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Narrative in fuga
Informazioni su questo libro
Quattordici saggi di Gianni Celati sui suoi autori stranieri d'affezione (e da lui in gran parte mirabilmente tradotti). Il Bartleby di Melville (che proprio a Celati deve la sua divulgazione in Italia), Céline, l'amatissima Certosa di Parma di Stendhal, il Gulliver di Swift, l'Ulisse di Joyce, e altri ancora. Sono saggi densi e illuminanti, ma anche emozionanti e belli da leggere. Perché scritti con l'inconfondibile tono di Celati; ossia il tono di chi ti mette a tuo agio raccontandoti una storia.Pubblicati come introduzioni o postfazioni, sono stati nella maggior parte riscritti rispetto alle versioni stampate.J. T.
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Informazioni
Argomento
LetteraturaCategoria
Letteratura generaleStorie di solitari americani
Le mutazioni della solitudine
Cosa fosse il vecchio sentimento di solitudine si può immaginarlo attraverso un racconto che le antologie mettono in cima alla tradizione del racconto americano: Rip Van Winkle di Washington Irving, scritto nel 1820. Parla d’una comunità olandese nell’alta valle dello Hudson, dove viveva il detto Rip Van Winkle, con una moglie petulante, un cane fedele, e la voglia di andare a zonzo tutto il giorno. Un bel mattino Rip va a caccia sui monti, si perde, poi sente una voce che lo chiama, trova degli olandesi in abiti antichi, personaggi d’una vecchia leggenda. Beve qualcosa che gli offrono, si addormenta, l’indomani torna al suo villaggio e s’accorge che sono passati vent’anni. Cito il punto dove inizia la sua avventura:
Rip senza accorgersene s’era inerpicato in una delle zone più alte dei Monti Catskill. Andava dietro al suo svago preferito, la caccia agli scoiattoli, e quelle immobili solitudini avevano echeggiato e riecheggiato ai colpi del suo fucile.
La solitudine era questo: il luogo deserto, l’eco nel vuoto delle lontananze, un misterioso incanto che incombe sulla natura, una generica paura di incontri sovrannaturali, e un’idea dell’esperienza individuale basata su esempi leggendari. Washington Irving rievoca epoche in cui l’individuo faceva tutt’uno con il proprio gruppo, e lo spazio esterno era la natura, erano i monti, erano i luoghi dei morti o dei fantasmi. I suoi sono racconti d’integrazione nelle vecchie comunità locali, sul mitico terreno d’origine dell’identità familiare. Quando Rip dopo vent’anni torna al villaggio e trova tutto cambiato, un nuovo ordine politico, sua moglie morta, la propria esistenza dimenticata, sarà reintegrato nel gruppo d’origine subito e senza problemi. Il che lascia intendere che la vecchia comunità locale fosse una specie di roccaforte che resiste a tutti i cambiamenti nella storia del mondo, e dove non potevano esistere separazioni interne né solitudine degli individui.
Ci vorrà tempo per accorgersi che esiste un «fuori» dove la solitudine non è l’effetto d’un incanto naturale, ma d’una specie di disincanto che si installa tra gli uomini, nelle sacche di estraneità che si formano all’interno della vita sociale. I suoi sintomi sono legati alla crescita di grandi masse anonime nella vita urbana, dove non si possono più nascondere le distanze assolute che separano gli individui; perché le masse nascono dalla somma di unità separate che resteranno sempre separate, e perciò la solitudine sarà l’esperienza critica più diffusa dei tempi moderni. Più che nella narrativa europea, è nel racconto americano che questo aspetto della vita sociale prende spicco; e il suo fulcro non sta più nel pathos di un’interiorità abbandonata a se stessa, ma nell’esperienza di chi si è lasciato alle spalle i legami protettivi nella comunità d’origine.
Queste mutazioni diventano riconoscibili a partire da tre racconti eccezionali, con personaggi che sembrano addirittura dei mostri di solitudine: il Wakefield di Hawthorne, l’uomo della folla di Poe, e lo scrivano Bartleby di Melville. Qui si annuncia una solitudine mai vista prima, o mai tematizzata in modo così estremo. L’individuo assume i tratti della soggettività incondizionata, non più riconducibile a uno scontato tipo sociale, ma anche esposto al modo esterno come non mai. Ed è il passaggio critico di tutte le narrative moderne, che troveremo in una serie di racconti posteriori. Ma seguendo questa pista, le storie di solitari lasceranno anche trapelare l’uniformazione a cui è soggetto il campo del vissuto americano, e come la singolarità dell’esperienza individuale prenda sempre più l’aspetto d’una anomalia.
