La biblioteca filosofica
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La biblioteca filosofica

100 grandi opere dall'antichità ai giorni nostri

Maurizio Pancaldi, Maurizio Villani

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100 grandi opere dall'antichità ai giorni nostri

Maurizio Pancaldi, Maurizio Villani

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La filosofia filosofica raccoglie dall'antichità ai giorni nostri i testi fondamentali della filosofia occidentali, quei testi che hanno rivoluzionato il nostro modo di pensare.All'interno di un ordinamento che segue un criterio cronologico, il lettore è condotto attraverso un linguaggio accessibile ma rigoroso a entrare in contatto con le vette della speculazione filosofica greca, latina, medievale, tedesca, francese, inglese e italiana. Idee, definizioni, concetti spesso solo orecchiati e mai prima contestualizzati in una presentazione organica ma sintetica dell'opera da cui sono scaturiti.Una lettura da affrontare tutta d'un fiato oppure saltando da un'opera all'altra alla ricerca di un proprio filo conduttore. In questo senso la presenza di indici alfabetici degli autori e delle opere consente al lettore di scegliere i percorsi di ricerca più adatti ai suoi interessi.

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Informazioni

Editore
Hoepli
Anno
2015
ISBN
9788820371043

1

Sulla natura
PARMENIDE DI ELEA

VI secolo a.C.

