Parte prima
L’Europa nelle sfide globali
Inquadramento generale.
L’Europa nei trend globali: una guida alla navigazione
di Umberto Marengo
Nel suo ultimo racconto autobiografico sul declino e crollo della Mitteleuropa imperiale austroungarica, lo scrittore Stefan Zweig descriveva l’epoca tra le due guerre mondiali come la fine dell’«epoca della sicurezza». Forse non deve sorprenderci che il libro di Zweig (Die Welt von Gestern o Il mondo di ieri) stia rivedendo fortuna proprio in questi anni con ripubblicazioni in varie lingue europee. L’ordine europeo cui scrive Zweig non esiste più1 ma anche oggi l’Europa attraversa una fase di transizione storica profonda. Entrata nel secolo scorso come il concerto delle potenze economiche e coloniali del mondo, e poi uscita dal Novecento con un miracolo di benessere diffuso e libertà politiche, l’Europa ci appare all’inizio del XXI secolo un continente insicuro.
Questo capitolo vuole fornire uno sguardo di insieme sulle trasformazioni recenti che hanno attraversato il modello politico ed economico europeo. Presentare un’analisi completa della transizione storica dell’Europa o dei fenomeni economici che la attraversano va ben oltre le ambizioni di questo lavoro. L’obiettivo è piuttosto fornire un contesto generale per mettere a fuoco le sfide che chi si occupa di Europa si troverà ad affrontare nel prossimo decennio e oltre. Se lo spazio politico dell’Europa è essenzialmente quello del dibattito pubblico, questo capitolo e questo volume vogliono contribuire a creare punti di riferimento condivisi per discutere e organizzare le prossime politiche nazionali ed europee. Senza rassegnarsi al mondo della post-verità2, ma anche senza l’irreale aspettativa che la politica sia un esercizio di numeri piuttosto che di identità collettive, questo capitolo illustra la posizione dell’Europa all’interno di nove macro trend globali: la crisi della democrazia istituzionale, la pressione del cambiamento climatico, la corsa demografica, le ondate migratorie, la crescita economica e delle diseguaglianze, il commercio internazionale, la ritirata della middle class occidentale, il motore dell’urbanizzazione e, da ultimo, la trasformazione tecnologica del lavoro.
Per ciascun trend è facile essere tentati di azzardare previsioni estendendo nel futuro quanto successo nel recente passato. Fare previsioni non è però l’obiettivo di questo contributo. Vogliamo piuttosto fornire strumenti di base per capire il contesto e gestire i rischi che gli europei affronteranno nel futuro. In una società sempre più complessa dove ogni effetto ha una moltitudine di cause e il risultato finale non è riconducibile alla somma dei suoi fattori, fare previsioni non solo è arduo ma probabilmente non è neppure una base adeguata per prendere solide decisioni politiche3. Guardando a questi trend, la nostra attenzione si focalizza non sull’immaginare quale sarà il futuro, ma piuttosto nel cercare gli strumenti per imparare a guardare la realtà in modo nuovo, considerando le implicazioni di diversi futuri plausibili e alternativi. Prendendo ispirazione dalla cosiddetta analisi degli scenari4, con questo volume vogliamo prepararci non soltanto a organizzare il futuro che abbiamo in mente per l’Europa, ma anche a gestire il futuro che l’Europa sarà costretta ad affrontare senza poter veramente controllare, per la complessità dei fenomeni e per propri limiti.
In altre parole, questo lavoro vuole contribuire a una discussione strategica sul futuro dell’Europa in cui l’aspetto normativo della visione politica (cosa vogliamo dal futuro) si completa con quello gestionale (come ci muoviamo con risorse e influenza limitati).
