Il titolo dell’opera testimonia della natura eminentemente scolastica dell’argomento che avrebbe dovuto essere trattato nella sezione principale del dialogo, purtroppo non pervenuta. Ci si interrogava cioè se Virgilio fosse stato oratore o poeta, oppure, in altre parole, se la lectio Vergilii fosse più adatta alla formazione del futuro oratore o a quella del futuro poeta (cf. Introduzione, pp. 18–21).
1.1 Messinscena: ambientazione e incontro con i Betici
Il poeta e professor Floro, autore, personaggio e voce narrante del dialogo, si presenta come in cerca di sollievo, dopo una notte di veglia dovuta probabilmente a fatiche letterarie, in un complesso templare sistemato a giardino, con piante ed euripi, e circondato di spazi aperti. Su questo sfondo idillico-sacrale avviene l’incontro con dei Betici, sospinti dal vento di ritorno dall’Urbe su una costa riconosciuta come quella tarraconense già dal primo editore del dialogo (RITSCHL 1842, 309–310; l’identificazione è accettata da tutti salvo che da CAVEDONI 1854, che pensava, con argomenti meno solidi, a Carthago Nova).
Ho cercato altrove di dimostrare, con argomenti di ordine letterario, storico, epigrafico ed archeologico, che il contesto sacrale in cui è ambientato il dialogo è da riconoscere nel tempi o di Augusto sulla collina retrostante la città di Tarraco (cf. ROCCHI 2014, ID. c.d.s. e anche MAGGI 2012, 96 n. 33) e non in un tempio sulla spiaggia della città, come un tempo ritenuto sulla scorta di un dialoghetto gelliano (Gell. 18.1.2–3) e dell’Octavius di Minucio Felice, entrambi ambientati sulla spiaggia di Ostia (così JAL 1967, II 106 – «les jardins qui entourent un temple, dans le port de Tarragone» – e RICHARDSON 2000, 432–433; ma lo escludevano, per quanto sulla base di conoscenze o argomentazioni archeologiche imprecise, già EUSSNER 1885, 183 e SCHULTEN 1932, 2401 s., che pure suggeriva un tempio sulla collina della città). A lungo di discussa ubicazione, il santuario di Augusto è stato ora unanimemente riconosciuto al centro del terrazzamento superiore del cosiddetto “foro provinciale”, un grandioso complesso architettonico polifunzionale realizzato, a partire grosso modo dalla prima età flavia, sulla collina retrostante la città bassa. Il tempio, progettato e realizzato a cominciare dall’età tiberiana, sarebbe stato poi interessato da nuovi interventi sul temenos congiuntamente alla scenografica sistemazione della detta collina su tre livelli: a coronamento, il “recinto di culto”, una vasta terrazza con al centro l’edificio adibito alla devozione imperiale e circondata su tre lati da una porticus, dotata a sua volta di una sala absidata in asse col tempio medesimo, il modello della quale è stato individuato nel templum Pacis di Roma; in posizione intermedia, una terrazza di enormi proporzioni circondata da criptoportici e portici, adibita a funzioni amministrative e cerimoniali del conventum provinciae, con apprestamento a giardino e decine di statue onorarie di flamines e flaminicae; al piano inferiore, il circo, di età domizianea, per gli spettacoli e per l’autorappresentazione imperiale nella persona del governatore provinciale.
