Postcritica
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Postcritica

Asignificanza, materia, affetti

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Postcritica

Asignificanza, materia, affetti

Informazioni su questo libro

Scrivere un libro contro la critica non avrebbe alcuna importanza, perché solo importa ciò che crea concetti capaci di tracciare nuove linee. Queste pagine segnano invece il primo gesto postcritico della postcritica, ovvero la rivendicazione del "post": essa reagisce all'inflazione di un suffisso con un esercizio deflattivo. E se la deflazione è la diminuzione del livello generale dei prezzi, la postcritica svaluta sé stessa senza clamore. Essa guarda infatti al minuto, all'interstizio, ai legami che intessono la trama della vita ordinaria, e rifiuta la "proiezione strutturale" delle teorie generali. Ma non è certo una propensione all'agone con la più blasonata delle creature filosofiche, la critica, che fa caricare la postcritica di un suffisso così compromettente. Il "post" non evoca un prima e un dopo, né calca il congedo da una genitrice indesiderata; è piuttosto un "segno", un "cenno", un "signpost", che richiama l'attenzione sul "dove si sta". Siamo in un mondo che certo non abbisogna dell'addio alla critica, ma che alla critica richiede di fermarsi un istante, di accorciare le distanze tra teoria e pratica, di collocarsi sulla superficie dove le cose accadono e si compongono. La postcritica di cui questo libro parla vuole inaugurare un maggese del pensiero filosofico, fatto di contaminazioni disciplinari con l'antropologia, la sociologia, la letteratura, la fisica, la botanica e tante altre, che possano indicare alla filosofia, plenipotenziaria della teoresi, come ascoltare, leccare, odorare e toccare.It would be pointless to write a book against critique, because the only thing that matters is creating concepts that draw new lines. This is why these pages emphasize postcritique's first postcritical gesture, that is, laying claim to the "post": it reacts to the inflation of this suffix with a deflated exercise. And while deflation is the decrease in the general level of prices, postcritique devalues itself without any clamour. For it pays heed to the minute, to the interstice, to the ties that weave the texture of ordinary life. It rejects the "structural projection" of general theories. Yet it is not the aversion to the noblestof the philosophical creatures—critique—that leads postcritique to take up such a compromising suffix. The "post" does not conjure any before and after. It does not mark any break with an unbeloved parent. Rather, it is a "sign, " a "beckon, " a "signpost" drawing attention to "where we are." Although we live in a world that certainly cannot afford to dispose of critique, the latter is called upon to stand still for a moment, to reduce the distance between theory and practice, to find position on the surface where things happen and give life to compositions. The kind of postcritique this book dwells on inaugurates a fallow period for philosophical thought with an eye to producing disciplinary contaminations with anthropology, sociology, literature, physics, botany, and many others. Only in this way can philosophy—mighty lord of theoretical thinking—become able to listen, lick, smell and touch.