1. Partecipazione, protesta e democrazia.
Il punto di partenza di questa pubblicazione – illustrato da Marco Piantini nella sua introduzione – è che le democrazie occidentali sono in crisi. Le società del post-1945 si fondavano sull’aspettativa che è possibile mantenere un equilibro di lungo periodo tra libertà (economica e politica) e uguaglianza. Questo modello ha avuto successo per oltre mezzo secolo grazie a una combinazione di presupposti sociali ed economici. I principali presupposti sociali sono stati il radicamento dell’Europa occidentale all’interno dell’Alleanza atlantica e la presenza di democrazie parlamentari e partitiche relativamente stabili. Tra i presupposti economici, il più evidente è stato un periodo di crescita economica duraturo e relativamente ben distribuito. Questo ha permesso di finanziare (in Europa) un forte Stato sociale gestito su base nazionale da un ampio apparato amministrativo.
L’erosione di questi presupposti è cominciata dalla fine degli anni sessanta, sviluppandosi su varie cicliche, fino a rendersi evidente nel decennio che ha seguito la crisi finanziaria del 2008. Oggi l’arretramento della democrazia nei cosiddetti paesi occidentali (Europa, Nordamerica) è un dato di fatto. Così come è un dato di fatto la crescente attrattività, anche in parte dell’opinione pubblica europea, di modelli di «democrazia non liberale» come la Russia, o la crescente influenza di regimi dichiaratamente non liberaldemocratici come la Cina5.
Questo trend di «recesso democratico» è evidenziato dai risultati del Democracy Index sviluppato da The Economist Intelligence Unit, che dal 2006 misura lo stato di salute della democrazia in oltre 150 paesi6. Definire e misurare un fenomeno storico complesso come la democrazia è inevitabilmente difficile e limitativo, ma il lavoro dell’Economist ci aiuta a mettere a fuoco alcuni macro-trend. La ricerca si focalizza su cinque dimensioni generalmente riconosciute dalla scienza politica come pilastri della democrazia liberale rappresentativa: 1) processi elettorali e pluralismo; 2) libertà civili; 3) funzionamento delle istituzioni governative; 4) partecipazione politica; 5) cultura politica. Nel complesso, queste cinque dimensioni analizzano la presenza di istituzioni e processi democratici formalizzati, il consenso verso tali istituzioni e la loro efficacia.
Ne emerge che nel 2018 meno della metà della popolazione mondiale viveva in paesi in qualche modo democratico e il trend complessivo è in calo (47,7% nel 2019 rispetto al 49,3% nel 2019). Più interessante è guardare ai diversi pilastri della democrazia. A livello globale la partecipazione politica è cresciuta costantemente negli ultimi dieci anni. Questa crescita, che include affluenze elettorali e attivismo politico (tradizionale e non), è un trend costante in quasi ogni regione del mondo. Unica eccezione sono Medio Oriente e Nordafrica, dove si è rapidamente arenata l’onda della primavera araba.
L’interesse verso la politica cresce e i cittadini vogliono votare di più. Sempre più persone sono interessate a seguire la politica sui media e sono disposte a partecipare a manifestazioni legali, quasi senza eccezioni. Anche i fattori abilitanti della partecipazione come l’alfabetizzazione degli adulti sono aumentati e si confermano positivamente correlati con la partecipazione politica. L’aumento della partecipazione femminile è l’aspetto più incoraggiante del 2018 e dell’ultimo decennio. Le barriere formali e informali alla partecipazione politica delle donne, comprese leggi discriminatorie e gli ostacoli socioeconomici, stanno venendo gradualmente ridotte. Nei paesi Ocse, la crescente presenza di donne in parlamento è in gran parte attribuibile all’introduzione di quote. Negli Stati Uniti – dove non esistono quote – nelle elezioni di midterm del 2018 uno su cinque degli eletti è donna, il massimo risultato storico.
