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Tempora
Informazioni su questo libro
Quattro identità attraversano il Novecento, ognuna con il suo tempo, la sua stagione, il suo nome. Alcuni personaggi sono frutto della fantasia, alcune storie sono reali.
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Informazioni
Regina Vio
Tempora

Copyright© 2020 Edizioni del Faro
Gruppo Editoriale Tangram Srl
Via dei Casai, 6 – 38123 Trento
www.edizionidelfaro.it
Prima edizione digitale: aprile 2020
ISBN 978-88-5512-067-8 (Print)
ISBN 978-88-5512-974-9 (ePub)
ISBN 978-88-5512-975-6 (mobi)
In copertina: Giorgio Povoledo, Capannini al sole, Fano 1977 – Tempera su tela

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Il libro
Quattro identità attraversano il Novecento, ognuna con il suo tempo, la sua stagione, il suo nome. Alcuni personaggi sono frutto della fantasia, alcune storie sono reali.
L’autrice
Regina Vio è nata nel 1964. Ha vissuto, lavorato e soprattutto traslocato per diverse case tra Venezia, Lido e terraferma veneziana. A quarant’anni (compiuti) si è trasferita in Valtellina dove continua a vivere, lavorare e con meno frequenza traslocare.
Tempora

L’inverno di Alfredo
Lo sguardo è libero, diretto, forse solo un po’ stanco, sembra non guardare dentro l’obiettivo della macchina fotografica che lo ritrae, sembra che i suoi occhi incrocino i nostri quasi per caso, vedendo oltre, sorvolandoci in un attimo per scorgere ciò che non riusciamo nemmeno a intuire.
Nella fotografia che tengo tra le mani aveva appena ventiquattro anni, ma sembra un uomo fatto. Aveva di fronte ancora più di cinquant’anni di vita ma sembrava già pronto a sfidare la morte, se per caso fosse arrivata; la dedica sul retro della foto, pur se anonimo il destinatario, di questo si tratta, è con la sua calligrafia:
“Tornando dal lavoro
Ponte della pescheria
Canal Grande
In segno di ricordo
Alfredo
18/1/29”
Quattro righe, cinque con la data, che aprono una storia che non conosciamo, una storia che non appartiene ai figli, ai nipoti (tra cui la sottoscritta) a chi è arrivato poi e lo chiamava marito, padre, nonno. In quel momento, a quella data, quel ricordo non è stato lasciato a noi la sua futura famiglia e però a noi è ritornato perché lui stesso l’aveva custodito.
I pensieri di quel momento non traspaiono dalla foto, possiamo solo ipotizzare, con molta presunzione e conoscendone poi la vita a posteriori uno stato d’animo altalenante tra la stanchezza del lavoro e l’attesa di un incontro magari solo con gli amici prima e con una donna a noi sconosciuta poi.
È realmente appoggiato al ponte che dalla pescheria di Rialto va nella Fondamenta Riva Olio, alle spalle il Canal Grande e nella riva opposta s’intravede l’imbarcadero del vaporetto della Ca’ d’Oro e l’angolo del palazzo. L’abbigliamento denota quell’eleganza sbrigativa che ricordo: ha un dolcevita scuro, una giacca doppiopetto e sopra ancora un cappotto aperto, la mano sinistra è infilata nella tasca della giacca, questa sì quasi una posa, l’altra scivola sul fianco destro, la scorgo sottile, il polso fine, giovanile. In quel febbraio del 1929 arriverà il grande gelo, sarà a memoria per sempre “l’anno del giasso”, la laguna di Venezia ghiaccerà completamente ma in quell’anno cruciale arriverà anche una crisi economica epocale e allora pare che il suo volto seppur giovane, sia già un po’ segnato.
E chissà se quel venerdì (tale era nel calendario) 18 gennaio con la sferzata artica incombente l’avrà tenuto a memoria negli anni a venire? Chissà se quell’attesa indolente che si legge sul suo volto stanco era solo il preludio di ore più liete; se solo si potesse cristallizzare la vita in singoli momenti, in flash precisi da usare nel futuro per ricostruire le singole esistenze, sarebbe un ottimo rimedio alla nostalgia, l’intero fluire del tempo bloccato in singoli fotogrammi.
All’esordio di quel 1929 lavorava già negli impianti elettrici, mestiere che farà tutta la vita con passione e una buona dose di fantasiosa inventiva, per la sua generazione l’elettricità rappresentava la modernità assoluta, l’innovazione più importante degli ultimi secoli e l’applicazione dell’energia elettrica nelle macchine, nelle abitazioni, nelle fabbriche, nei teatri (quante notti passerà a controllare, posizionare, dirigere le luci nei teatri della città) in ogni strumento meccanico apriva notevoli possibilità lavorative.