Domande frequenti

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Informazioni

TOPOGRAFIA DEL NON-LINGUISTICO

1. La trappola del segno

L’essere umano – essere linguistico per eccellenza – è il solo essere che spera: una delle «modificazioni di questa complicata forma di vita»1. È questa la sintesi, plastica ed elegante, di quella tradizione tardo-moderna che al linguaggio ha legato ogni particolarità dell’unico animale che spera. Ma Wittgenstein fa di più: in pochi e veloci passaggi affiora la scorza dura di una separatezza che sul linguaggio impianta un limite, quello che sovrappone il campo del comprensibile a quello del dicibile. «Se un leone potesse parlare, noi non potremmo capirlo»2, perché il linguaggio non è che il rovescio della forma di vita umana. Il dramma della significazione si risolve in pochi tratti e culmina nella disperazione di un limite che è contingenza radicale: siamo fatti come siamo e non possiamo farne a meno. Sì: perché il linguaggio eleva, si trasforma in tecnologia dell’esperienza, si sostituisce alle reazioni istintuali e le organizza: «L’espressione verbale del dolore sostituisce, non descrive, il grido»3. Ma proprio perché la capacità di parola è chiave di volta dell’umano – chiave sempre politica, dato che il linguaggio è l’«organo biologico della prassi pubblica»4 – il limite della contingenza si risolve in una dannazione ostinata: la dicibilità lascia fuori, perché l’argine al caos dell’esperienza istintuale non-organizzata richiede la presa di posizione rispetto a un ordine che procede per separazione: quel che è dicibile fa ingresso nel mondo dell’umano, quel che resta fuori è un’eccedenza indicibile. «I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo»5, aveva detto Wittgenstein qualche anno prima, e quel che il linguaggio non tocca rimane fuori dal mondo. L’esclusione, in tal senso, non è che la topografia del non-linguistico – una topografia irrealizzabile, però, perché fuori dalla visibilità concessa dalla parola.
La questione che tocca questo capitolo è la separatezza antropica tra la parola e ciò che essa denota: se essa sia del tutto irrecuperabile, ovvero se la parola esaurisca il suo referente e se l’oggetto, cui la parola appunto si riferisce, sia o meno accessibile al di là di questa. Ripartiamo quindi da Greimas, che presenta senza reticenze il (cosiddetto) «mondo naturale» come attingibile ed esperibile solo attraverso la mediazione del segno:
Il mondo visibile, invece di proiettarsi davanti a noi come un quadro omogeneo di forme, ci appare come costituito di differenti significanti sovrapposti, e talvolta anche giustapposti. […] il mondo del senso comune fatto di oggetti immobili o che si spostano nello spazio […] risulta costituito da oggetti-nome e da processi-verbo, presentandosi perciò, a seconda dell’ordine di priorità che viene loro ascritto, a essere interpretato sia come il risultato d’una attività linguistica costruttiva e categorizzante, sia come origine del simbolismo linguistico; in entrambi i casi esso autorizza, anche se a posteriori, l’istituzione di equivalenze fra le parole e le cose […]6.
Il significante assorbe il suo referente e ne assume per intero statuto e funzione. Il mondo degli oggetti non ha vita sensibile al di fuori della parola. Gli esseri umani non vedono che oggetti-nome. A breve mi soffermerò sul carattere arbitrario e appunto a posteriori del processo che dà corso a questa sostituzione della parola alla cosa. Quel che ora mi interessa però è mostrare la radicalità di tale posizione, che pure ha dominato e domina la riflessione sul rapporto tra linguaggio e mondo. Nello scorso decennio, la consapevolezza di tale radicalità ha mobilitato reazioni decise e avviato un dibattito assai vivace, che ha tentato di passare al vaglio i punti di svolta che hanno condotto alla “semiotizzazione del mondo”.
Il punto in questione può essere sintetizzato in modo semplice. Allorché il pensiero si fa riflessione, ovvero si ripiega su di sé e prende a oggetto le forme della conoscenza umana e le sue condizioni di possibilità, esso cessa di mettere a tema le cose per dedicarsi a come l’essere umano le esperisce. Questo non può dirsi certo un carattere permanente del pensiero (cosiddetto) occidentale. Solo nel diciassettesimo secolo Cartesio forgia lo stiletto che colpisce al cuore il pensiero millenario che lo aveva preceduto: la separazione tra corpo e mente, materia e pensiero – seme e prodromo della più tarda distinzione tra natura e cultura. Quel colpo ben assestato depriva la natura della propria vita interna per farne un complesso inerte e inanimato di leggi meccaniche. Si tratta, come sostiene Foucault, di un cambio di episteme, cioè l’apparato di saperi che ingrana un intero mondo di vita7. La vita psichica viene così sbalzata fuori dall’ambito della vita materiale per essere considerata come del tutto estranea alla natura. La mente si fa spazio introverso, riverso su sé solo, capace solo di rappresentare quel che lo circostanzia.
Kant radicalizza questa ottica e la rende il sistema aureo del pensiero tardo-moderno: le cose che compongono il mondo naturale si fanno “noumeni”, nel senso che rimangono un’eccedenza ineffabile: ci sono, sì, ma non possiamo sapere nulla di esse, men che meno dirne. La conoscenza pertanto ha a che fare non con le cose, ma con la sintesi tra i dati offerti dall’esperienza e le categorie della mente umana. Un ultimo decisivo passaggio verso quella tendenza della filosofia moderna e contemporanea che alcuni oggi chiamano “correlazionismo”8: tutto ciò di cui in fondo ci è consentito parlare è il nostro modo di conoscere le cose. Conclusione che converge con l’idea, sostenuta sia da Heidegger sia da Wittgenstein, per cui la cosa per l’essere umano non è mai cosa ma sempre un oggetto: l’essere umano non contempla mai le cose, ma le usa – e con l’uso la cosa si fa oggetto. Un oggetto, in effetti, è sempre un mezzo per fare qualcosa, come il martello serve a mettere chiodi in una parete. Il significato di un oggetto, sicché, non sta nell’oggetto significato, bensì nella pratica umana che la parola denota e stabilizza: la parola “sedia” indica sì una cosa fisica fatta così e così, ma il suo significato risiede nel fatto che sulla sedia ci si siede. In altre parole, gli oggetti sono sempre pre-significati: il mondo è quel reticolo di oggetti con cui operiamo e le parole stanno lì a dirci come fare per utilizzarli.

