richiamare il fatto che il concetto di resilienza è stato preso in prestito dalla definizione della proprietà di alcuni materiali di ritornare alla forma originale dopo essere stati deformati sotto pressione; o, anche, dal campo della psicologia, dove esso indica la presenza di risorse personali che, nonostante circostanze difficili, permettono all’individuo uno sviluppo flessibile ed equilibrato. Introdotto e poi criticamente discusso nell’ambito del planning internazionale (Davoudi e altri 2012), questo concetto è stato per lo più utilizzato con riferimento alle emergenze ambientali e alle grandi catastrofi umane e naturali, con particolare attenzione ai significativi riverberi da fronteggiare alla scala urbana (dall’11 settembre a Katrina, cfr. Vale - Campanella 2005), per le situazioni di «conflitto strutturale e violenza cronica» (De Leo 2014), e, infine, entro una logica anche progettuale rispetto alla prevenzione in condizioni acclarate di rischio e vulnerabilità2.
La rigenerazione urbana, invece, pur entrata nel dibattito pubblico italiano con qualche anno di ritardo rispetto ad altri paesi europei, ha consentito a studiosi, amministratori e operatori di sostituire il più diffuso concetto della riqualificazione, anche se in assenza di un’agenda nazionale chiara e unitaria che indirizzasse e favorisse modalità di intervento appropriate e riconoscibili (Ombuen, Calvaresi, De Leo, Fioretti 2017). Si sono diffusamente prodotte iniziative differenti (De Leo - Ombuen 2018), per le quali si è spesso parlato di rigenerazione urbana in modo non del tutto coerente con strategie assunte come multidimensionali e integrate che portino a un miglioramento, a un tempo, delle condizioni economiche, fisiche, sociali e ambientali di specifiche aree (Roberts - Sykes 2000; Vicari Haddock - Moulaert 2009). Nel frattempo, però, le regioni italiane si stanno attrezzando con proprie normative (dalla Puglia, all’Emilia-Romagna, passando per il Veneto e il Lazio) attraverso l’affermazione di definizioni di campo che fanno esplicito riferimento all’intervento nel costruito (anche in stretta relazione con il consumo di suolo zero, come nel caso del Veneto), definendo indirizzi per gli interventi possibili. In non pochi casi, occorre dirlo, l’orientamento appare quello di stimolare, in qualche modo, l’attività edilizia, nell’ossessione – mai rimossa – che solo questa possa portarci fuori dalla crisi oramai decennale.
Attualmente, nel nostro paese, entrambe i concetti sono ancora avvolti da una sorta di aura di possibilità che avrebbe bisogno di molta più concretezza e operatività. Alla resilienza, infatti, sono concessi spazi di elaborazione – per lo più teorica – che la indicano come strategia e risorsa essenziale per indirizzi di intervento innovativi ed efficaci in situazioni molto complesse (dal post-disastro alla «terra dei fuochi»). Mentre la rigenerazione urbana, a sua volta, è considerata, in questa fase, e soprattutto a parole, la panacea per tutti i mali: essa è chiamata a misurarsi con il fatto che le città italiane presentano sempre più forti disparità, all’interno e all’esterno, con il permanere di rilevanti dualismi territoriali, sia tra aree urbane e aree interne, che tra Nord e Sud del paese.
Anche per questo non sorprende che, pur rispettando opportunamente l’indicazione generale di fare criticamente i conti con queste due parole chiave mainstream – sempre un po’ pericolosamente di moda ma, rispetto alle quali, stabilire delle giuste distanze – la discussione appare concentrata sulla necessità di collocare questo tipo di approcci entro una più ampia elaborazione di nuovi modelli di sviluppo verso i quali traghettare, con mano ferma, le trasformazioni del nostro paese. Ovviamente, anche, l’espressione nuovi modelli di sviluppo non è priva di insidie se si considera:
– la legittima diffidenza verso quello che viene etichettato come nuovo;
– la perversa fascinazione verso i modelli e, non ultimo;
– il comprensibile timore verso la parola sviluppo, che ancora evoca cocenti delusioni a valle di illusorie promesse.
Ma, entro la questione qui dirimente del ritorno ai luoghi, tra trasformazione dei metabolismi, dei cicli economici e vitali, e place-making come azione continua e diffusa di costruzione di spazi, però, senz’altro un nuovo modello di sviluppo appare utile e andrebbe elaborato per dare coerenza e significato agli indirizzi di trasformazione di territori come quelli italiani che paiono perennemente sospesi «tra il non più» e «il non ancora».