Questo autore, che già nell’antichità godé di grande prestigio per la radicale soluzione che egli diede al problema della verità, espose la sua dottrina in un poema in esametri, uno dei testi capitali di tutta la filosofia occidentale (anzi, la prima opera filosofica giunta fino a noi, sia pur parzialmente, nella sua forma originale), cui i commentatori posteriori diedero il titolo generico di Intorno alla natura (Perì phýseōs). Di esso restano 19 frammenti per un totale di 154 versi, tramandatici da due filosofi vissuti già in età cristiana, Sesto Empirico (II-III sec. d.C.) e Simplicio (VI sec. d.C.). Si è conservato il Proemio, mentre delle due parti in cui il poema era diviso, della prima abbiamo numerosi frammenti che consentono una ricostruzione abbastanza precisa del contenuto, della seconda, che lo chiudeva, sono stati trasmessi solo alcuni brevi stralci per lo più organicamente disconnessi.
L’intenzione di Parmenide appare nel complesso chiara: si tratta di insegnare il metodo con cui l’uomo può giungere a riconoscere ciò che è vero da ciò che è falso attraverso un’esperienza fondata di sé e della realtà. Distinguendo due forme di conoscenza, il pensiero (lógos) e i sensi, bisogna ammettere che solo il primo ci mette in grado di conoscere la realtà in modo non illusorio, per ciò che veramente è, mentre i secondi ci fanno pervenire a quella mistura di apparenza e illusione che si esprime nell’opinione (dóxa). Dal momento che vi è una legge che stabilisce la coincidenza dell’ordine del mondo con quello della ragione che lo pensa e del linguaggio che lo significa, noi potremo porre in modo adeguatamente corretto sia il problema dell’essere delle cose, sia quello del discorso su di esse: unica è quindi la questione della verità (alḗtheia), sia sotto l’aspetto ontologico (l’essere della realtà, degli enti), sia sotto quello logico-linguistico, ossia in modo che siamo certi che i nostri discorsi vertano su quella in modo giusto, proprio, e non falso, errato.
Il Proemio introduce al nucleo filosofico attraverso una cornice narrativa costituita da un complesso di immagini mitiche rappresentate con un linguaggio ieratico, secondo lo stile di Esiodo e degli orfici. Vi si narra di un viaggio iniziatico che chi vuole diventare sapiente («l’uomo che sa») deve fare tra i mortali verso la dimora della dea (Dike, la giustizia governante l’ordine e l’armonia cosmica) che possiede le chiavi della verità: si tratta di un cammino esoterico dal buio alla luce, oltre i confini del tempo, poiché la dottrina che verrà rivelata dalla dea è una verità eterna, immutabile (al contrario delle cose sensibili e delle opinioni dei mortali).
Segue la prima parte che procede in modo rigorosamente razionale: la dea espone sia la «ben rotonda verità» sia l’opinione dei mortali che è del tutto priva di credibilità. Preliminarmente sono esaminate le vie di ricerca che si schiudono davanti al filosofo: vengono qui esclusi i metodi che risultano fallaci in quanto allontanano la mente dal vero. Sono perciò individuati due modi di pensare, opposti ma logicamente possibili: l’uno «che dice che è e che non è possibile che non sia» (la via dell’essere), l’altro «che dice che non è e che è necessario che non sia» (la via del non essere). Per Parmenide solo la prima via è percorribile in quanto conduce alla verità, mentre la seconda è impossibile poiché porta inevitabilmente all’errore. Infatti, il nostro pensiero presuppone necessariamente l’essere, nella misura in cui ogni determinazione del pensare contiene l’essere che vi è affermato, è vincolato cioè all’essere delle cose. Correlativamente è impossibile pensare ed esprimere il non essere: pensare il non essere è non pensare. Dunque il pensiero e il linguaggio (in greco lógos significa sia l’uno che l’altro) possono essere rivolti solo all’essere (la dea lo ha dimostrato con rigore e l’interlocutore si è dovuto piegare alla sua forza logica dando il suo assenso), mentre il non essere non è né pensabile né esprimibile.
