Eraldo Affinati
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Eraldo Affinati

La scuola del dono

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Eraldo Affinati

La scuola del dono

Informazioni su questo libro

«Queste persone imperfette mi commuovono, in quanto rappresentano, come meglio non si potrebbe, l’essenza dell’umanità. Se così non fosse, non verrebbero da noi. Resterebbero a casa. Chi vive sbaglia. Si sporca le mani. Mette in gioco se stesso. Ma la cosa più bella è un’altra: l’energia da cui sono animati questi individui feriti, spiritualmente irrequieti, alla perpetua ricerca di qualcosa che forse, inutile negarlo, non troveranno mai, deriva da tale incompiutezza. Il fascino che li avvolge si alimenta dell’insoddisfazione, della frenesia» (Eraldo Affinati, Via dalla pazza classe ). La ricerca delle motivazioni profonde, non ancora del tutto acquisite, di questa energia e di questa commozione è il sentiero principale percorso nell’impianto saggistico della I Parte della monografia su Eraldo Affinati. Nella II Parte, caratterizzata da un intento didattico come nell’idea della collana “Universale”, il libro compone per la prima volta una cronistoria dei libri di Affinati attraverso un’ampia rassegna della critica militante, con una corposa bibliografia degli interventi saggistici dell’autore e sull’autore. Ad una visione progressiva dell’opera di Affinati risalta il dilatarsi dell’esperienza della gratitudine colta in relazioni umane sempre più avvincenti, dalla percezione del «vuoto pneumatico» dell’adolescenza alla fondazione della comunità educativa della Penny Wirton che dall’iniziale nucleo romano si è estesa in tutta Italia e in Svizzera.
La scuola del dono.

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Informazioni

1. «Senza l’imperfezione non sapremmo misurare il valore della vita nelle sue molteplici forme»

Su questa strada nessuno deve smarrirsi, esorta, dunque, Mario Rigoni Stern.
Neanche Hurbinek, il bambino figlio di Auschwitz, di circa tre anni, paralizzato dalle reni in giù, gambe atrofiche, sottili come stecchi, ma con occhi terribilmente vivi e desiderosi.
Lo ritrae, evocandolo dalle atrocità del lager, Primo Levi, lì dove un filo di pietà attraversa il baratro tra la vita e la morte.
Marco Paolini lo rappresenta lucidamente per chiudere in apocope il racconto teatrale, Ausmerzen: vite indegne di essere vissute utilizzando la citazione di Rigoni Stern che ho ricordato all’inizio.
Soltanto Henek, un ragazzo di quindici anni, ungherese, si prende cura di Hurbinek, “tranquillo e testardo sedeva accanto alla piccola sfinge” tentando di farlo parlare, di captare i suoni della sua lingua:

Hurbinek, che aveva tre anni e forse era nato in Auschwitz e non aveva mai visto un albero; Hurbinek, il senza nome, il cui minuscolo avambraccio era pure stato segnato col tatuaggio di Auschwitz, Hurbinek morì ai primi giorni di marzo del 1945, libero ma non redento [1] .