Il caso Wakefield
Uno dei palinsesti della narrativa americana è la prima raccolta di racconti di Nathaniel Hawthorne, Twice-Told Tales, pubblicata nel 1837. Il titolo indica che si tratta di racconti già raccontati, ossia derivati dalle voci o dalla tradizione, spesso come memorie sui tetri padri puritani della Nuova Inghilterra o come echi di vecchie storie del soprannaturale. Ma c’è un racconto molto diverso dagli altri, intitolato Wakefield, ambientato in una Londra del tutto astratta, e che sembra un primo tentativo di lasciarsi alle spalle il dialetto della tribù. Inizia così:
In una qualche vecchia rivista o giornale, rammento di avere letto una storia, riportata come vera, d’un uomo – chiamiamolo Wakefield – il quale per molto tempo si assentò dalla moglie […]. La coppia viveva a Londra. L’uomo, con la scusa d’intraprendere un viaggio, affittò una stanza nella strada accanto alla propria dimora; e all’insaputa della moglie e degli amici, e senza alcuna ragionevole spiegazione per il suo volontario esilio, vi andò ad abitare per vent’anni.
Questo è tutto quanto sapremo dal riassunto dell’articolo di giornale; ma più che una serie di fatti per comporre una trama, l’autore ci propone di riflettere su questo caso e di figurarci il suo senso, la sua morale.
La vicenda dell’uomo che lascia la moglie è resa più curiosa da questa notizia: «Durante codesto periodo, ogni giorno osservava la propria casa, e spesso la povera signora Wakefield […]». Dunque non è una semplice fuga dalla vita domestica; c’è di mezzo la strana voglia di scoprire come appare il luogo familiare senza di noi. Il che porta a riflettere su come si diventa estranei a ciò che sembrava assolutamente nostro e scontato. È il caso di questo marito che spia il proprio nido coniugale, vedendolo diventare lontano e inaccessibile perché lo spia con occhi da estraneo. La sua casa ora è come in un altro mondo, e il rientro diventa impensabile, mentre l’imprudente marito diventa un disperso tre le folle di Londra. È un modo per figurarsi il sentimento di solitudine urbana, nato da una condizione di estranei tra altri estranei che si sfiorano per strada.
Così Wakefield si ritrova fuori del sistema di reciprocità creato dalle abitudini, col rischio di scivolare nell’abisso degli esclusi – essendogli accaduto di «abbandonare sia il proprio posto che i privilegi dei vivi». Hawthorne mostra la solitudine come un sintomo della fragilità dei legami sociali, per l’isolamento in cui ci si può trovare a ogni devianza dai comportamenti collettivi (The Scarlet Letter, il suo romanzo sulla sorte d’una adultera in una comunità puritana, è un paradigma di questa situazione). È una veduta abbastanza nuova, che fa della comunità umana un rifugio tra i propri simili, ma anche qualcosa di temibile, essendo segnato da baratri simbolici dove si può sprofondare non appena si abbandona il canone del proprio gruppo di riferimento. Ed è la morale del racconto:
In mezzo all’apparente confusione del nostro misterioso mondo, gli individui sono così finemente ingranati in un sistema, e i sistemi l’uno nell’altro in un tutto, che, facendosi per un momento da parte, un uomo corre lo spaventoso rischio di perdere per sempre il proprio posto. Come Wakefield, egli potrebbe diventare, diciamo così, il Reietto dell’Universo.
Il buco nero dell’interioritÃ
«Il Reietto dell’Universo» (the Outcast of the Universe) è un epiteto che parla di chi è espulso dai limiti dell’ordine costituito, in una frangia di umanità caduta nel peccato o nella miseria. Il volto della solitudine non è più l’abbandono in luoghi deserti, lontano dagli uomini, ma lo smarrimento nel cuore stesso del mondo civilizzato, come nel caso di Wakefield tra le folle di Londra. La società è presentata come un sistema di relazioni dove tutto sta insieme entro certi margini fissati dalla reciprocità dei comportamenti; ma appena fuori da quei margini l’individuo diventa un’entità astratta e derisoria, un «atomo di mortalità », come dice il racconto. Inoltre, la minaccia d’una caduta del genere fa parte del destino stesso dell’individuo, della sua soggettività impastata di pulsioni; e questo è l’altro aspetto su cui Hawthorne richiama l’attenzione.
L’autore ci propone d’immaginare Wakefield come un sognatore casalingo, «occupato da lunghe e pigre rimuginazioni». È il marito «con il cuore in placido riposo» e pensieri che tiene nascosti in sé – l’uomo medio lievemente ridicolo, aggrappato ai segreti della propria interiorità , fissato su sogni di immaginose evasioni. Con la sua «inclinazione ai sotterfugi» che lo porta a voler spiare di nascosto il proprio focolare domestico, Wakefield è l’esempio di come certe affezioni segrete perturbino l’individuo medio considerato normale. Si tratta di quelle affezioni che ÂHawthorne in un altro racconto chiama dark affections: «quei tristi misteri che nascondiamo alle persone più prossime e più care, e che celeremmo volentieri persino alla nostra coscienza».
