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Storia di Ayrton Senna

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Storia di Ayrton Senna

Informazioni su questo libro

Imola, 1° maggio 1994. Poco dopo la partenza del Gran Premio di San Marino, Ayrton Senna esce con la sua Williams alla curva del Tamburello impattando disastrosamente contro il muretto. Muore il pilota, nasce il mito. Dal giorno della sua scomparsa Ayrton Senna è entrato nell'immaginario collettivo come una icona rappresentativa della passione, del coraggio, della lealtà: in una parola, come Magic: l'appellativo con cui è ricordato. Con una scrittura appassionata e appassionante, Casamassima, che ha avuto modo di conoscere l'asso brasiliano e di parlare con lui non solo di corse, ne ripercorre la vita con una narrazione in cui è spesso lo stesso Senna a parlare. Magic è il romanzo di personaggio che prima di essere un pilota capace di conquistare tre titoli iridati, vincendo la concorrenza di altri campioni quali Piquet, Prost e Mansell, è stato un grande uomo. L'ebook contiene numerose foto a colori in buona parte inedite. Pino Casamassima, giornalista e scrittore. Oltre ad aver lavorato nelle redazioni di quotidiani e periodici, è stato inviato in Formula 1, opinionista per il web europeo del network americano CBS, e consulente editoriale della Rizzoli libri. Attualmente scrive per Il Corriere della Sera e cura una rubrica su Il Giorno. Autore de La Storia siamo noi, collabora con History Channel e l'Università Cattolica di Milano, L'Archivio storico della Resistenza bresciana e della Storia contemporanea.

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Storia di Ayrton Senna
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Le cinture di sicurezza gli stanno quasi tagliando le spalle. Sono state tirate troppo, maledizione! Al momento di bloccarle non se n’era accorto. L’eccitazione di quei momenti non ti fa pensare ad altro che alla partenza. Basta un niente per farsi sfilare da due, tre avversari. Quando il motore comincia a girare l’adrenalina corre per tutto il corpo. Non c’è spazio per nient’altro. Solo il via, conta. Solo quei semafori che si accendono in sequenza e poi si spengono. Ci sono quelle Williams che in qualifica gli hanno soffiato sul collo e che ora sono lì, pronte ad azzannare la sua McLaren. Sono anni che insegue quel traguardo verde e giallo. Quel podio davanti alla sua gente, sul circuito di casa, quello dedicato a Carlos Pace. Morì nel 1977, ma non per colpa delle corse. Fu un aereo a tradirlo. Com’era successo a Graham Hill qualche anno prima. Il circuito di Interlagos era stato intitolato alla sua memoria nel 1985 e per la seconda volta ospitava il Gran Premio di casa soffiandolo a Rio de Janeiro, che sulla pista di Jacarepaguà l’aveva organizzato dal 1981. La prima gara di questa nuova stagione targata 1991 s’era svolta a Phoenix, in Arizona, per il Gran Premio degli Stati Uniti. Ora, a Interlagos, il suo circuito, s’era presentato con la credenziale giuste per la vittoria. Ma quelle Williams…
Non ducor, duco
“Non ducor, duco” con un motto così, non si può proprio evitare di diventare protagonisti se si decide di fare delle corse la propria vita. Quella frase latina – Non sono condotto, conduco – campeggia sullo stemma di San Paolo del Brasile, la megalopoli in cui nasce Ayrton il 21 marzo 1960. La sua famiglia vive nel distretto di Santana, nella parte settentrionale della città e lui è il secondogenito di Neide F. Senna e Milton Da Silva. Prima di lui è nata Viviane, poi arriverà Leonardo. I Da Silva godono di un tenore di vita superiore alla media in una città che divide in due la ricchezza dalla povertà, senza zone intermedia: la classe media è lontana come l’Europa. Quando si svolge il Gran Premio i biglietti costano quanto la paga di un mese di un operaio: a Interlagos arrivano i ricchi di un paese enorme, come enormi sono le sue contraddizioni. Ayrton, come Emerson Fittipaldi e Piquet e lo stesso Carlos Pace, per citare i nomi passati alla celebrità della Formula 1 perché diventati tutti campioni del mondo meno quel Pace riconosciuto però come capostipite dei piloti brasiliani. Il primo di una lunga serie che sbarcherà in Europa con le carte in regola per ambire a traguardi ambizioni. Traguardi che avrebbe tagliato se non fosse stato per quell’aereo, quel giorno disgraziato di marzo. Ayrton