1. La vocazione - sradicamento, fuga, voto
Una volta, da adulto, Ivan Illich disse laconico: “Mi è indifferente se vengo ucciso per il mio sangue ebreo oppure per quello croato”.26
Da parte di madre proveniva dalle famiglie Ortlieb e Regenstreif, banchieri viennesi, imprenditori, ebrei convertiti al protestantesimo. Ellen Regenstreif, sua madre, si era convertita al cattolicesimo in occasione del suo matrimonio con Piero Ilić. “Da parte paterna, [...] gli Ilić27, fino a Ivan, erano armatori e consoli nel servizio diplomatico”28. Per il primogenito, molto dotato per occupazioni d’elite classicamente borghesi, queste erano le migliori premesse di carriera. Sarebbe diventato di certo un diplomatico o un imprenditore, forse lo avrebbe attirato il settore bancario o la politica. Prima che Illich potesse esternare il desiderio di un impiego di questo tipo, si trovò più volte in estremo pericolo. Nel 1941, quando fuggì da Vienna, Illich aveva solo 14 anni. In quello stesso anno, in Croazia, morì suo padre, di morte naturale. Lontani da casa e senza averi, la madre e i tre figli si stabilirono a Firenze. Il giovane scelse il sacerdozio. Probabilmente nel 1945 lo considerò l’unica realistica possibilità di ottenere un lavoro adeguato al proprio rango sociale. Con il suo cognome nobile avrebbe potuto scalare facilmente la gerarchia ecclesiastica e fare carriera in una delle istituzioni più potenti dell’Occidente.
Da giovane Ivan sperimentò la fuga e lo sradicamento, responsabilizzandosi fin da bambino. Divenne presto l’appoggio della madre, sola nell’educazione dei figli, del vecchio nonno a Vienna e dei gemelli più piccoli. Spesso si prendeva cura come un fratello maggiore degli amici incontrati a Vienna, a Firenze, in seminario a Roma e a Salisburgo, e ovunque.
1.1 Infanzia e gioventù a Vienna
Ivan nacque a Vienna il 4 settembre 1926, primogenito di Piero e Ellen Ilić. Il padre era un ingegnere civile cattolico originario della Dalmazia, laureato all’Università Tecnica Elvetica di Zurigo.29 La famiglia Ilić risiedeva a Spalato, Piero in una tenuta a Brač, le cui fondamenta erano state poste al tempo dei crociati. La famiglia Ilić mantenne per generazioni eminenti contatti con la grande nobiltà italiana e il Vaticano. Si parlava indifferentemente croato e italiano.
La madre, Ellen Rose, originaria di Vienna, proveniva da una famiglia ebrea, ma a quattro anni venne battezzata come protestante. Nel 1925, sposando Piero Ilić, si convertì al cattolicesimo. Ivan trascorse i primi anni di vita a Spalato e nella tenuta paterna sull’isola di Brač. Ripeteva sempre quanto lo avesse segnato quel mondo mediterraneo.30 Dopo il 1932, quando dovette lasciare definitivamente la casa paterna in Dalmazia, non ha più trovato un posto che potesse chiamare casa. Ha sempre vissuto come accampato.31 Un compagno di studi all’università vaticana Gregoriana ricordava come Illich si sentisse in sintonia, a causa delle esperienze della prima infanzia, con i temi ricorrenti di ogni testo medioevale studiato in seminario: quelli dell’essere senza una fissa dimora, del pellegrino in cerca di accoglienza, dei luoghi senza Stato, di comunità senza futuro. Tutti temi di cui Illich si sarebbe occupato in seguito nei suoi scritti.32
Illich raccontava volentieri i ricordi della casa paterna nell’Europa del sud. Tra gli ascoltatori c’era anche il pedagogo di Bielefeld Harmut von Hentig, che ha trascritto i ricordi in una lettera del 1990:
Nel 1945, quando Ivan ritornò nella Iugoslavia liberata, gli venne consegnata la casa paterna dall’amministratore dei beni. La cantina era ancora intatta. Il comandante tedesco che aveva acquartierato il proprio ufficio nella casa degli Illich, si era fatto mostrare dall’amministratore la cantina Si era spinto fino dentro. Il major domus che lo accompagnava aveva dovuto leggere ad alta voce che cosa c’era scritto sulle bottiglie. Su ognuna c’era un anno e un nome di persona. Erano i vini santi di tutti i congiunti in casa e nell’azienda, anzitutto della famiglia. Quando nasceva qualcuno veniva contrassegnata una bottiglia (o più) e sistemata per la sua morte. Qui le cose stanno così – lo ha deciso il povero signore in persona, disse il major domus. “Se lo ordina un morto, bisogna obbedirgli”, rispose l’ufficiale tedesco, lasciando la cantina. Ivan la pensava diversamente. Si fece portare il suo vin santo e invitò il cocchiere Antek33 a berlo con lui – perché ora la morte, il terribile tempo del nazismo, era finito. Antek, terrorizzato, si rifiutò. Ivan dovette ordinargli sgarbatamente di sedersi e bere con lui – e, per evitare il suo rifiuto (e il suo timore), gli diede la sua (del cocchiere) bottiglia di vino affinché la conservasse per quanto tempo volesse. Poi bevvero contenti – erano bottiglie da mezzo litro. Alcuni anni dopo lo zio Albert34 si trasferì in America. Portò in valigia il suo vin santo. Lo zio era cagionevole di salute e un giorno stava così seriamente male da far chiamare Ivan. Quando Ivan arrivò, lo zio era già morto e sua moglie Zaza gli raccontò: “Volevo chiamare come sempre il dottore, ma lui mi ha detto: ‘Non serve il dottore, questa è la morte.’ Poi ha voluto che gli prendessi la sua bottiglia di vin santo e se l’è bevuta da solo. Mi ha dato solo due minuscoli bicchieri.” Così è stato e lo zio Albert è morto.35
Nei ragionamenti di Illich questa Dalmazia, da cui proveniva il vin santo, da personale luogo d’origine e punto di riferimento diventa motivo di ispirazione nella successiva prospettiva di ricerca sulla storia sociale medioevale. In un intervento dal titolo Silence is a Commons, tenuto nel 1982 a una conferenza a Tokyo, Illich ricordò gli abitanti dell’isola di Brač. Quando era bambino, essi vivevano ancora in commons, nel regime degli usi civici (Gemeinheit)36. Abitavano case che si erano costruiti da soli, percorrevano strade consumate dal passaggio dei loro animali, era loro l’acqua che portavano e per parlare usavano la loro voce. Quando il piccolo Illich venne portato per la prima volta a casa del nonno per tre mesi, sulla stessa nave per Brač c’era il primo altoparlante. Per gli abitanti dell’isola questo avrebbe segnato la fine del regime di beni comuni, sentenziò in seguito Illich.37
All’età di sei anni iniziò il periodo dell’esodo forzato. Dal 1929 Mussolini appoggiò il movimento degli ustascia fascisti. L’atteggiamento xenofobo e antigiudaico della dittatura del regno jugoslavo pesò sull’unione dei genitori di Illich. Probabilmente anche per questo motivo nel 1932 Ellen ritornò a Vienna, dai nonni, assieme ai tre figli. Il loro matrimonio, che Ellen descriveva fino ad allora felice, ma aggravato, a partire dal settimo anno, da problemi personali38, prese due direzioni diverse. Così Ivan perse la sua casa in Dalmazia. Allora nessuno poteva immaginare che la separazione dalla famiglia paterna avrebbe comportato che i tre figli non avrebbero mai più rivisto il proprio padre. Nel 1941 venne cancellato il regno di Serbia, Croazia e Bosnia. Spalato passò sotto il controllo dell’Italia fascista.
Dal 1932 al 1941 la madre restò a Vienna, a casa dei nonni, coi tre figli. La capitale dell’allora monarchia, nella sua multinazionalità e nel suo polifonico contesto culturale, era la città natale di molti protagonisti della storia del pensiero del XX secolo, tra cui André Gorz39 e Gerhard Ladner40, ben presto profughi, entrambi in contatto fin da bambini con Ivan Illich per l’amicizia delle loro famiglie con i Regenstreif.