Tuttavia queste forme di partecipazione e protesta si sono sviluppate in parallelo a una progressiva erosione della cultura democratica e della capacità delle istituzioni tradizionali di rispondere alle (crescenti) esigenze dei cittadini. La disillusione verso la pratica della democrazia è evidente se si guarda al consenso verso i valori democratici – a partire dalle libertà civili – e a come giudichiamo il funzionamento delle istituzioni rappresentative. In entrambi i casi la fiducia nell’efficacia delle istituzioni e nell’importanza di proteggere libertà civili e istituzioni rappresentative è in calo. In effetti il deterioramento dell’efficacia dei governi democratici (misurato nel pilastro Functioning of government del Democracy Index) e l’aumento della partecipazione politica sono due facce dello stesso fenomeno. Il Democracy Index dell’Europa occidentale è in leggero calo per il terzo anno consecutivo: 8,35 nel 2018, rispetto a 8,38 nel 2017 e 8,42 nel 20157. Il calo è trainato da un deterioramento marginale in tutti gli aspetti, con l’eccezione della partecipazione politica che è in crescita. In Europa dell’Est non ci sono stati stravolgimenti negli ultimi tre anni ma si conferma il trend negativo rispetto agli inizi degli anni duemila, a riprova che il recesso democratico in paesi come Polonia, Ungheria e, in un contesto diverso, in Russia si è ormai consolidato.
In sintesi, a livello globale viviamo in società sempre più politicamente attive ma anche sempre più profondamente divise. A titolo di esempio, una delle domande del Democracy Index esamina se esista un grado sufficiente di consenso e coesione sociale per sostenere una democrazia stabile. La risposta a questa domanda è sempre più spesso negativa, principalmente a causa di una progressiva polarizzazione ed estremizzazione politica e specialmente nelle delle democrazie occidentali. L’implicazione di questa polarizzazione tocca tutti gli aspetti della società, a partire dallo Stato sociale. Tradizionalmente le democrazie con più alto tasso di coesione e omogeneità sociale sono quelle con sistemi di welfare più generosi e tassazione più alta8. Per i paesi europei mantenere un welfare state universale in un contesto di polarizzazione politica (si pensi a minoranze come i migranti, o regionalismi indipendentisti in Catalogna o Scozia) rappresenta un altro motivo di frizione sociale.
2. La pressione del clima.
Il riscaldamento globale è il principale – e il più irreversibile – macro-trend con cui l’Europa dovrà fare i conti nella prossima generazione. Secondo il rapporto del Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici (Ipcc, Intergovernmental Panel on Climate Change) pubblicato nell’ottobre 20189 la temperatura del pianeta è già aumentata di circa un grado rispetto all’era preindustriale crescendo al passo di +0,2 gradi a decennio, e potrebbe raggiungere +1,5 gradi già entro il 2030.
Il cambiamento climatico si farà sentire in tutta Europa, con evidenti costi economici e sulla qualità della vita. L’obiettivo dell’accordo sul clima di Parigi è limitare la crescita della temperatura a +1,5 gradi, soglia oltre la quale anche un taglio delle emissioni creerebbe una feedback irreversibile dall’ecosistema terrestre che porterebbe le temperature a salire a prescindere dall’attività umana. Tutto ciò avrà gravi conseguenze sull’economia europea e globale, sulle infrastrutture, sulla produzione alimentare, sulla salute pubblica, sulla biodiversità e sulla stabilità politica. La Commissione europea prevede che entro il 2100 i danni causati ogni anno dalle alluvioni in Europa potrebbero aumentare da 5 a 112 miliardi di euro, mentre il 16% delle zone oggi con clima mediterraneo potrebbero diventare aride.
Limitare la crescita delle emissioni a 1,5 gradi resta un obiettivo ambizioso se si considera che, a politiche ambientali attuali, la stima di Ipcc è di un aumento delle temperature tra 3,1 e 3,7 gradi entro il 2100. Se si tornasse indietro rispetto alle politiche climatiche che sono già in vigore la crescita della temperatura si attesterebbe sui 4,1-4,8 gradi. C’è quindi un distacco significativo tra l’obietto dell’1,5 e lo scenario attuale. In concreto, raggiungere l’obiettivo 1,5 gradi significherebbe tagliare le emissioni di CO2 del 45% rispetto ai livelli del 2010 entro il 2030, raggiungendo la cosiddetta carbon neutrality (tanta CO2 inserita nell’atmos...