vive dunque una situazione privilegiata di cui riconoscerà sempre l’importanza nella sua vita, fin da bambino, quando, a soli quattro anni, goffo e impacciato, come lui stesso svela, si siederà per la prima volta avrà un volante fra le mani. «Mi chiamavano “beco” e non mi sono mai chiesto il perché. Una di quelle cose che da bambino vivi senza indagare nulla. L’automobile fu per me una folgorazione. Quando lo dico, non ci cedere mai nessuno. Eppure è così: avevo quattro anni quando ho guidato la prima macchina. Mio padre aveva un’officina meccanica e costruì un go-kart adatto a me, con un motore che sviluppava una potenza di ben… un cavallo. Mi metteva in grembo e mi faceva parcheggiare la sua macchina in garage. Lo sterzo lo muovevo solo io, e all’epoca non c’erano i servosterzo. Poi cominciò a portarmi nelle stradine attorno alla nostra casa, sia con la sua macchina che col go-kart. Mi impratichii presto, cominciando a sentire le differenze nella guida, nella strada, nel comportamento del kart. Da lì a poco il mio divertimento passava quasi esclusivamente da un motore con quattro ruote attaccate. In un tema, a scuola, in cui ci si chiedeva di raccontarci, scrissi che ero un pilota di Formula 1. Il mio primo, vero kart arrivò all’età di otto anni». Da quel momento suo padre Milton cominciò a portarlo sul circuito di kart di Interlagos, pur non potendo gareggiare. «Ero troppo giovane. Era una cosa impossibile, anche se non so cosa avrei dato per confrontarmi con gli altri. Così dovevo accontentarmi di confrontarmi con il cronometro. Avevo un considerevole vantaggio di una trentina di chili su chiunque, così, anche se il mio kart non era certamente come i migliori che si disputavano le cose di Interlagos, io riuscivo a taccare sempre dei tempi che lasciavano a bocca aperta chi si trovava in pista. I 13 anni necessari per poter disputare una corsa mi sembravano lontanissimi. Contavo i giorni che mi separavano da quell’età».
Un Rato come mito
Il tempo, comunque, passò, e arrivò il momento di schierarsi in pista insieme agli altri, per confrontarsi curva dopo curva con altri piloti, in carne e ossa, non con un freddo cronometro. «Alla prima corsa ero il più giovane del lotto. Partii come un colpo di fucile e rimasi in testa per molti giri, finché mi buttarono fuori a tre giri dal traguardo». Il ghiaccio era però rotto. E in che modo! Un modo che convinse suo padre che aveva visto giusto. Quel ragazzo aveva la stoffa per diventare qualcuno nell’automobilismo agonistico. Ma bisognava muoversi bene, ponderare ogni mossa. Era facile sbagliare e mandare tutto all’aria. Così si rivolse a un meccanico che aveva esperienza di corse di kart e il 1° luglio del 1973, Ayrton mise tutti in fila in quella che sarebbe stata storicizzata nella sua carriera come la sua prima vittoria in pista. In Formula 1 la star era Emerson Fittipaldi, che l’anno prima aveva vinto il campionato del mondo con la Lotus. Il “rato” come era chiamato nell’ambiente per quei suoi denti sporgenti che lo facevano somigliare a un topo da cartoni animati, si sarebbe ripetuto nel 1974, questa volta con la McLaren. Un mito, Emerson. Paulista come lui. Freddo, calcolatore, a dispetto dei luoghi comuni che volevano che il sangue caliente brasiliano avrebbe potuto produrre solo piloti irruenti. Emerson non lasciava niente al caso, e in più occasioni spiegò come per lui il talento da solo non significava niente. Ci voleva rigore e disciplina: due assi cartesiani che pretendevano sacrifici, ma che restituivano risultati. Un mito, Emerson. Tutto questo si traduceva con una sola parola: professionismo. E il giovane Ayrton si comporta da subito come un professionista, aiutato in questo da suo padre, che dopo questa prima vittoria lo affida alle cure tecniche del miglior preparatore di kart sulla piazza, che quando se lo trovò davanti vide come il casco fosse quasi sproporzionato nelle mani di quel ragazzino: «Correva sempre con il numero 42, e con un casco giallo con una striscia verde alla quale poi ne aggiunse una blu, i colori della bandiera brasiliana. “Simbolo del mio paese e della mia gente”, mi spiegò. Non aveva rivali, Ayrton e gareggiava sempre e solo per vincere. Il secondo posto per lui era come l’ultimo. Era un perfezionista fino alla noia, attento a ogni dettaglio. Non tollerava nemmeno il minimo graffio sul suo kart. Doveva essere tutto perfetto. Come lui».
