Ad Antonietta,
mia moglie
e compagna di viaggio
per tutta la vita
Carlo Ravano
NOVANTASETTE
TRAVERSATE
I RAVANO
Una grande famiglia genovese del ‘900
C O L L A N A N E W S B O O K
La copertina è stata ideata da Claudia Batthyany Ravano Consulente editoriale: Mario Paternostro Coordinamento editoriale: Sabrina Burlando Progetto grafico: Elena Menichini
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Lettera al lettore
Caro amico,
devo assolutamente presentarmi, devo e voglio dirti qualcosa su di me.
Poiché non sono uno scrittore o un romanziere o un conferenziere. Sono un vecchio, con la memoria chiara e con una visione ancora molto viva degli avvenimenti e dei fatti che espongo in questo libro. Avvenimenti, fatti, esperienze che ho vissuto in prima persona. Non c’è niente di riferito, nessun pettegolezzo o fatto riportato. Tutto vero e tutto personale. Una vita ricca e fortunata che ho pensato di raccontare, quale testimonianza di un armatore.
Perché nonostante tutto tale ancora mi sento.
Spero che ti interessi!
Carlo Ravano
IN NOME DI DIO, TAGLIA!
Era questo l’ultimo ordine che il direttore
del cantiere impartiva al nostromo prima di ogni varo.
Cap. I - La ricostruzione
Un lungo viale collega ancora oggi la fattoria alla S.S. numero 12, dell’Abetone e del Brennero.
Da entrambe le parti del viale, i campi seminati a colture intensive danno a chi vi accede l’impressione di trovarsi in un giardino privato.
I poderi dei contadini a mezzadria sono puliti e ordinati. Quello del Paolicchi é isolato; un ruscello, chiamato Fosso del mulino, lo lambisce per l’intera lunghezza e l’acqua vi scorre tutto l’anno.
In un gruppo di case più avanti abita la famiglia del Masini, la cui competenza é considerata a livello di un veterinario, quella del Rossi e, infine, quella del Begliomini.
In estate, con il caldo afoso della pianura pisana, i contadini fanno la siesta sdraiati per terra, all’ombra di alberi secolari; e per noi é quasi uno spettacolo contemplare Adria Begliomini supina, con quella carnalità che sembra quasi erompere dalle vesti in tutto il suo turgore.
Il viale é sterrato e le macchine, anche passando a velocità ridotta, alzano una nuvola di polvere bianca. Ancora oggi il ricordo mi suscita un senso d’imbarazzo; sia per la polvere, sia per il distacco sociale che regola i rapporti fra i mezzadri, il sor padrone e la sua famiglia.
A mamà, donna raffinata, sarebbe piaciuto disporre lungo i bordi del viale quei cipressi, tipici della Toscana, che avrebbero conferito all’accesso della fattoria di San Zeno e Gello un aspetto più decoroso e nobile; ma Pietro, il figlio maggiore meno raffinato e assai più “genovese”, che ne seguiva
1 Sul numero di Luglio 2002 del mensile Arte Navale, diretto da Notarbartolo, ho trovato il mio titolo con una didascalia quasi uguale, ma inesatta, poiché il protocollo prevedeva che il direttore del cantiere invitasse la madrina a battezzare la nave, quindi ordinava al nostromo di banchina di tagliare le gomene sottili. Questa era la cerimonia e questo era il protocollo , noto soltanto a chi ha costruito navi, meno noto a chi lo ha sentito dire.
l’amministrazione insieme al fattore Leonetto Guerrucci, aveva deciso che vi fossero piantati dei peri; miseri sì, ma certo più redditizi.
Inutile dire che nessuno mangiò mai una pera, perché nessuna arrivò a maturazione: qualcuno le coglieva prima di noi.
Quella sera ci siamo tutti, proprio tutti, al Gello: i dieci figli di Alberto Ravano, nessuno ancora sposato; solo Antioco è in procinto di farlo.
È presente anche il comandante camoglino Niccolò Zerega, capitano d’armamento della flotta e responsabile dell’ufficio marittimo.
Siamo nell’autunno del ’46; la mattinata si presenta grigia, umida e triste, ma ci pensa il comandante Zerega da Camogli a darci la carica: con la sua voce, resa roca dalla salsedine respirata a bordo e dalle sessanta Nazionali Esportazione giornaliere, ci ha svegliati tutti come un tamburino del reggimento.