Nulla resta di lui: egli testimonia attraverso le parole di Levi e poi quelle di Paolini la resilienza dell’imperfezione alla tirannide. Non si dovrà mai più pronunciare l’osceno slogan razziale dell’eugenetica nazista: vite indegne di essere vissute.
Ho scelto di attraversare le fasi della maturazione inquieta del Comandante, le strade del pellegrino, la condivisione del Maestro nella narrativa di Affinati estraendone la radice tematica dell’imperfezione nella convinzione che chiunque commetta atti di violenza o di bullismo oggi contro persone, apparentemente più deboli, si rende complice della stessa matrice ideologica eugenetica, capace di sterminare migliaia di persone e non ancora sconfitta alla radice.
Monito sull’attualità che, da parte tedesca, risuona autorevole grazie alla notorietà dell’autore e alla sapiente commistione di verità storica e fiction, nel recente romanzo di Uwe Timm, Un mondo migliore, edito in Italia da Sellerio.
Nel filone principale della storia si ricostruiscono le vicende dell’amicizia di due socialisti nella Germania del primo Novecento fino al secondo dopoguerra. Se l’uno, Karl Wagner, rimane fedele a quelle idee, finendo per condurre la vita isolato nella sua libreria, l’altro, Alfred Ploetz [2] , figura storica, inventore della formula “igiene razziale”, si schiera dalla parte dei nazisti, affascinato dagli studi di eugenetica, divenendo uno degli scienziati di punta del regime, libero di sperimentare le sue teorie. Il fallimento delle utopie comunitarie, Ploetz e Wagner visitano Icaria, in Texas, sono alla base della decisione dell’igienista di condurre le ricerche eugenetiche, favorite e valorizzate da Hitler ancor prima della presa del potere in Germania. Del bellissimo romanzo, più di cinquecento pagine, che seguono l’inchiesta del giovane americano Michael Hansen sull’eugenetica nazista, prima che la Guerra fredda assorba tutto l’interesse politico, determinando, di fatto, l’inutilità di quelle ricerche, giova ricordare quanto il pensiero di Ploetz sia basato su quello che ancora oggi rischia di essere una considerazione diffusa: l’aiuto conduce al declino della razza (ovvero toglie risorse ai sani). Per Ploetz, nello studio Il valore della nostra razza e la protezione dei deboli, la selezione è un atto divino, l’aiuto sociale un atto diabolico. Torneremo a breve su queste tematiche, ripercorrendo la via opposta, ovvero l’elogio dell’imperfezione tessuto da Affinati, in particolare in uno dei suoi capolavori: Un teologo contro Hitler.
Il recente romanzo di Emmanuel Carrère, D’autres vies que la mienne, riecheggia quel “vite” anche nella traduzione italiana: Vite che non sono la mia.
Libro irritante, in quasi tutta la prima parte, specchio ustorio di quel tipo di intellettuale detestato da Affinati, perché separa il pensiero dall’azione, magari teorizzando una certa impunità dell’artista, trova, staccandosi dal suo esclusivo punto di vista paralizzante, delle pagine toccanti, commoventi, vere.

E che significa poi l’esterno quando tutta l’isola è colpita? Nessuno è stato risparmiato, ognuno si occupa dei propri morti. Ruth dice così, eppure vede bene che io ed Hélène [moglie dello scrittore] l’abbiamo scampata. Siamo indenni, siamo insieme, indossiamo abiti puliti, non cerchiamo nessuno in particolare. Dopo questa visita all’inferno, torneremo al nostro albergo dove ci serviranno il pranzo. Faremo il bagno in piscina, baceremo i nostri figli pensando che ci è mancato poco. La cattiva coscienza non fa progredire [3] .

La coscienza mortificata di non poter far nulla, fustigante voce di sottofondo, sembra scaturire da un sentimento di autenticità, eppure diventa autocommiserazione di fronte alle continue sollecitazioni, rifiutate, della realtà. Inettitudine e paralisi di per sé umane, non condannabili, se non fosse quella accettazione della distanza alla fine ostentata in una umiltà untuosa, falsa di fronte ai drammi degli altri.
Prima lo tsunami in Sri Lanka, nel 2004, con l’atroce morte di Juliette, ragazzina di soli quattro anni; di seguito l’agonia per tumore di un’altra Juliette, la cognata dello scrittore.
Superata un’anaffettività di fondo, decide di raccontare quelle esistenze, con l’unica arma che ha per renderle vere a se stesso: la scrittura.
«È allora che Carrère capisce che non può continuare a nascondersi e deve in qualche modo farsi carico di queste storie. Raccontare ciò che fa più paura. Ritrovare nelle vite degli altri, in ciò che ci lega, la ragione della propria esistenza: perché è quello che fa un testimone», recita la quarta di copertina.
Per ricostruire la vita della seconda Juliette, giudice di grido, comincia con l’ascoltare Étienne, suo collega.
Lo scrittore si introduce nel mondo delle vite indegne di essere vissute e lo fa in modo sublime, evidentemente colpito dal dolore dei genitori della piccola Juliette (molto dopo i fatti) e dal coraggio della cognata.
Sia Juliette malata che Étienne raccontano, infatti, storie di disabilità, di reciproca dipendenza nei gesti quotidiani.
Fino a esprimere una impensabile gratitudine:

Non dico che l’infermità mi abbia reso più intelligente e profonda, ma grazie a lei se ci sono le bambine, e allora, è il contrario del rimpianto, il contrario dell’amarezza, non passa giorno senza che mi dica: ho l’amore. Tutti lo rincorrono, io non posso correre ma ce l’ho. Amo questa vita, amo la vita, l’amo con tutta me stessa. Capisci? [4]

La scrittura diventa un compito, percepito a posteriori, per lenire, per quel che è possibile, il dolore: «E io che sono lontano da loro, io che per ora, e sapendo quanto sia fragile, sono felice, vorrei lenire quello che può essere lenito, talmente poco» [5] .
Carrère, attraverso questa esperienza di contatto con la malattia, ha scoperto una cosa nuova: «preferisco ciò che mi rende simile agli altri a ciò che me ne distingue. Anche questa è una cosa nuova» [6] .
La ricerca di un solido legame con l’altro, non partendo da una lontananza, è il risultato evidente di un lungo lavoro su se stessi e le proprie inclinazioni, una lenta metamorfosi, nella fedeltà agli ideali di partenza espressi, ancora ciecamente, dal Comandante. Lo slogan fondativo della Penny Wirton è semplice: crediamo nei rapporti umani, che poi la letteratura certifica con l’invenzione di un linguaggio credibile e originale. Autentico come quelle esperienze.
Qualche anno dopo, nei mesi del passaggio del millennio nei cosiddetti anni Zero, l’indicazione di Barbaro trova, per chi scrive, conferma autorevole nel saggio di Giulio Ferroni [7] per l’Enciclopedia della Letteratura Garzanti che riserva ad Affinati una posizione privilegiata insieme ad un numero limitato di scrittori, la cui attività, ancora in pieno svolgimento, giustifica una sia pur “cauta” speranza per il futuro della narrativa. Era già implicita in Ferroni la severa ammonizione agli scrittori “a perdere”, condizionati dalla gloria effimera del mercato editoriale e travolti dalla imitazione della comunicazione facile dei mass-media [8] .
All’altezza cronologica della rassegna garzantiana erano usciti i primi due capitoli della trilogia del Comandante ( Soldati del 1956 e Bandiera bianca), Campo del sangue e i racconti di Uomini pericolosi, narrazioni eterogenee in cui Ferroni individuava un rigore perfino ascetico, nella volontà inesausta di verificare ininterrottamente il proprio rapporto con il mondo.
Un forte senso di «verità letteraria» [9] viene riconosciuto dalla critica militante e accademica in un percorso giunto alla soglia dei trent’anni di attività attorno a matrici tematiche persistenti e contraddistinto da una prima fase oscillante tra quote di ricreazione fantastica, onirica, progressivamente approdata, in un secondo e terzo tempo, alla narrazione di esperienze scolastiche o di “azioni di conoscenza” verso Maestri e compagni segreti [10] , tra tutti il teologo Bonhoeffer e don Milani. Trovando unità, tra lacerti di inquiete derive, nella bellezza della contaminazione, per cui l’improvvisa reazione linguistica del ragazzo analfabeta e la sofferta dedizione del teologo tedesco al suo credo, fino alla morte, convergono alla “scuola del dono”.
Sviluppo coerente, nel passaggio dall’Italia delle battaglie ideologiche e delle utopie (riflessi se ne scorgono ancora nelle anime inquiete che compongono la figura del Comandante dei primi romanzi di Affinati) a quella dell’industria del consumo televisivo e della società liquida.