Che tecnica il Menino!
Dopo aver messo tutti in fila nel campionato nazionale di kart, nel 1977 conquistò quello internazionale, con i giornali che mettevano in risalto la tecnica senza precedenti che quel ragazzo usava: fino a quel momento, nei rettilinei, tutti i concorrenti bloccavano il condotto del carburatore con la mano destra per arricchire la miscela e lubrificare meglio il cilindro con più benzina, ma poi la mettevano nuovamente sul volante per affrontare le curve. Ayrton invece disegnava le curve con una mano sola, con notevole vantaggio nella velocità del suo kart. Una tecnica ora usata da tutti i concorrenti. Il passo successivo era la partecipazione al campionato del mondo del 1978 in programma a Le Mans. Dopo essere entrato in contatto con i fratelli Parilla, proprietari della DAP di Milano, Ayrton risultò subito più veloce del loro pilota, Terry Fullerton, campione del mondo del 1973, e alla fine dei test svolti sul kartodromo di Parma, si accordò firmando come seconda guida. Nella gara di Le Mans stacca il terzo tempo dietro Fullerton e Corrado Fabi. In corsa fu eliminato da un contatto con l’inglese Mickey Allan. Una delusione. L’anno successivo lo vede conquistare il secondo posto nel campionato del Sud America e partecipare al mondiale sul circuito dell’Estoril, in Portogallo. In qualifica sono subito scintille con Fullerton, col risultato di finire entrambi fuori pista. Nella prima manche taglia il traguardo al quinto posto, mentre nella successiva è secondo. Nell’ultima, quella che vale l’assegnazione del titolo, Ayrton va subito in testa, e vi rimane fino alla fine, quando taglia il traguardo alzando le braccia. Una gioia che però è destinata a diventare presto delusione: il tempo perché gli venga comunicato che aveva lo stesso punteggio di Peter Koene, con la differenza che l’olandese vantava risultati migliori in qualifica: una scorta che valeva il titolo. Una beffa per chi era destinato a diventare il re delle qualifiche.
Kart addio
L’obiettivo del campionato del mondo kart è il chiodo fisso di Ayrton. Nel 1980 il sogno svanisce alla partenza, quando viene spinto fuori pista dallo svizzero Marcel Gysin, riuscendo a conquistare un secondo posto frutto di una rimonta rabbiosa. Per l’anno successivo i cambiamenti regolamentari portarono i motori dei kart che disputavano il mondiale a 135 cc., mettendo in difficoltà la DAP, che si trovò spiazzata perché non in grado finanziariamente di far fronte a una simile variazione. Il risultato fu il quarto posto di Ayrton con un vecchio motore da 127 cc. L’ultimo assalto al campionato del mondo che si disputava in Svezia, sulla pista di Kalmar, fu un totale fallimento. Il kart gli diede problemi fin dalle qualificazioni, facendolo schierare in fondo al gruppo. Con una rimonta incredibile riuscì a portarsi in testa, ma un incidente verso la fine della gara lo precipitò in un deprimente quattordicesimo posto. Quella fu la sua ultima gara di kart a livello internazionale. Il mondo del kart declinava però ormai velocemente: con la testa già verso le monoposto, vinse il campionato brasiliano, a Porto Alegre: «I kart sono stati la scuola. Sui suoi banchi per così dire ho imparato la tecnica, i trucchi del mestiere che poi utilizzerò in formula 1, con l’unica differenza nella velocità di punta, che con le monoposto sono anche tre volte superiori a quelle dei kart, ma tutto il resto, il controllo in curva, le frenate, la lotta e, in particolare, la guida sotto la pioggia, sono molto simili. Il kart mi ha dato grandi soddisfazioni, ma anche grandi insegnamenti».