Eravamo molto emozionati, già dalla sera prima, poiché con l’arrivo l’indomani dell’ Auctoritas a Livorno per noi iniziava la ricostruzione vera e propria.
Infatti ad Alberto Ravano, mio padre, a fine guerra era rimasta una sola carboniera, delle venticinque che armava prima del conflitto: si chiamava Voluntas e la comandava Prospero Schiaffino, detto “Tidormi”; anche lui di Camogli, come il comandante Zerega.
Schiaffino era rientrato in Italia dall’Argentina portando con sé un “pacco” di soldi (500.000 $), che il governo argentino aveva restituito a mio padre non solo per avere trafficato col Voluntas durante i cinque anni della guerra, ma anche per risarcirlo del sequestro di altre navi. Ed era proprio con quei fondi che papà aveva iniziato la ricostruzione, comprando due vecchissime navi da carico: Auctoritas e Amabilitas di proprietà della Saguenay, una ditta americana che le aveva sempre impiegate nel traffico del minerale. La loro portata utile era all’incirca di 7.500 tonnellate inglesi (1016 kg) e la loro velocità si aggirava sui 7/8 nodi.
Gli anni 1939/1946 erano stati terribili. L’armamento genovese era uscito malconcio dalla crisi del ‘29 e solo la rinuncia alla quota c.d. 90 (cambio politico, quindi artificiale, tra lira e sterlina) aveva portato una ventata d’ottimismo e di denaro nelle tasche dei “bacàn”; come a Genova si designava il capo, tanto della casa come dell’impresa familiare; una sorta di benevolo “padre-padrone”2.
2 O anche “baccan”. G. Frisioni, Dizionario Genovese-Italiano, Nuova Editrice genovese, Genova 2002. Forse dall’arabo baqqal, passato anche nel rumeno ( bacal) e nelle lingue slave attraverso il turco. G. P. Sicardi, Prontuario Etimologico Ligure, Edizioni dell’orso, Alessandria 2002
Ma, appena rimessi in corsa, era scoppiata la guerra.
Papà aveva perso nel conflitto venticinque navi. Ogni perdita una tragedia umana. La più tragica mi sembra quella che Prospero Schiaffino (omonimo del “Tidormi”) riferisce nel suo libro “Le carrette degli armatori genovesi”, edito da Nuova Editrice Genovese nel 1996. Eccone la storia.
Questi natanti erano in larga misura adibiti al traffico Italia/Libia, carichi non solo di rifornimenti e provviste per l’esercito, ma anche di soldati. Che molto spesso non sapevano nuotare.
Si partiva in convogli di tre, sei od otto bastimenti scortati da torpediniere. Ma uno di questi, l’ Honestas, era una nave speciale, di scafo solidissimo.
Era stata acquistata da papà da una grandissima società danese; che l’aveva venduta - penso - per la sua scarsa velocità: con carena pulita e col migliore dei carboni nelle caldaie, a stento raggiungeva i sei nodi. Sotto bandiera danese si chiamava Gudrun maersk, e i nostri marinai la soprannominarono in dialetto genovese gundùn marciu (traducibile in “preservativo avariato”. Sic!). Fu facile bersaglio. Al largo di Trapani un sottomarino inglese la silurò inesorabilmente. L’equipaggio venne soccorso dalla torpediniera di scorta, il Fortunale, al comando del capitano di corvetta Alfredo Maria D’Angelo. Il comandante dell’ Honestas, Lorenzo Pendola di Recco, e il capomacchinista, Mario Marangoni di Venezia, furono tratti in salvo, rifocillati e invitati a salire in plancia-comando. La sorpresa fu grande e l’emozione intensa: nel giovane guardiamarina di complemento, che fungeva da ufficiale di rotta, i due vecchi lupi di mare riconobbero mio fratello Antioco. Figlio di Alberto Ravano, il proprietario della nave.
Credo si tratti di un fatto unico nella storia della marineria genovese e nazionale: l’armatore che salva il suo equipaggio in tempo di guerra!
Capitan Pendola, cessato il conflitto e tornato a lavorare per la nostra famiglia, dedicò tutta la sua vita al mare e alla musica classica. Ne ho un ricordo nitido: ci trovavamo a Port de Bouc, Marsiglia, e Pendola comandava una cisterna da 16.000 tonnellate chiamata Charitas. Salimmo a bordo con l’agente Pommé trovandolo sul ponte, immerso in un forte e acre odore di pesce crudo, mentre ascoltav...