2. «Una protesta radicale contro l’ineffabile»9

Queste pagine non vogliono ricostruire il dibattito cui ho fatto cenno. Vogliono piuttosto disegnare un percorso, seppur breve, in cui da guida faranno un’autrice e due autori che prendono una posizione decisa sul tema della significanza: chi ritiene che la significazione sia un terreno paludoso senza punti di frattura che invischia e risucchia (Giorgio Manganelli); chi tenta una via d’uscita che alfine ci restituisce al significante (Raymond Queneau); chi ingaggia un corpo a corpo con la parola per conferirle la dignità di cosa e lasciare che il senso trovi altri vettori (Clarice Lispector). L’idea che vorrei trarne è che l’accesso asignificante alle cose consente l’emergere della materia in tutta la sua moltiforme capacità di determinare nuovi legami tra cosa e cosa, dove l’essere umano è cosa tra cose – legami che complicano il ripiegamento autoreferenziale del pensiero su sé stesso nel senso di una co(i)mplicazione: se la materia trabocca di significati è perché essa è capace di indicare nuovi ingressi al mondo, che nessun significante occlude per intero. Cose e parole si co(i)mplicano in modi che nessun ordine del senso può prevedere.
Prima di avviarci, tuttavia, sarà bene ribadire l’arbitrarietà della scelta. Il contrappunto tra mondo-di-segni e mondo-di-cose si è ripresentato in molti ambiti e forme. Possiamo trovarne una traccia di indubbio interesse nel dibattito sorto in Francia intorno alla metà del Novecento circa quel che Roland Barthes, in riferimento ai romanzi di Alain Robbe-Grillet, ha chiamato linguaggio «denotativo». Ne Il libro a venire, Maurice Blanchot loda il penchant iperdescrittivo di Robbe-Grillet, che rompe il tabù della noia a tutto favore del dettaglio. Nel romanzo che l’ha portato alla fama, Il voyeur (1955), Robbe-Grillet indulge in descrizioni minuziose delle componenti di scene mai ritagliate...

Indice dei contenuti

  1. Indice
  2. PROMESSA
  3. TOCCARE LA SUPERFICIE
  4. TOPOGRAFIA DEL NON-LINGUISTICO
  5. LE OPERAZIONI DELLA MATERIA
  6. LE COMBINAZIONI E GLI AFFETTI
  7. BIBLIOGRAFIA
  8. ABSTRACT
  9. NOTIZIA BIOGRAFICA