Parallelamente, dal 1995, il mio coinvolgimento “professionale” con l’opera di Affinati, l’ammirazione per la sua esperienza umana e pedagogica capace di interrogarsi continuamente senza smettere di agire, sporcandosi le mani, riporta alla “matrice” ideale, almeno come tensione, il mio rapporto con il sapere letterario e gli studenti a cui trasmetterlo. Anche quelli più emarginati, quali i detenuti del progetto di Università in carcere che seguo insieme ad altri colleghi per l’Università di Roma “Tor Vergata” [11] .
L’idea della classe senza voti, uno a uno (un insegnante, un allievo), incarnata dalla Penny Wirton rimane il modello germinativo dei rapporti umani in vista di una società dell’uomo integrale, in qualunque assetto economico e politico si trovi ad operare.
La scuola del dono.
A cui bisogna tendere, dentro l’imprevedibilità delle relazioni nella società multiculturale di oggi, tenendo presente, come lo scrittore romano nei suoi libri, quell’Italia che non va in televisione o sulla stampa maggiore ma vive e lavora in un’ottica di solidarietà e sostenibilità.
Il recente incontro alla Penny Wirton degli studenti con disabilità che animano il laboratorio di scrittura universitario alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma “Tor Vergata”, da cui è nato il documentario-intervista sulla scuola, a cura di Daniele Dalia e Barbara Stazi, è stato l’episodio conclusivo e l’inizio di una nuova fase educativa: via dalla pazza classe, con il riconoscimento dei propri e degli altrui limiti.
In questo impasto tra scrittura ed esperienza educativa, la categoria della non-fiction [12] non funziona per gli ultimi libri di Affinati in cui si descrive, esattamente e in modo straniante per la capacità di invenzioni stilistiche, la varietà multiculturale della Penny, senza mai arretrare davanti al compito etico di affrontare narrativamente domande esistenziali, il male, la deformità, la malattia, declinate nella attualità: l’emarginazione, i fenomeni migratori, il rischio di educare, il vuoto dei valori e dei desideri.
Qualcuno ha parlato, all’opposto (si veda nella II Parte l’intervista di Fracassa), di sperimentalismo per la ricerca costante dello stile e della lingua capace di indicare l’aspetto essen...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. ERALDO AFFINATI
  3. Indice dei contenuti
  4. INTRODUZIONE
  5. PRIMA PARTE
  6. LA SCUOLA DEL DONO
  7. 1. «Senza l’imperfezione non sapremmo misurare il valore della vita nelle sue molteplici forme»
  8. 2. L’urto
  9. 3. I forti hanno bisogno dei deboli
  10. 4. L’orrore e il mostruoso
  11. 5. Il fascino dell’eroe assoluto
  12. 6. I due semidei
  13. 7. «Nel silenzio, nella fiamma, nell’immobilità». Oltre la paura
  14. 8. Allora ci si vorrebbe poter affidare all’essenziale
  15. 9. Il padre e i viaggi con gli allievi
  16. 10. Accendere un fuoco
  17. 11. Erminio: gli innominabili sono tutti i nomi del mondo
  18. 12. La scuola di Penny
  19. SECONDA PARTE
  20. ERALDO AFFINATI: IL FIGLIO, LO SCRITTORE, L’INSEGNANTE
  21. 1. Lo scrittore
  22. 2. Il figlio. L’insegnante
  23. 3. La vera libertà implica l’accettazione del limite
  24. 4. I venti volumi di Eraldo Affinati (1992-2019) finora pubblicati: sintesi e inserti critici
  25. BIBLIOGRAFIA
  26. INDICE DEI NOMI
  27. UNIVERSALE STUDIUM