Quando l’Austria fu annessa al Reich, Illich aveva 11 anni. Di questa frattura nella propria vita parlò solo in età avanzata:
Ricordo ancora molto bene il giorno in cui sono diventato vecchio di colpo e per sempre. Non posso dimenticare le nuvole nere di marzo sul sole al tramonto, né i vigneti della Sommerheide fra Potzleinsdorf e Salmannsdorf vicino a Vienna due giorni prima dell’annessione dell’Austria. Fino a quel momento mi era parso evidente che un giorno avrei dato dei figli all’antica torre di famiglia sull’isola dalmata dei miei antenati. Dopo quella passeggiata solitaria, ciò parve impossibile. L’esilio della carne dalla trama della storia l’ho vissuto a dodici anni, poco prima che da Berlino arrivasse l’ordine di mandare tutti i matti alle camere a gas in tutto il Reich.41
Questa riflessione era maturata attraverso i decenni e, espressa in questa forma, era influenzata anche dalla lettura di Geschichte der Kindheit [Storia dell’infanzia] di Philippe Ariès42. Il fatto che Illich non volesse figli aveva certamente a che fare con la perdita della casa paterna. In un altro testo addusse questa motivazione: “dalla mia parte non ebrea, ero stato abituato all’idea che un figlio è un dono fatto alla famiglia e mi accorgevo che questo per me non sarebbe stato possibile.”43 È evidente che in entrambe le versioni si tratta di una ricostruzione autobiografica, da intendersi come metafora che non ambisce ad alcuna autenticità storica.44
Il viennese Georg Imhof, amico di Illich per tutta la vita, testimonia che Illich non ha mai permesso che si interrompesse il contatto con la propria città materna. Nei suoi successivi e innumerevoli soggiorni nella capitale austriaca visitava sempre il cimitero di Pötzleinsdorf, dove erano sepolti alcuni parenti da parte di madre.45 Costituisce una pura speculazione chiedersi fino a che punto la responsabilità del fatto che Illich divenne un sobillatore di liberi e provocatori pensatori e rimase una mente libera sia da imputare al suo essere cresciuto in una città in cui persino negli anni Trenta dell’austrofascismo si sentiva lo spettro della poliglotta e multiculturale monarchia del Danubio. Era nato nell’impero austro-ungarico con le sue 17 lingue riconosciute.46 Ma lui stesso considerava Vienna il suo primo esilio. Un accenno al riguardo si trova nel suo discorso di ringraziamento in occasione del conferimento del premio della Cultura e della Pace della città di Brema nel 1998: “come potevo trovare un ‘lembo di dimora’ nei lunghi e scuri inverni di Brema [...] Io che, da bambino, mi ero sentito esiliato a Vienna, perché tutti i miei sensi erano nostalgicamente attaccati al sud, al blu dell’Adriatico, alle montagne calcaree della Dalmazia della mia prima infanzia.”47
Ivan Illich parlava una sorta di vecchio austriaco “imperiale”.48 L’accento della lingua materna si sentiva anche nel suo perfetto inglese. I suoi primi saggi apparvero in inglese negli Stati Uniti e poi anche in Messico, in spagnolo. Affidandosi alla sensibilità dell’editrice Marion Boyars (1928-1999), le versioni stampate dei suoi testi uscivano sempre prima in inglese.49 Lui stesso affermava: “non ho una lingua.”50 È documentato il fatto che conoscesse 4 lingue morte e 9 vive. Il croato era la sua lingua paterna, il tedesco la lingua materna. Il tedesco lo aprì alla poesia. A 14 anni cercava di scrivere come Rilke.51 Come studente del Liceo Scientifico Statale Leonardo da Vinci di Firenze conosceva ovviamente l’italiano52 e da seminarista scrisse le sue schede in latino maccheronico.53 Qualcuno ha sentito Illich parlare in yiddisch con David Dubinsky (1892-1982), di origini polacche, leader sindacale statunitense e socio fondatore dell’American Labour Party.54 La sua velocità di apprendimento di una lingua trovò conferma a New York. Dopo tre settimane alla Berlitz-School e tre mesi trascorsi a fare domande e chiacchierare agli angoli delle strade nel quartiere portoricano, Illich parlava spagnolo55. Nei primi anni Ottanta, quando tornò in Germania dopo tre decenni, carichi di eventi, trascorsi in America, non conosceva le immagini e i modi di dire dei contemporanei. “Più probabilmente parlava e scriveva [...] in una lingua sopra le lingue. Questo le dava qualcosa di straniero, spesso di nuovo e di persuasivo, non di rado difficile. Non aveva niente a che vedere con ciò che si impara comunemente” afferma il germanista Uwe Pörksen.56 Wolfgang Sachs ricorda che Illich conobbe solo in età avanzata concetti quotidiani della lingua colloquiale successiva al 1968, come ad esempio “rapporto di coppia”. Illich notava che “era stato lontano dal tedesco per trent’anni; e quando si ritorna, ogni parola, se la si assapora, è sconcertante.”57
Nella proprietà Regenstreif a Pötzleinsdo...