La posizione di Parmenide appare qui in tutta la sua rivoluzionaria innovazione: la filosofia diventa discorso sull’essere (ontologia), pensa cioè agli elementi della natura in quanto essi sono, quindi in quanto enti (e non nella loro particolarità). Ciò significa che ogni esperienza e conoscenza è preceduta da questa dell’essere: così le cose vengono comprese all’interno di questo orizzonte, in quanto sono.
Il filosofo di Elea fa corrispondere al dualismo essere/non essere quello di pensiero/sensi: ciò perché le due facoltà seguono due vie antitetiche e inconciliabili. Infatti, i sensi, mescolando continuamente essere e non essere (gli uomini che vi si affidano sono «gente dalla doppia testa», dicono contemporaneamente sì e no come se essere e non essere fossero e non fossero allo stesso tempo la medesima cosa), offrono solo apparenze (per cui le cose, nella loro mutevolezza e continua trasformazione, si mostrano ora in un modo ora nel suo contrario) che sono menzognere; al contrario la mente coglie l’essere in modo stabile e certo, quindi vero. Per questo si può stabilire non solo un’identità di essere e pensiero («la stessa cosa è pensare e pensare che è: perché senza l’essere, in ciò che è detto, non troverai il pensare») ma anche che l’essere appreso con il pensiero trova necessaria espressione nel linguaggio. A questo punto è possibile definire i caratteri dell’essere, in quanto derivati dal pensarlo come nettamente separato dal non essere (che invece dovrebbe essere ammesso per i caratteri contrari). Così esso deve essere inteso come unico, ingenerato, eterno, senza fine, immobile, intero e indivisibile, definito da tutti i lati (quindi raffigurabile con una sfera).
Il poema avrebbe dovuto concludersi con una parte concernente il valore delle opinioni: di essa però, come dicevamo, restano pochi e brevi frammenti in base ai quali possiamo a stento ricostruire il pensiero di Parmenide sul modo (e sul relativo valore) con cui intendere il mondo fisico testimoniato dai sensi. È vero che esso si presenta come apparenza: tuttavia i mortali hanno opinioni che è necessario conoscere per selezionare quelle più convincenti. Pur nella consapevolezza di allontanarsi dal pensiero che illustra la verità, bisogna accettare di descrivere il mondo delle apparenze allo scopo di fornirne una spiegazione approssimativa, soltanto verosimile (né totalmente vera, né totalmente falsa), ma che metta comunque in grado il sapiente, che vuole conoscere ogni cosa, di indagare in modo completo la realtà. Emerge così una visione dell’universo fortemente critica verso le concezioni fisiche degli ionici, fondate sull’utilizzo degli elementi contrari intesi come opposti, e una loro reinterpretazione in senso più coerente e credibile. Influenzato dalle concezioni pitagoriche, Parmenide propone così una cosmologia in cui il mondo risulterebbe dalla mescolanza di due elementi: la luce (o il fuoco), eterea e leggera, e la tenebra, densa e pesante. Dal loro congiungimento (i contrari non sono dunque separati ma connessi) si sarebbero formati sia gli astri e la volta celeste sia l’uomo: così i due elementi primari (forse la traduzione sensibilmente visiva dell’essere e del non essere) sarebbero presenti in tutte le cose, nel loro complesso regolate da una legge necessaria (la dea Dike del Proemio) che tutto connette. In tal modo il mondo dell’opinione e della molteplicità sensibile sarebbe ricondotto a quello della verità razionale.
Le idee di Parmenide costituiscono uno dei pilastri fondamentali della teoresi occidentale: esse sono alla base non solo del pensiero greco (come tali esse furono discusse e restarono costitutive dell’ontologia di Platone e Aristotele e delle rispettive scuole), ma, attraverso la mediazione dei tardi neoplatonici (Plotino e Proclo soprattutto), anche della speculazione del mondo arabo e della scolastica cristiana. Messe in ombra dal razionalismo seicentesco e settecentesco, sono state riprese dall’idealismo specie hegeliano, per tornare al centro dell’attenzione in età contemporanea con la ripresa dell’interesse per il problema dell’essere e delle radici greche del pensiero occidentale, principalmente in riferimento alle tematiche concernenti il concetto di verità e tecnica. Sotto questo aspetto sono fondamentali le prospettive interpretative aperte in particolare da Heidegger e, ultimamente in Italia, da Severino.