Nato per le monoposto
Per diventare un pilota professionista Ayrton doveva lasciare l’amato Brasile per raggiungere quell’Inghilterra patria dell’automobilismo agonistico per competere in Formula Ford, quella categoria che metteva tutti nelle stesse condizioni: tutti con lo stesso motore a disputarsi la vittoria. La mancanza di appendici aerodinamiche esaltava le doti di guida individuali, affinando la tecnica in funzione del salto in categorie superiori. «Il mio approccio con questa categoria avvenne nel novembre del 1980. Chico Serra mi portò da Van Diemen e mi presentò a Ralph Firman. Mi fu consentito di fare un test di una decina di giri a Snetterton, ma trovai la monoposto con problemi soprattutto in curva. Tuttavia Ralph fu soddisfatto e mi propose di correre con loro per la stagione successiva». Il giovane brasiliano aveva le idee già molto chiare, tanto che Chico Serra ricorda un episodio illuminante al riguardo: «Nonostante l’età e l’inesperienza in monoposto, Ayrton sapeva bene quello che voleva e mise molta pressione su Ralph Firman, che alla fine, non potendone più, mi bisbigliò: “ma chi si crede di essere quello lì?”. Credo che Ayrton sapesse bene quello che era. Eravamo noi a non saperlo ancora, ma lo avremmo appreso a breve». Ayrton andò a vivere con Lilian Vasconcelos Sousa in un appartamento preso in affitto a Norfolk. Durante la sua prima stagione, nella categoria 1600cc., prese parte a due campionati: il Townsend Thorensen e il RAC. Nella sua prima gara concluse al quinto posto, una settimana dopo arrivò terzo alla primo appuntamento del campionato Townsend Thoresen a Thruxton , dove salì sul podio. La prima vittoria in monoposto arrivò sotto la pioggia battente della terza gara. In quell’occasione, Ayrton lasciò tutti dietro grazie a una superiorità schiacciante in quelle condizioni: una superiorità con cui faranno i conti anche i futuri colleghi della formula 1. Alla fine di quell’anno risultò il primo pilota a vincere entrambi i campionati al debutto. Fin dalle prime gare Ayrton mostrò una tecnica che conserverà e anzi affinerà nel corso della sua carriera. Sembrava che fosse nato per pilotare le monoposto. Convinto del grande vantaggio che significava partire in testa, durante le qualifiche era ossessionato dalla pole position, tanto da diventarne il re incontrastato. Partito in testa, era difficile per chiunque raggiungerlo e tanto più superarlo.
Come una lepre
Ayrton appartiene alla categorie delle lepri che, contrariamente a quella dei segugi, una volta in testa sono irraggiungibili. A questa categoria appartenevano piloti quali Ascari, alla seconda, come Stewart. Per adottare la tecnica delle “lepri” bisogna essere capaci di non farsi infastidire da qualsiasi attacco verrà tentato dagli avversari: in caso contrario si sbaglierà irrimediabilmente. Nel secondo caso, bisogna puntare continuamente chi sta davanti, innervosendolo a ogni staccata, a ogni curva, portando all’errore. Senna se ne fregava di quello che accadeva dietro di lui. Inoltre apparteneva a un’altra categoria vincente: quella di chi porta la macchina al traguardo rispettandone la meccanica. Altri piloti, invece, pur essendo velocissimi, rischiano di vanificare tutto per aver maltrattato la monoposto fino a provocare il cedimento di qualche componente. Uno di questi era Jochen Rindt, che negli anni Sessanta era fra i più veloci in assoluto, ma appunto poco rispettoso della meccanica, col risultato di ritardare di parecchio l’appuntamento con il riconoscimento del suo talento attraverso la conquista della prima vittoria in Formula 1 e poi dello stesso campionato del mondo: vittoria che il pilota austriaco conquisterà nel 1970 a sua insaputa: sarà infatti il primo e unico pilota a vincere il mondiale post mortem. Rindt morì infatti a Monza, in qualifica, in un incidente “stupido”: oggi non si slogherebbe nemmeno un polso. Nei due Gran Premi rimanenti, i suoi avversari diretti, in primis il ferrarista Jacky Ickx, non riusciranno a superare i punti realizzati con le cinque vittorie conquistate fino a quel momento.
