Capo Guardafui
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Capo Guardafui

Un secolo di naufragi e di pirateria nelle acque del Corno d'Africa

  1. 133 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Capo Guardafui

Un secolo di naufragi e di pirateria nelle acque del Corno d'Africa

Informazioni su questo libro

Letto questo libro, si può anche sorridere del Triangolo delle Bermude! Quel tratto di oceano Atlantico, compreso tra la Florida, Puerto Rico e le Bermude, è un tranquillo stagno a confronto con le acque dell'oceano Indiano che bagnano le coste del Corno d'Africa, ovvero la Migiurtinia, la regione più orientale del Continente Nero, di cui capo Hafun e capo Guardafui sono le punte estreme.Tra la seconda metà dell'Ottocento e la prima del Novecento non vi erano al mondo acque più pericolose, come dimostra l'elevato numero di incagliamenti e di naufragi, favoriti da nebbie, tempeste, correnti e barriere coralline. Ma i pericoli venivano anche da terra: dai pirati, che, come branchi di pesci piranha, spolpavano i relitti delle navi incagliate o spiaggiate e sottraevano ai naufraghi quel poco che essi erano riusciti a salvare, lasciandoli senz'acqua, senza cibo, senza la possibilità di chiedere soccorso.Molte di queste tragedie si sarebbero evitate se solo fosse stato costruito un faro sul promontorio di capo Guardafui. L'argomento alimentò molte polemiche in Europa, finché nel 1925 l'Italia, sottomessa la Migiurtinia, costruì a capo Guardafui l'atteso faro, che intitolò a Francesco Crispi. Cinque anni più tardi, il faro venne ricostruito: più alto, più potente, a forma di fascio littorio. Oggi è ancora là, spento e dimenticato.

