Smith Ricardo Marx Sraffa
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Smith Ricardo Marx Sraffa

Il lavoro nella riflessione economico-politica

  1. 398 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Smith Ricardo Marx Sraffa

Il lavoro nella riflessione economico-politica

Informazioni su questo libro

Il volume propone un percorso di lettura sull'economiapolitica classica, e su Marx, che si prolunga sino all'opera di Sraffa.
Un primo filo conduttore è dato da una visione della teoria del valore che non la riduce a determinazione individuale dei prezzi, ma ne sottolinea l'aspetto macrosociale: in Smith (lavoro comandato) come giustificazione del capitalismo, in Ricardo (lavoro contenuto) come base contraddittoria della teoria della distribuzione, in Marx (lavoro vivo in quanto lavoro astratto in movimento) come indagine sulla costituzione del capitale nel rapporto sociale di produzione.
Contrariamente alle interpretazioni più diffuse, le carte inedite di Sraffa, secondo l'autore, consentono di individuare una forte continuità dell'economista italiano con questo Marx.
Un secondo filo conduttore consiste nella riflessione circa il destino del lavoro nel capitalismo e oltre, che passa per la messa in questione dell'antropologia smithiana del lavoro sino alla liberazione dal lavoro intravista da Keynes, a cui si oppone la marxiana liberazione del lavoro. Ne emerge una visione apertamente contraria alla centralità totalitaria dell'economico, che nelle due appendici al volume si articola con la questione della natura e la questione di genere.
La trasformazione sociale è legata a doppio filo a un cambiamento strutturale della domanda come dell'offerta, e alla ripresa di un protagonismo conflittuale della classe lavoratrice a partire dai luoghi della produzione.

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Informazioni

1. A mo’ di Introduzione
Il lavoro nel capitalismo: tra teoria e storia

In questo capitolo, e in fondo in tutto il libro, il tema è il lavoro nel sistema economico-sociale attuale, con uno sguardo dal punto di vista della storia dell’analisi economica.
Lasciamo pure stare l’ambiguità del termine «lavoro». Il riferimento al sistema economico-sociale attuale può essere inteso come «capitalismo» dal suo stabilirsi come, appunto, «sistema». Ma il riferimento è anche al «nuovo capitalismo»: il cosiddetto neoliberismo, dai primi anni Ottanta del Novecento. In fondo si tratta di ragionare del destino di una dimensione che molti proclamano destinata a una fine imminente. Mi piacciono però le sfide, e proverò a tenere insieme questi livelli multipli dell’interrogazione.