La citazione viene da un racconto intitolato The Minister’s Black Veil, dove un predicatore si copre il volto con un velo nero a indicare l’ombra delle affezioni interiori che ognuno porta in sé, ma che deve sempre nascondere. Si capisce perché alcuni abbiano visto in Hawthorne un precursore della psicanalisi: perché postula aspetti dell’interiorità rimossi dalla coscienza. In questa luce, Wakefield risulta una parodia del fosco eroe romantico che rimesta nel calderone dei sogni, ma intrappolato in un’insanabile contraddizione con l’ordine esterno. È la contraddizione tra il posto che si occupa nel mondo e il buco nero dell’interiorità , dove anche le persone dabbene rimuginano fantasie inconsulte, «mettendo sotto chiave il segreto del loro peccato». Un altro straordinario racconto di Hawthorne, Young Goodman Brown, porta il tema a un punto estremo; ed è una storia di occulti indemoniamenti in un villaggio puritano, a cui non sfuggono neppure i rigidi ministri della fede, le pie mogli, gli onesti mariti, le onorate matrone, la cosiddetta brava gente – tutti trascinati in un sabba assieme alle streghe da bruciare; tutti presi in un delirio demoniaco dietro le maschere della virtù, sprofondano nella gora dei segreti interiori da negare fino la tomba.
L’uomo della folla
The Man of the Crowd, pubblicato nel 1840 nel primo volume dei racconti di E.A. Poe, è uno studio sull’individuo caduto fuori dai limiti dell’ordine costituito e disperso tra le folle di un’altra Londra immaginaria. È chiaramente una ripresa dei temi di Wakefield, racconto che Poe aveva recensito e che considerava tra i migliori di Hawthorne. Ma qui e altrove Poe fa sua soprattutto l’idea delle affezioni oscure, come si nota nell’attacco di The Man of the Crowd:
Giustamente fu detto d’un certo libro tedesco che es lässt sich nicht lesen: non permette di esser letto. Vi sono segreti che non permettono d’esser detti. Vi sono uomini che muoiono in piena notte nei loro giacigli, stringendo le mani di spettrali confessori, guardandoli supplichevolmente negli occhi: muoiono con la disperazione in cuore e le convulsioni in gola, a causa d’orrendi misteri che non possono sopportare d’essere rivelati.
Questa messinscena dipinge i «tristi misteri» chiusi nell’individuo con tinte ancora più fosche; e quei morenti che boccheggiano incapaci di confessarsi sono la figurazione di segreti che contraddicono tutta la fabbrica dell’ordine sociale.
Nel racconto di Poe c’è un vecchio losco che vaga per Londra al tramonto. Il narratore lo segue per capire chi è e cosa va cercando, ma dopo una notte e un giorno conclude: «Questo vecchio è il tipo e il genio del crimine profondo. Rifiuta di ritrovarsi da solo. È l’uomo della folla. Sarà vano seguirlo ancora […]». Il crimine profondo, deep crime, qui è un nucleo di sinistri fermenti che trapelano dalla maschera d’una torbida vecchiaia; e questi sono considerati «criminali» per il fatto d’essere irrecuperabili allo scambio sociale. La soglia dell’interiorità dietro cui si celano è anche la distanza che separa il vecchio dagli altri; e così si profila uno spazio tutto fatto di separazioni tra gli individui, dove la vista è l’organo specializzato a costeggiare il vuoto tra gli uomini.
Già la mania di Wakefield, di spiare la propria casa, annunciava la connessione tra lo stato di solitudine e una specie di patologia voyeuristica; ed ecco cosa c’è di nuovo in questi racconti: in Wakefield prima e in The Man of the Crowd poi, la vicenda non riguarda più un’azione, ma un impulso a spiare qualcosa di ignoto negli altri. E il narrato dipende da sprazzi di sguardi che fanno apparire ciò che è assenza, estraneità , rispetto a noi che guardiamo.
Il racconto di Poe inaugura un modo di narrare basato su una visività acuta, che scandaglia l’ignoto quotidiano nello spazio esterno:
[…] i raggi delle lampade a gas, fievoli dapprima nella loro lotta con il giorno morente, avevano preso il sopravvento e gettavano ...
Indice dei contenuti
- Cover
- Gianni Celati, Narrative in fuga
- Indice
- Americani
- Introduzione a Bartleby lo scrivano
- Mark Twain e l’invenzione dell’americano
- Traducendo Jack London
- Storie di solitari americani
- Francesi
- Introduzione alla Certosa di Parma
- Musica di Céline
- L’isola-Céline
- Presentazione di Henri Michaux
- Georges Perec e l’uomo che dorme
- Irlandesi
- Gulliver l’antropologo
- Swift, profetico trattato sull’epoca moderna
- Omaggio a Flann O’Brien
- La vita qualsiasi. O’Brien, Joyce, Beckett e il loro traduttore
- Il disordine delle parole. Su una traduzione dell’Ulisse di Joyce
- Nota ai testi