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Informazioni

Editore
Ledizioni
Anno
2020
Print ISBN
9788855260824
eBook ISBN
9788855260831
Argomento
Storia
Capitolo XVI. INTRIGO INTERNAZIONALE
Il leone in agguato, che con sottili inganni attirava le navi sulle sue scogliere fatali, la notte fra il 15 e il 16 maggio 1932 fece un’eccezione: per catturare la «Georges Philippar» dovette ricorrere al fuoco.
Probabilmente il vecchio leone di capo Guardafui avrebbe preferito usare metodi tradizionali, come assumere le sembianze di altre protuberanze della costa o dare sfogo ai venti e alle correnti, ma non poteva più permettersi strumenti così raffinati: da troppo tempo il faro Francesco Crispi lo aveva costretto al digiuno.
Forse, più della fame, quella bestiaccia temeva che una lunga astinenza potesse compromettere la sua secolare reputazione di «capo maledetto». Perciò si piegò a una soluzione «alternativa»: il fuoco appunto. E la lussuosa motonave francese «George Philippar», nuova di zecca, era un’eccellente occasione per ricordare al mondo intero il rispetto dovuto a un dio del mare.
In effetti, la fine della «Philippar» suscitò vasto clamore, perché si trattava di una bella nave, perché era al suo primo viaggio, perché vi furono molte vittime. Soprattutto perché l’ombra di un intrigo internazionale aleggiò a lungo su quella tragedia.
La notizia della perdita della «Philippar» giunse in Europa il giorno stesso. Il Corriere della Sera del 17 maggio titolò: «Gigantesco rogo nell’oceano Indiano», e aggiunse nel sommario: «La più grande motonave francese distrutta dalle fiamme».
La «Philippar» era grande davvero: lunga 171 metri e mezzo, larga 20,8, 17.360 tonnellate di stazza lorda, segnava la fine dell’era dei piroscafi e inaugurava quella delle motonavi. Era azionata infatti da una coppia di motori Diesel a due tempi della Sulzer Bros di Winterthur, Svizzera, che fornivano alle due eliche 11.000 cavalli, quanto serviva per assicurare alla nave una velocità di crociera di 16 nodi e massima di 18 (33 km/h). Le sue lussuose cabine potevano ospitare 396 passeggeri: 196 in prima classe, 110 in seconda e 90 in terza, assistiti dai 250 membri dell’equipaggio. Insomma, una nave moderna, veloce, confortevole, che avrebbe reso piacevole la lunga permanenza in mare di chi doveva recarsi nelle colonie francesi dell’Estremo Oriente.
La Compagnie des Messageries Maritimes l’aveva commissionata ai Cantieri Navali dell’Atlantico di Saint Nazaire per rimpiazzare il piroscafo «Paul Lecot», perduto il 21 dicembre 1928, in seguito a un incendio causato da un cortocircuito mentre era nel bacino di carenaggio di Marsiglia.
Ai superstiziosi del mare non sfuggì la sinistra coincidenza: dopo che furono rese note le modalità dell’incendio della «Philippar», molti videro nell’incidente del «Paul Lecot» un avvertimento del destino, intenzionato a portare a compimento il suo imperscrutabile disegno. Tanto più che il 29 novembre 1930 arrivò un altro chiaro segnale: durante le opere di allestimento della «Philippar», un incendio, innescato da un cortocircuito nella stiva frigorifero, causò danni gravi e un ritardo nel completamento dei lavori.
Gli ingegneri che avevano progettato la nave, a questo punto, avrebbero dovuto porsi qualche domanda sulla sicurezza degli impianti di bordo. Non fu così. Impostata nel dicembre del 1929, la «Philippar» fu varata il 6 novembre del 1931 dopo molte modifiche, ma senza che fosse fatta una revisione dell’intero sistema di distribuzione dell’energia elettrica a bordo.
La cerimonia del battesimo si svolse con tutti i crismi della tradizione. Una madrina tagliò il nastro e una preziosa bottiglia di Bollinger Special Cuvée andò sprecata sulla prua della nave, che scivolò in acqua tra gli applausi, disegnando grandi anelli di spuma bianca.
Ma chi era questo Georges Philippar che diede il nome a una nave tanto importante? Un eroe di guerra, uno scienziato insigne, forse un grande artista? Niente di tutto questo: Philippar era il presidente vivo e vegeto delle Messageries Maritimes.
È opinione comune che sia sconveniente intitolare una via o erigere un monumento a un personaggio vivente. Lo stesso doveva valere per una nave. Tuttavia monsieur Philippar non aveva intenzione di aspettare la propria morte perché gli fosse intitolato un transatlantico. Considerato come andarono le cose, dobbiamo riconoscere che i timori dei superstiziosi erano fondati.
Indifferente ai cattivi auspici, il 19 gennaio 1932 la «Georges Philippar» lasciò il porto di Saint Nazaire, alla foce della Loira, per il viaggio inaugurale a Marsiglia, sua base operativa, facendo sosta a Lisbona e a Ceuta. Il presidente Georges Philippar, naturalmente, era a bordo. Lo accompagnavano centinaia di invitati: dirigenti della società di navigazione, industriali, uomini politici e gli immancabili giornalisti.