Il lavoro nel capitalismo: uno sguardo di lunga durata

Lavoro e capitalismo, dunque. Un modo, parziale ma significativo, per vedere l’evoluzione di questo rapporto è far riferimento ad alcune grandi figure del pensiero economico, a come il lavoro si configura nella loro riflessione. Conviene partire dall’inizio, da quello che molti reputano il padre dell’economia politica come disciplina autonoma, Adam Smith (che sarà l’oggetto del secondo capitolo). Smith è una figura singolare e interessante perché in lui l’elogio della libera concorrenza che si trova nella Ricchezza delle nazioni del 1776 si fonda su questo, che essa impedisce le coalizioni dei masters, dei padroni, di solito appoggiate dallo Stato, e di conseguenza spinge all’investimento, quindi all’accumulazione del capitale. Ma l’investimento è per Smith, soprattutto, fondo salari, perciò aumento della domanda di lavoro: il che da un lato porta all’aumento dell’occupazione e, dall’altro, a un’accresciuta pressione della domanda sull’offerta di lavoro e così a un salario di mercato più alto del salario di sussistenza.
Entrambe le circostanze, dice Smith, sono favorevoli ai lavoratori e alle lavoratrici che prestano quel lavoro, che è e rimane toil and trouble, fatica dell’uomo che strappa alla natura le cose comode e utili della vita. Perché? Perché l’aumento dell’occupazione fa diventare i mendicanti «poveri che lavorano»: il capitalismo di libera concorrenza li immette nella democrazia (in un senso tutto diverso da quello che l’espressione ha preso recentemente). E perché lo scarto continuo verso l’alto del salario di mercato rispetto a quello di sussistenza fa diventare in realtà lavoratori e lavoratrici sempre meno poveri. La concorrenza e la disuguaglianza tipiche del capitalismo da lui prediletto, quello della «mano invisibile», sono giustificati in fondo soltanto perché favoriscono il mondo del lavoro. Discorso che fa una certa impressione quando si sia visto come, da fine Novecento, il capitalismo cosiddetto neoliberista non garantisca affatto, anche quando aumenti l’investimento, una crescita dell’occupazione; e tutto fa meno che aumentare il salario reale. Abbiamo qui una sorta di progressiva «filosofia della storia», che porta con sé un’idea particolare di «natura umana», che verrà sviluppata e contestata nei due secoli successivi (al dipanarsi di questo filo dall’originaria ispirazione smithiana è dedicato il terzo capitolo di questo libro).
Quaranta-cinquant’anni dopo sarà tutto cambiato. Con Malthus e con lo stesso Ricardo (a cui è dedicato il quarto capitolo) la sussistenza, una sussistenza alquanto «biologica», ovvero la riduzione della forza-lavoro a strumento di produzione da alimentare come le macchine, è diventata una trappola molto più rigida, da cui è difficile se non impossibile scappare. Non soltanto il discorso di Smith – dove l’accumulazione del capitale si fa mezzo per l’inclusione nella cittadinanza dei soggetti, e migliora la condizione di quelli che stanno in fondo alla scala sociale – recede sullo sfondo. Lavoratrici e lavoratori sono ora – e devono rimanere – soggetto puramente «passivo». Ovviamente Ricardo riconosce il conflitto tra le classi con un rigore analitico che in Smith non c’è: non soltanto vede il conflitto tra profitto (industriale) e rendita (dei proprietari fondiari), ma anche, almeno in parte, quello tra capitale e lavoro per quel che riguarda la relazione tra progresso tecnico e occupazione. Ma, appunto, l’idea che chi presta lavoro possa essere soggetto attivo sul terreno del conflitto distributivo o sul terreno della produzione non lo sfiora nemmeno.
Ciò che sta in mezzo tra la Ricchezza delle nazioni del 1776 e i Principi di economia politica del 1817-1821 è l’attacco a quella «economia morale» del mondo del lavoro, come l’ha chiamata E.P.
Thompson: la distruzione di qualsiasi retroterra che nel vecchio sistema consentisse a lavoratori e lavoratrici una parziale possibilità d’indipendenza dal meccanismo capitalistico; la promulgazione delle leggi sui poveri; la violenta riduzione del mondo del lavoro a pura e semplice forza-lavoro sfruttabile a piacimento, non soltanto prolungando nella misura più estesa possibile la giornata lavorativa, ma anche immettendo nel mulinello della produzione capitalistica donne e bambini. Ogni resistenza dentro i processi di produzione poteva e doveva essere stroncata: per il bene di chi lavora, ovviamente… Qualsiasi intralcio al meccanismo economico avrebbe comunque peggiorato, non migliorato, le loro condizioni. A ben vedere, è l’idea «selvaggia» di capitalismo che si è di nuovo imposta ai nostri giorni.
Cos’è successo nei cinquant’anni che separano dalla prima edizione (1867) del primo libro del Capitale di Marx (autore a cui saranno dedicati il quinto e il sesto capitolo) è noto. L’idea di Marx – consegnata in pagine che occupano almeno un terzo del volume, e che male si farebbe a relegare a contorno sociologico-storico della sua teoria economica – è che il capitale non può fare nemmeno un passo senza un corpo a corpo con quell’«antagonismo» che si trova dentro la propria costituzione, e che è in potenza agito dagli esseri umani che dovrebbero invece essere meri portatori di quella forza-lavoro da cui l’attività lavorativa dev’essere «estratta» se si vuole produrre valore, plusvalore, e dunque capitale. Il capitale, che è fatto tutto di lavoro morto – moneta, macchine, mezzi di produzione, edifici, beni intermedi, beni di consumo –, non si può valorizzare se non è in grado di immettere e plasmare un «altro» da sé, quella capacità lavorativa che sola può erogare lavoro vivo. Questo qualcosa, che è una alterità che va resa «interna», va anche controllato: non può però mai esserlo fino in fondo, così che diventi l’equivalente di una macchina. I capitalisti vivono in un mondo di incertezza: acquistano una forza-lavoro che potrebbe resistere. Non è tutto: anche se questo controllo si desse con successo, come di norma avviene, essi producono merci che potrebbero non vendere.