La saudade
I successi immediati di Senna in monoposto non saranno tuttavia sufficienti per smussare una serie di problemi che si verificheranno contemporaneamente e di carattere squisitamente personale e familiare. Lilian mostrava sempre più insofferenza nei confronti di una vita fatta di autodromi e corse tutte le settimane, fra persone che non conosceva, mentre aumentava in lei la saudade: la nostalgia del suo Brasile. Una nostalgia che Ayrton, pur essendone posseduto, mitigava attraverso i successi in pista. Ma c’era un altro problema: «La stampa brasiliana non mostrava grande interesse per i miei risultati». Il suo sostegno era vitale per le sponsorizzazioni, ma gli occhi erano puntati tutti su Roberto Moreno e Raul Boesel, piloti emergenti in Formula 3, e per la star Nelson Piquet, fresco vincitore del campionato del mondo di formula 1 con la Brabham. Così, ripartì per il Brasile con Lilian, convinto di non dover più ritornare in Inghilterra, disertando anche l’International Brands Hatch Festival , che lo annoverava fra i favoriti. «Mio padre mi disse che la sua attività necessitava del mio aiuto. Quando partii avevo infilato 13 vittorie su 18 gare ed ero già campione virtuale. Partii con la consapevolezza che non sarei più tornato. Sarei rimasto in Brasile fino al febbraio del 1982, senza mai pensare più alle corse, né alle macchine che mi avevano strappato il cuore fin da bambino». Ma nonostante tutte le buone intenzioni, Ayrton si rese conto di non poter restare in Brasile mentre iniziava la nuova stagione agonistica in Europa. Un pensiero che diventò un tarlo destinato a rodergli ogni pensiero, finché prese la decisione di chiedere una riunione familiare per discutere del suo futuro. «Mi accorsi che non tenevo lontano il pensiero delle corse, ma che cercavo di tenerlo lontano, solo che a un certo punto questa contraddizione esplose e mi resi conto all’improvviso che il mio posto era in una pista». In una lunga riunione con tutta la famiglia riunita attorno a un tavolo, Senna spiegò quale fosse il futuro che immaginava per sé». Suo padre non potette che prendere atto di quella volontà di ferro di suo figlio. Una volontà contro la quale nulla avrebbe potuto avere ragione. Così si convinse che quella era proprio la strada di suo figlio: quella di gareggiare in pista per dimostrare al mondo intero che nessuno, proprio nessuno era meglio di lui. Suo padre Milton chiese così al suo amico Armando Botelho Teixeira di prendersi cura del suo ragazzo, occupandosi di tutti gli aspetti commerciali e legali legati alla sua attività. La ripartenza per l’Inghilterra provocò il divorzio da Lillian, perché quei due ragazzi non erano due fidanzati, ma marito e moglie.
Gilles
All’inizio del 1982 Ayrton tornò in Inghilterra per disputare il campionato di Formula Ford nella categoria 2000. Nonostante non avesse un solo chilometro di prove alle spalle, risultò subito il più veloce, aggiudicandosi le prime due gare in calendario a Brands Hatch e Oulton Park il 7 e 27 marzo. Fu dopo la seconda vittoria che il suo amico fotografo Keith Sutton gli disse che era giunto il momento di pensare anche al marketing, alla promozione di sé stessi, e preparò una cartella stampa con ta...

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