Se la mia ipotesi non è errata, ove il tempio fosse stato meglio indicato in quella parte del dialogo che non possediamo più, vi sarebbe potuto essere anche un legame o uno spunto tematico tra il numen augusteo del tempio ed il tema virgiliano di questo opuscolo retorico-scolastico, secondo una ben consolidata tradizione del genere dialogico. Si possono fare, a questo proposito, diversi esempi. Nel libro I delle Res rusticae varroniane è evidente la relazione tra l’argomento dell’opera e l’aedes Telluris, nella quale Varrone incontra gli altri interlocutori del dialogo intenti a rimirare in pariete pictam Italiam (Varro rust. 1.2.1). È poi ambientato nella villa publica il libro III delle stesse Res rusticae, dedicato alle villaticae pastiones, cioè agli animali da allevamento nelle grandi ville di campagna. Infine si può ricordare la passeggiata “archeologica” dal Dipylon all’Accademia nel libro V del de finibus ciceroniano che tratta delle dottrine del filosofo accademico Antioco d’Ascalona (Cicerone parla esplicitamente della capacità evocativa dei luoghi: fin. 5.2 tanta vis admonitionis inest in locis; sul passo e sulla relazione tra tema e ambientazione dei dialoghi ciceroniani, vd. NARDUCCI 2003, 135 ss.). In Priap. 2 l’anonimo autore della raccolta afferma, nella fiction del componimento, che i suoi versi di contenuto scurrile sono stati graffiti – quasi come un atto cultuale – sulle pareti del tempio del dio Priapo (2.9–10 quod otiosus / templi parietibus tui notavi; sulla fiction dell’ambientazione templare dell’atto poetico, vd. HÖSCHELE 2010, 276–279).
capienti mihi … <otium> et ... caput ... recreanti ~ Per un beffardo errore di tradizione manoscritta proprio all’inizio del dialogo si incontra una difficoltà testuale su cui si è alacremente esercitata la maggior parte dei filologi che si sono interessati al Vergilius. La qual cosa ha finito inevitabilmente per appesantire gli apparati critici delle ultime edizioni. Per ovviare al problema mi sono limitato a segnalare in apparato soltanto gli emendamenti, a mio parere, migliori, e cioè la proposta di Schopen capienti mihi quietem (in RITSCHL 1842, 303), che ha però il difetto di creare un nesso che vuol dire anche “prendere sonno” (vd. Sisenna hist. 45), e soprattutto l’ipotesi di Damsté che, migliorando una congettura di HELMREICH 1897, intravedeva la caduta della parola otium tra templo ed et (DAMSTÉ 1912, 145–146). L’inserimento di otium in tale posizione ripristinerebbe forse un chiasmo dei predicati e degli oggetti in ampi iperbati che sembra adattarsi all’elaborazione retorica dell’incipit (cf. anche infra pp. 55–56) e che viene richiamata più oltre nel testo (cf. 3.4). Sul nesso tra (quietem) otium e capere o derivati si vedano, seppure con significati diversi: Plaut. Trin. 658 otio captus (cf. ThlL III 341,76 [Hey] e II 327,60 [Prinz], per una difficoltà testuale ivi contenuta); Sall. or. Lep. 9 quies et otium cum libertate, quae multi probi potius quam laborem cum honoribus capessebant; Sen. dial. 3.10.2 non potest hic animus fidele otium capere; epist. 104.7 qui … otium captat; Tac. ann. 14.3.1 Nero … abscedentem, scil. Agrippinam, in hortos … laudare quod otium capesseret; Sidon. carm. 2.198 otia captans; Cassiod. anim. 3 l. 25 nec aliquando otium capiens, scil. spiritus. Credo inoltre che due passi del testo conservato corroborino tale ipotesi: per la precisione, un richiamo all’ozio (2.1 si ita indulges otio) ed un riferimento agli Egizi (2.2 populum semper in templis otiosum), certamente poco complimentoso, ma forse anche un poco autoironico, dal momento che l’autore si trova lui stesso in un tempio per prendere un poco di riposo (l’autore di Priap. 2 si inscena come otiosus nel tempio di Priapo e occupato a graffire versi sulle pareti del sacello; sul motivo dell’otium letterario nei Priapea, vd. MORELLI 2018).
Non sono comunque mancate molte altre ipotesi di correzione, ispirate ai singoli filologi dalla loro sensibilità linguistica o dalle loro letture di altri dialoghi, con interventi talvolta pesanti, talaltra persino improbabili, e tali da configurarsi come vere e proprie riscritture dell’incip...