È qui, a Marsiglia, che ebbe inizio la «spy story» legata alla fine della «Philippar»: durante i rifornimenti in vista del primo viaggio in Estremo Oriente, si svolse un’azione di polizia a cui le autorità non diedero rilievo per non allarmare i viaggiatori. Una mattina, alcuni automezzi della Gendarmerie si arrestarono sulla banchina; ne scesero numerosi agenti, che salirono a bordo e perquisirono le stive da cima a fondo. Un messaggio, anonimo ma circostanziato, aveva avvisato il ministero francese dell’Interno che tra le merci caricate a bordo c’era una grossa bomba. Non venne trovato neppure un petardo e finalmente il 26 febbraio la «Philippar» poté lasciare Marsiglia per il suo primo viaggio, destinazione Yokohama, Giappone.
La possibilità di un attentato era stata presa maledettamente sul serio dal governo francese, tanto che a Porto Said la «Philippar», alla fonda in attesa di immettersi nel canale di Suez, fu sottoposta a una nuova ispezione. Quattro lance della polizia marittima le fecero corona impedendo a ogni imbarcazione di avvicinarsi. Nessuno doveva salire a bordo, nessuna merce doveva essere caricata. Tutto si svolse con discrezione, ma qualcuno a terra notò ugualmente l’intervento della polizia e alla fine si seppe in che cosa consisteva la minaccia: un ordigno a orologeria di notevole potenza, regolato per esplodere nella stiva della «Philippar» durante il transito della motonave nel canale, che in questo modo sarebbe rimasto bloccato.
Quale potenza straniera aveva interesse a ostacolare i collegamenti della Francia con l’Estremo Oriente e le sue colonie più lontane? «Agenti sovietici» scrissero i giornali francesi, «per impedire che le forze nazionaliste, che si oppongono all’avanzata dei comunisti in Cina, siano rifornite di armi». In seguito, un comunicato delle Messageries Maritimes smentì l’intera storia, ma con poco successo: la tesi del complotto era assai più suggestiva e nobile di uno stupido cortocircuito, più consono a una carretta del mare che a una lussuosa e modernissima motonave francese.
La «Philippar» giunse a Saigon, oggi Ho Chi Min, il 22 marzo; il 29 a Hong Kong, il 1° aprile a Shanghai, il giorno 14 a Yokohama, capolinea, proprio nel mezzo di una contesa tra Giappone e Cina (poche settimane prima si era combattuto un conflitto armato, il cosiddetto «Incidente di Shanghai»); nelle principali città giapponesi si svolgevano le manifestazioni dei nazionalisti. Insomma, non tirava aria buona per una nave già sospettata di essere nel mirino del terrorismo. Perciò il comandante Vicq decise prudentemente di mollare gli ormeggi in anticipo.
Durante la crociera di ritorno, accadde un fatto che, in seguito, avrebbe alimentato altri sospetti e illazioni sulla fine della nave: per ben due volte scattò l’allarme della camera blindata.
Ci fu molta preoccupazione a bordo. A Saigon erano stati caricati quattro milioni di franchi in lingotti d’oro destinati alla Banca d’Indocina a Parigi. Gli ufficiali fecero controlli, interrogarono il personale di bordo, niente di anomalo fu rilevato. L’allarme era scattato per qualche problema elettrico, dissero gli elettricisti, ormai abituati ai ripetuti capricci di un impianto mal concepito, alimentato in corrente continua, quanto di meno indicato per una nave.
Erano le ore 23 del 10 maggio quando la «Georges Philippar» lasciò Colombo, isola di Ceylon, attuale Sri Lanka, diretta a Gibuti, porto della Somalia francese sul golfo di Aden. A bordo viaggiavano 514 passeggeri (qualcuno di meno secondo altre fonti) e 253 uomini d’equipaggio (un po’ di più secondo altre fonti).
La sera del 15 maggio, giorno di Pentecoste, ci fu una piccola festa a bordo. Alle 1.30 del 16 maggio l’orchestra suonò «Mon Paris» di Boyer e chiuse la serata. I passeggeri rimasti si avviarono svogliatamente verso le cabine, mentre alle loro spalle si spegnevano le luci della sala. Alcuni signori si trattennero sulla passeggiata, per fumare un’ultima sigaretta e gustare la brezza marina appoggiati ai corrimano. Un passeggero indicò un bagliore lontano, direzione ore 11: «Che cosa sono quei lampi?» domandò. «È il faro di Guardafui», spiegò un ufficiale di passaggio. E aggiunse: «Ci guiderà attraverso lo stretto di Socotra.» Dopodiché, alla spicciolata, gli ultimi nottambuli si ritirarono nelle loro cabine.
Si ritirò anche Madame Cotillard, passeggera di riguardo, sussurrando le note di «Mon Paris», che le erano rimaste nell’orecchio. Quando aprì la porta della sua cabina di prima classe del ponte D, lato di dritta, sulla verticale del ponte di comando, fu assalita da un odore acre di gomma bruciata, a cui il suo esausto Chanel n.5 non poté opporsi. La donna si guardò intorno: nastri di fumo filtravano dalla porta della cabina numero 6, accanto alla sua, che non era occupata. Poi la luce elettrica si mise a vacillare. Madame Cotillard capì il pericolo, gridò «Al fuoco!» con voce strozzata e corse ad avvisare l’ufficiale di guardia.