A Venezia dopo i primi esperimenti alla Giudecca nacque nel 1889 la Società Anonima per Illuminazione e pochi anni dopo all’inizio nel nuovo secolo vennero fondate rispettivamente la Società Italiana per l’Utilizzazione delle Forze Idrauliche (più comunemente chiamata Cellina dal luogo di produzione dell’energia) e la SADE (Società Adriatica di elettricità) che rimarrà per sempre legata al disastro del Vajont. La Società Anonima inizialmente servì solo i privati in una ristretta zona del centro ma già nel 1922 il Comune affidò i lavori di razionalizzazione della rete e nel 1927 tutti i vecchi fanali a Gas erano stati riconvertiti a energia elettrica.
Segnò la fine di un epoca: se il 1700 era stato il secolo dell’illuminazione a olio dall’inizio del 1800 il Gas trionfò: la Lionese, ditta francese che firmò il contratto con la municipalità veneziana insediò la prima officina di stoccaggio del carbone fossile a San Francesco della Vigna in quello che diverrà il primo storico Gasometro e per la prima volta nella sua millenaria storia Venezia vedrà cinquecento botteghe adiacenti alla Piazza San Marco illuminate, il costo a carico dei privati non era poco, ma l’impatto dal punto di vista commerciale e turistico fu grandioso.
Non mancarono però le lamentele della popolazione, soprattutto quando l’illuminazione si estese all’intera città e l’odore di gas divenne sgradevole ma anche l’eccessiva intensità luminosa e la colorazione della stessa luce a detta di alcuni artisti dell’epoca risultava artificiale e particolarmente brutta in una città come Venezia dove la luminosità è il palcoscenico di una rappresentazione quotidiana; cercarono di ovviare con reticelle imbevute di sali di sodio, potassio, litio e rame ma per avere una luce neutrale, gradevole e soprattutto sicura bisognerà aspettare appunto quel 1927 quando a trionfare sarà l’elettricità nell’intera città.
Alfredo aveva finito il corso per installatori elettricisti all’“Istituto per il lavoro per le piccole industrie” nel 1924 e poi era stato chiamato alla leva in marina militare nel febbraio del 1925 e congedato dopo due anni come era di norma ma già a maggio si era imbarcato nuovamente per un altro anno con la mansione di “carbonaio” prima ed elettricista poi. Notizie che ricavo agevolmente dal suo libretto di “matricolazione” della Marina Mercantile Italiana e altrettanto facilmente ricostruisco il percorso lavorativo successivo dal suo libretto personale di paga, che inizia a gennaio del 1928 e distilla con precisione cronometrica i giorni lavorati e le diverse ditte che alternativamente lo assumevano e lo licenziavano. In questo quadernetto che copre due anni lavorativi ritrovo il gennaio del 1929 e precisamente venerdì 18: in quel mese aveva lavorato cinque giorni per un totale di trentadue ore, idem nel mese successivo, il fatidico gelido febbraio, e poi ancora quattro giorni in marzo e tre in aprile e poi l’ennesimo licenziamento.
Il susseguirsi di lavori era dovuto chiaramente alla crisi incombente, le motivazioni sugli attestati dichiarano la buona volontà dell’operaio e l’esubero di personale o la mancanza di lavoro; già alla fine di aprile troverà un’altra ditta di impianti elettrici e ci rimarrà per due anni, passerà poi un anno a lavorare per la Società Ferrobeton nel cantiere per la costruzione del ponte stradale tra Venezia e Mestre: l’attuale ponte della Libertà.
Se rifletto sulle certezze incrollabili del posto fisso e vedo il libretto di lavoro di mio nonno non posso che concludere che la flessibilità era un pane comune e amaro già in quegli anni 20 del ‘900 e mi chiedo quale fascinazione aveva per lui l’energia elettrica, per quale motivo non ha mai rivolto le sue possibilità lavorative ad altri settori.
Non era ovviamente una tradizione di famiglia visto l’assoluta novità che rappresentava per l’epoca, suo padre Camillo era fabbro e suo nonno Gaetano (a questo punto mio trisavolo) amava definirsi un’artista tanto che nel documento d’identità riportava come mestiere pittore, si era sposato con una nobildonna veneziana tale Josefa dei conti Perulli da cui erano nati oltre Camillo altri due figli maschi.
Sua madre Antonietta era originaria di Ravenna e proveniva da una famiglia dedita alla musica, il padre era “maestro-direttore-concertatore d’orchestra”, lei stessa nacque durante una tournée che aveva portato i genitori in quella città. Molti racconti sono rimasti legati ai viaggi che l’intera famiglia (oltre alla madre c’erano anche due fratelli) faceva al seguito del “musicista”, uno tra i più rimarcati era il concerto tenuto dal padre a Vienna alla presenza di Francesco Giuseppe che alla fine non solo si congratulò con l’esecutore ma accortosi che Antonietta era attratta da un cucciolo di cane che aveva fatto capolino nella sala, senza indugio lo regalò alla bambina.
Di questa storia o meglio dell’int...
Indice dei contenuti
- L’inverno di Alfredo