C’è qui un doppio paradosso di cui Marx si rende conto per primo. È proprio il conflitto dei lavoratori e delle lavoratrici che si è rivelato la spinta più potente all’innovazione capitalistica, e tanto più quanto più non ci si accontenta delle compatibilità presenti nella situazione data. È la lotta sulla giornata lavorativa, dunque per la riduzione dell’orario di lavoro, come anche la lotta sul salario reale,
dunque la definizione di quel valore della forza-lavoro – non un dato di natura ma il risultato di una lotta tra le classi –, che costringe le imprese a rispondere con un aumento della forza produttiva del lavoro: insomma, con l’introduzione del progresso tecnico che spinge verso l’alto la produttività del lavoro, e che può rendere compatibili ex post gli aumenti del reddito reale dei lavoratori e la riduzione dell’orario di lavoro. Senza che questo, almeno secondo Marx, porti a una interruzione della tendenza alla caduta del salario relativo – se si vuole, alla riduzione della quota dei salari sul reddito nazionale. Ci sono margini per una lotta «riformista» sino a che ci teniamo sul terreno della distribuzione, anche se l’antagonismo è irriducibile sul terreno della produzione di valore. La spinta al mutamento tecnico e sociale è «interna», e non deriva da una dinamica meccanica: deriva dal conflitto, dall’intervento di esseri umani irriducibili a cose, dalla presenza attiva della classe lavoratrice.
Il paradosso è però duplice perché Marx si rende conto che, sino a che la quota dei salari cade, le condizioni della vendita delle merci possono peggiorare sino a dar luogo, in prima battuta, alla crisi da sproporzioni, e poi alla crisi da domanda generale. In generale, per questa e altre ragioni, Marx pensa che il capitalismo sia destinato a crisi sempre più gravi. Questo è il secondo grande cambiamento dopo Ricardo: non solo un intervento attivo della classe lavoratrice, ma un capitalismo soggetto a crisi che davvero iniziano a susseguirsi in un ciclo periodico. C’è qui una ingenuità di Marx, del Marx migliore. L’idea che in fondo le crisi annuncino la fine di un capitalismo che, nel frattempo, ha costruito le condizioni oggettive della «socializzazione» della produzione, dall’industria alla società per azioni; e che ha costruito anche, in fabbriche sempre più grandi, il soggetto di massa socialmente coeso, e in fondo omogeneo, che può riappropriarsi di quella ricchezza. Abbiamo qui il salto dalla crisi come ciclo alla crisi come crollo.
Una ingenuità perché il capitalismo della globalizzazione ci presenta un capitalismo sempre più organizzato e concentrato, ma con grandi imprese sempre più snelle e soprattutto con un lavoro sempre più frammentato. Proprio quando diviene estremo il tentativo capitalistico di vedere in lavoratrici e lavoratori i semplici portatori di forza-lavoro che si vuole separare dall’essere umano per godere a piacimento della prestazione lavorativa quando serve, proprio allora si capisce che il progresso economico, riduttivamente inteso, non batte sempre la stessa strada del progresso sociale, e si comprende
dunque anche che l’accumulazione del capitale può procedere non riunificando naturalmente il mondo del lavoro ma segmentandolo e dividendolo. Ci tornerò.
Tutto meno che una ingenuità è però l’idea di fondo di Marx: che la democrazia richiede condizioni materiali e sociali che Smith non si sogna nemmeno: richiede cioè che individui con capacità ricche per realizzarsi richiedano, al di là di una certa soglia dello sviluppo, non soltanto una libertà «da», una libertà negativa dall’ingerenza arbitraria dello Stato, ma una libertà «di», una libertà positiva. In questa seconda accezione il riferimento è a un individuo che in società
abbia la possibilità di realizzarsi dentro la relazione con l’altro. Ciò non è possibile se nell’atto stesso del lavoro l’essere umano non è riconosciuto come in rapporto essenziale con l’altro, se dunque non è in grado di intervenire sul «come» e sul «cosa» produrre. Co...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. 1. A mo’ di IntroduzioneIl lavoro nel capitalismo: tra teoria e storia
  3. 2. Migliorare la propria posizioneAdam Smith e la missione «civilizzatrice» del capitale1
  4. 3. Cambiare la natura umanaVariazioni su un tema smithiano, da John Stuart Mill a Keynes e oltre
  5. 4. David Ricardo oltre l’interpretazione sraffiana1
  6. 5. Il Capitale come Cosa, e la sua «costituzione»Sulla (dis)continuità Marx-Hegel
  7. 6. Karl Marx e il «rapporto di capitale»La teoria macromonetaria della produzione capitalistica
  8. 7. La solitudine del maratonetaSraffa, Marx, e la critica della teoria economica
  9. 8. Invece di una conclusioneKeynes e le ambiguità della liberazione dal lavoro
  10. Appendice 1L’ecomarxismo di James O’Connor: centralità del lavoro e questione della natura
  11. Appendice 2«Continental Divide»: centralità del lavoro e questione di genere
  12. FONTI