Le squadre antincendio entrarono in azione con gli estintori. L’allarme generale non fu fatto suonare; non si volle scatenare il panico per un principio d’incendio che poteva essere facilmente domato con i mezzi di bordo, come del resto era già avvenuto in un altro paio di occasioni.
Fu un errore. Il fuoco riprese vigore e si mise a correre, sovralimentato del vento, seguendo la traccia dell’impianto elettrico. In pochi minuti un fumo denso saturò i corridoi del ponte D, respingendo gli uomini delle squadre antincendio. L’ufficiale di guardia capì che la situazione era sfuggito al controllo e corse a riferire al comandante. Erano da poco passate le 2.00 e si erano persi minuti preziosi. Si udivano lamenti e colpi di tosse; i passeggeri del ponte D, svegliati dai rumori e dal fumo, abbandonarono le cabine con quello che avevano indosso.
Il comandante Vicq conosceva bene la nave. Considerò il fatto che le cabine, soprattutto quelle di prima classe, erano un trionfo di boiserie. I ponti erano collegati tra loro da una scalinata di legno massiccio, rivestimenti di legno nascondevano il freddo metallo delle pareti divisorie, i saloni erano decorati con soffitti a cassettoni. Il calore avrebbe infiammato tutto quel legno come un cerino, l’avrebbe fatto esplodere per la rapidità della combustione. Ogni tentativo di opporsi alle fiamme e al fumo sarebbe stato vano.
Non gli restò che lanciare l’S.O.S. e azionare l’allarme generale, che però non funzionò, perché nel frattempo gli elettricisti avevano interrotto l’erogazione della corrente. Anche le comunicazioni tramite interfono risultarono perciò interrotte. L’aria era irrespirabile e nel buio generale c’erano passeggeri che fuggivano a tentoni attraverso i corridoi, ma nella direzione sbagliata. Mentre qualcuno ancora dormiva nella sua cabina, ignaro di ciò che stava accadendo.
Il comandante avviò le manovre per abbandonare la nave. Ordinò al timoniere di portare la prua all’orza fino a disporre sottovento il fianco di dritta, dove era divampato l’incendio. Fece vuotare in mare le cisterne della nafta e arrestare i motori. A questo punto si cercò di calare in mare i canotti di salvataggio. Ce n’erano 16, di cui 12 allineati sul ponte del cassero, ma sebbene ancora intatti, non erano tutti raggiungibili per via del fuoco e del fumo. Fu possibile metterne in acqua soltanto sei.
Vennero chiuse le porte stagne, ultima resistenza possibile contro il fumo e probabilmente trappola mortale per qualcuno dell’equipaggio che, accecato dal fumo, aveva perso la via d’uscita. Alle ore 6.00 circa l’incendio si era impadronito della «Georges Philippar» dal ponte di comando a poppa.
Le fiamme e la paura avevano diviso i genitori dai figli, i mariti dalle mogli, gli amici dagli amici. Impossibile controllare il panico che si era diffuso tra i passeggeri. Si sentivano gridare nomi, «François!», «Colette!», «Antoine!», e c’era chi, dalle lance di salvataggio, chiamava i propri congiunti rimasti sulla nave, illuminata da bagliori sinistri. Ma inutilmente, perché l’incendio faceva vibrare l’aria con un crepitio che copriva le voci e accompagnava la fine della «Georges Philippar» come la colonna sonora di un film drammatico.
In tutto questo inferno, ogni uomo dell’equipaggio mantenne il controllo dei nervi. Ufficiali, macchinisti, marinai e personale alberghiero guidarono le operazioni di imbarco sulle poche scialuppe disponibili nel modo più ordinato possibile. Vennero calati canapi e biscagline lungo le fiancate per offrire un appiglio a chi abbandonava la nave, si distribuirono cinture di salvataggio, si aiutarono gli anziani e i bambini. Una squadra di marinai, dopo aver recuperato dei barili vuoti, improvvisò delle zattere, perché era chiaro che le scialuppe...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Capo Guardafui
  3. Colophon
  4. Indice
  5. Dedica
  6. Cartina dell'Africa
  7. Perché «Capo Guardafui»
  8. I. Sacrifici a un dio del mare
  9. II. Passaggio a Suez
  10. III. La posta che non arrivò mai a Londra
  11. IV. C’è traffico sul Mar Rosso
  12. V. I capi sono tutti uguali
  13. VI . Toccata e fuga
  14. VII. Fumus persecutionis
  15. VIII. Il piroscafo che non volle affondare
  16. IX. In bocca ai pirati
  17. X. Un telegramma allunga la vita
  18. XI. Il faro, un dovere dell’Italia
  19. XII. La strage degli innocenti
  20. XIII. La politica delle cannoniere
  21. XIV. Tassa di fanalaggio
  22. XV. Per faro un fascio littorio
  23. XVI. Intrigo internazionale
  24. XVII. L’inganno dei falò
  25. XVIII. U-852, azione di forza
  26. XIX. Ultimo colpo di teatro
  27. Raccolta fotografica