In questo quadro, il punto di partenza condiviso sembra essere, da un lato, una grande insoddisfazione verso lo stato dei luoghi – spesso esito di indirizzi incerti, interrotti, sbagliati (De Leo 2018) – e, dall’altro, un consistente impegno profuso dagli urbanisti nel cercare di capire e supportare necessari cambiamenti di passo. Si tratta, infatti, nella maggior parte dei casi analizzati e discussi, di riflessioni che gli urbanisti italiani offrono a valle di un’azione pubblica di terza missione o come esito di una sperimentazione progettuale in un concreto contesto di policies, nel quale i ricercatori sono impegnati nel comprendere cosa non funziona e nel tentare di suggerire come fare per fare meglio.
I luoghi rispetto ai quali maturano le riflessioni proposte appaiono diffusamente fragili, usati e (ab)usati, con metabolismi che si inceppano e pertanto, pongono importanti dilemmi sul futuro. Si tratta di territori ai margini, ma, anche, di spazi di possibilità che chiedono di essere trasformati perché possano essere effettivamente utilizzati dagli abitanti. Territori dotati di forme di fragilità residua che possono essere considerati resilienti se si riesce a pensarli entro progetti di trasformazione che tengano insieme le persone e i luoghi, spaziando dalla verifica dell’appropriatezza dei modelli di sviluppo della Snai-Strategia nazionale aree interne nei contesti con severa scarsità di risorse (Bagnoli Irpino) al ruolo svolto dalle fondazioni (Progetto Valli Resilienti); dalla comprensione delle geografie dell’abbandono attraverso la disamina della recente «legge Salva borghi»; dallo studio critico del rapporto tra ambizioni di sviluppo del turismo e fragilità connesse all’abusivismo nelle aree costiere; sino a possibili modelli innovativi basati sulla rigenerazione urbana che possano aiutare ad affrontare concretamente l’emergenza abitativa; o sperimentazioni locali di modelli urbani resilienti in condizioni di alta vulnerabilità (dalla Calabria alla Sardegna) e progetti pilota che aiutino ad agire nel locale e a ripensare ruolo, funzione e paniere degli standard urbanistici.
2. I problemi.
I problemi che senz’altro gli approfondimenti proposti evidenziano riguardano innanzitutto la mancata coerenza tra la profondità e storicità di alcune questioni problematiche che affliggono i territori italiani e le diverse, spesso estemporanee – senz’altro inadeguate –, politiche pubbliche e, quindi, le inappropriate azioni di governo ai diversi livelli.
Tra gli esempi che fanno maggiormente pensare ma che, allo stesso tempo, suggeriscono la possibilità di identificare anche approcci concreti per quanto rinnovati, vi è senza dubbio il fatto che, per esempio, la Snai-Strategia nazionale aree interne, attiva dal 2014, non si occupava affatto di rischio sismico prima che il terremoto di Amatrice (agosto 2016) consigliasse di mettere in relazione questo tipo di problematica con i fenomeni di spopolamento che diffusamente aggravano la fragilità del territorio italiano. La cosiddetta «legge Salva borghi», invece, varata alla fine del 2017 – ed entro una logica a pioggia assolutamente antitetica rispetto alla filosofia degli indicatori minuti di Snai – ha considerato come centrale il tema del rischio sismico, sebbene al di fuori di qualsiasi volontà di coordinamento inter-istituzionale.
Questo evidenzia, parallelamente, anche la bassa capacità di apprendimento da parte delle istituzioni che, ai diversi livelli, elaborano e implementano politiche. Probabilmente in corrispondenza con la mancanza atavica di attitudine alla valutazione dei risultati e degli esiti delle politiche promosse. Da questo punto di vista, l’interazione tra università e territori di riferimento sembra confermare l’utilità di una collaborazione che consenta di approfondire la natura dei problemi e individuare soluzioni da sperimentare e non solo elencare.
Se non si riesce a entrare all’interno di una interazione concreta con il decisore pubblico, l’azione degli studiosi di territorio pare ossessionata dalla ricerca dell’«indicatore perfetto», non solo il più appropriato per descrivere condizioni effettivamente complesse, ma anche quello più utile per sostenere una sorta di riscatto rispetto alla scientificità del proprio sapere e della propria disciplina. In quegli stessi territori fragili di cui si diceva, gli errori che hanno contribuito alla definizione dell’attuale stato dei luoghi sono stati fatti, in passato, anche da professionisti compiacenti e università decisamente poco vigili. La mole di iniziative e sperimentazioni in corso oggi, invece, assieme con il diverso profilo che le caratterizza, testimonia anche la definizione di una rinnovata responsabilità (Caudo - De Leo 2018) che prova a supplire alla consueta mancanza di fondi, di cartografie digitali complete, che indichino, ad esempio, i perimetri delle aree vincolate nei piani paesistici o le incompatibilità tra previsioni di piano e strategie elaborate, come nei processi di Aree interne.
L’insoddisfazione quindi, non si limita allo stato dei luoghi fisici, ma si esplicita e personifica nella inadeguatezza della pianificazione e degli urbanisti, incapaci senza un opportuno sforzo e ripensamento, di dare contributi essenziali invece, proprio nei contesti di crisi, di incessante aumento del disagio socio-economico e abitativo, di emergenza, dal sismico all’idrogeologico.
Per questo, ciò che maggiormente viene richiesto alle politiche è un lavoro comune a partire da un disegno di quadro generale, di sviluppo e trasformazione del nostro paese per i prossimi anni, mentre manifestiamo un rinnovato impegno per meglio comprendere i modi e le possibilità per fare avanzare la disciplina, anche cambiando e contaminando i punti di vista.
3. Idee e proposte.
La discussione ha portato all’attenzione molte idee e proposte anche estremamente concrete, oltre che variegate, che potrebbero effettivamente trovare un senso entro un coordinamento di obiettivi e azioni mirate al contrasto delle diseguaglianze territoriali e dell’ingiustizia spaziale, ad esempio attraverso contributi alla trasformazione dell’idea e del funzionamento degli standard urbanistici3, al miglioramento della qualità ambientale, anche attraverso interventi puntuali sull’igiene e la salute pubblica, all’uso maggiormente efficiente delle risorse, a partire dalla conoscenza profonda di quello che c’è e di quello che manca nei diversi contesti.
In questa prospettiva, resilienza e rigenerazione appaiono indirizzi obbligati per fare pervicacemente i conti con quello che c’è per poterlo migliorare con e per gli abitanti, per poterlo valorizzare e rendere accessibile a tutti. Ciò implica contribuire a definire possibilità e limiti reciproci delle trasformazioni urbane e del consumo di suolo, per incidere effettivamente sul miglioramento delle condizioni di vita degli abitanti attraverso progetti che puntino a rigenerare territori e comunità resilienti.
Costruire standard e, quindi, città pubblica, non può dipendere solo dall’ulteriore consumo di suolo o dall’aumento dei carichi urbanistici, ma deve poter essere fatto in considerazione delle necessità di miglioramento delle condizioni urbane e territoriali attraverso: un refill di micro-servizi e micro-attrezzature utili a migliorare la qualità dell’abitare e la formazione di spazi e micro-spazi pubblici di relazione, anche ad assetto variabile.
Da questo punto di vista, le sperimentazioni dell’housing sociale raccordato a un’idea evoluta di standard urbanistici – in termini prestazionali e prescrittivi non solo di quantità ma soprattutto di qualità – appaiono utili quanto lo studio di dimensioni ottimali delle aree verdi perché siano di effettivo contrasto alle isole di calore, magari con l’integrazione dei tetti verdi.
Allo stesso tempo, ricognizioni puntuali sul patrimonio edilizio esistente, resiliente e non resiliente, potrebbero aiutare a segnare definitivamente il superamento del tema delle nuove costruzioni come unico motore per lo sviluppo urbano (inteso, poi, banalmente come sviluppo edilizio) includendo, invece, il valore della qualità diffusa e, quindi, la rilevanza di una rigenerazione urbana capace di relazionarsi con una pressione immobiliare che oggi pare mettere a repentaglio gli indirizzi di trasformazione.
Del superamento di una visione dicotomica nei confronti del sempre atteso e mancato sviluppo potrebbe giovarsi anche il futile dilemma con la conservazione/tutela, nelle varianti di object oriented, la prima, e process oriented, la seconda. Progettare sviluppo dei territori mantenendo in vita e visibili i processi che producono «gli oggetti» appare essenziale quando si tratta di ambiente, paesaggi, risorse territoriali che non possono ammettere indirizzi space blind (ciechi rispetto ai luoghi) ma neppure process blind (ciechi rispetto ai processi).
In questa logica appare quindi essenziale l’adozione di una strategia di rigenerazione che:
– tenga insieme obiettivi di breve e di lungo termine attraverso un approccio integrato per poter incidere simultaneamente sulle diverse dimensioni e scale;
– implementi programmi area-based attente ai luoghi e ai processi;
– funga da fattore abilitante di processi ordinari e continui che favoriscano la molteplicità degli interventi anche di piccole dimensioni.