NOTA BIBLIOGRAFICA

Il poema Sulla natura (Perì phýseōs), già di difficile reperimento nell’antichità e in età ellenistico-romana, cadde in oblio dal Medioevo al Romanticismo: fu rivalutato da Hegel e dalla sua scuola, che diedero un decisivo impulso a ricerche e studi concretizzatisi nell’edizione critica dei Frammenti dei presocratici di H. Diels e W. Kranz, Berlino 1903 (1a ed.).
Tra le edizioni italiane si segnala: Poema sulla natura, a cura di G. Reale e L. Ruggiu, Rusconi, Milano 1991.

2

Fedone
PLATONE

385-378 a.C.

Redatto tra il 385 e il 378 a.C., il Fedone è stato celebrato nella storia degli studi platonici sia per i suoi pregi letterari sia per il valore filosofico. Tema principale del dialogo è la dimostrazione dell’immortalità dell’anima, svolta a partire da richiami orfico-pitagorici. Strettamente connessa alla dottrina dell’anima è quella delle idee, che viene presentata in quest’opera per la prima volta. I personaggi che compaiono all’inizio sono Echecrate e Fedone, a cui viene chiesto di narrare le ultime ore di vita di Socrate prima di bere il veleno nella primavera del 399 a.C. L’ambientazione è quella della cella in cui Socrate è rinchiuso; i suoi interlocutori principali sono Fedone, Critone e i pitagorici Simmia e Cebete; lo attorniano altri personaggi tra cui i figli e, in una breve comparsa, la moglie Santippe. Da segnalare l’assenza di Platone, cui l’autore accenna con l’inciso «Platone, credo, era ammalato» (59 b).
Nel Prologo Socrate sviluppa una meditazione sulla morte nel corso della quale afferma: «A me sembra verosimile che un uomo, che abbia passato tutta la vita nella filosofia debba avere fiducia che, una volta morto, riceverà nell’aldilà beni grandissimi» (63 d-64 a). La lezione socratica è, quindi, che il filosofo può desiderare di morire perché con la morte si ha la separazione dell’anima dal corpo e l’anima, libera dai condizionamenti della vita materiale, può pervenire alla pura conoscenza dell’essere. Cebete obbietta a Socrate che non si è certi che l’anima sopravviva al corpo e che raggiunga la contemplazione della verità. Socrate è così indotto ad affrontare il tema della dimostrazione dell’immortalità dell’anima, che sviluppa in tre argomentazioni.
La prima dimostrazione consiste nell’argomento dei contrari: il divenire di tutte le cose è spiegato in natura con il subentrare di un contrario all’altro e viceversa (il sonno è preceduto dalla veglia e viceversa, il freddo dal caldo e viceversa). La morte e la vita sono l’una il contrario dell’altra («morire» è passare dalla vita alla morte e «rinascere» è passare dalla morte alla vita). Se si vuole «evitare che tutto si consumi nella morte», occorre ammettere che «le anime dei morti continuino ad esistere» (72 d). Come sostenevano le antiche teorie orientali della metempsicosi, le anime sopravvivono alla morte dei corpi e, reincarnandosi, passano attraverso una continua serie di vite e di morti.
La seconda dimostrazione è data dall’argomento della reminiscenza (anámnēsis). Conoscere è ricordare, ma non gli oggetti sensibili, bensì le idee come la Bellezza, la Bontà, l’Eguaglianza, e via di seguito; queste idee non cadono mai sotto i nostri sensi (noi vediamo cose belle, ma non la Bellezza, cose eguali, ma non l’Eguaglianza). Questa conoscenza non è sensibile ma intelligibile, non può quindi derivare da esperienze della vita terrena, ma deve provenire da una vita precedente in cui l’anima esisteva indipendentemente dal corpo e poteva contemplare le idee eterne. Socrate conclude questa dimostrazione affermando che la conoscenza delle idee deve precedere e condizionare la conoscenza sensibile e che la nostra anima deve essere esistita prima della nostra nascita.
La terza dimostrazione muove dalla distinzione tra ciò che è composto (e può decomporsi) e ciò che è semplice: composto e decomponibile è tutto ciò che partecipa della materia; semplice e indecomponibile tutto ciò che è puramente intelligibile. Il corpo, essendo simile alle cose materiali, si decomporrà e morrà; l’anima invece è una sostanza intelligibile semplice che non può decomporsi, come tale è affine al divino ed è immortale.
Simmia non è d’accordo con questo argomento e osserva che il suono armonico di una lira è incorporeo come l’anima, ma se la lira si rompe, il suono finisce. L’anima potrebbe essere come il suono di un corpo e cessare di esistere quando il corpo muore. Anche Cebete esprime dei dubbi sulle prime due dimostrazioni socratiche, dal momento che la reincarnazione in più corpi non implica di per sé l’immortalità, potendo l’anima, dopo vari passaggi, alla fine morire. Le obiezioni di Simmia e Cebete sono controbattute da Socrate con vari argomenti, tutti riconducibili in ultima istanza alla proposta di una nuova dottrina, che a suo fondamento pone il superamento delle filosofie naturalistiche e la scoperta della teoria delle idee.
Platone descrive queste acquisizioni teoriche attraverso un racconto autobiografico di Socrate, che è anche un compendio delle problematiche originarie della filosofia greca. La ricerca socratica era partita in gioventù dai temi dell’essere, del divenire, della causa prima di tutte le cose. Ma nei filosofi precedenti Socrate non aveva trovato risposte soddisfacenti, per cui, dopo aver espresso la propria delusione per le dottrine fisiche e per quelle cosmologiche di Anassagora, confessa: «Ebbi paura che l’anima mia si accecasse completamente, guardando le cose con gli occhi e cercando di coglierle con ciascuno degli altri sensi. E, perciò, ritenni di dovermi rifugiare in ragionamenti e considerare in questi la verità delle cose che sono. [...] Io mi sono avviato in questa direzione e, di volta in volta, prendendo per base quel postulato che mi sembra più solido, giudico vero ciò che concorda con esso, sia rispetto alle cause, sia rispetto alle altre cose, e ciò che non concorda giudico non vero» (99 d-100 a). Socrate chiama «seconda navigazione» questo nuovo metodo di filosofare, fondato non sulla conoscenza sensibile, ma su ragionamenti (lógoi) e postulati. Il nucleo di questa prospettiva filosofica è la dottrina delle idee, così sintetizzata da Socrate: «Mi accingo infatti a mostrarti quale sia quella specie di causa che io ho elaborato, partendo dal Postulato che esista un Bello in sé e per sé, un Buono in sé e per sé, un Grande in sé e per sé e così di seguito. [...] A me sembra che, se c’è qualcos’altro che sia bello oltre al Bello in sé, per nessun’altra ragione sia bello, se non perché partecipa di questo Bello in sé e così dico di tutte le altre cose» (100 c). Il testo platonico presenta tre caratteri distintivi delle idee: esse sono gli oggetti specifici della conoscenza razionale, i criteri dei giudizi di valore e le cause delle cose naturali.
Terminata la trattazione della dottrina delle idee, si passa alla narrazione con cui ci si avvia alla conclusione del dialogo. È il mito complesso, cosmologico ed escatologico, che tratta della struttura della Terra e del destino delle anime. La Terra è descritta come una sfera immobile al centro del cosmo; al di sopra e attorno a essa c’è un mondo fatto di pura aria abitato da uomini molto più perfetti di noi, che parlano direttamente con gli dei; più in alto ancora troviamo il puro etere, in cui ruotano gli astri; al di sotto della Terra abitata vi è il mondo sotterraneo, al centro del quale si estende il Tartaro, che alimenta i fiumi abissali (Oceano, Acheronte, Flegetonte, Cocito). In questo mondo sotterraneo si riuniscono le anime per essere giudicate, dopo la morte dei corpi in cui erano prigioniere. Quelle dei buoni avranno un’esistenza incorporea e felice; quelle di coloro che hanno vissuto tra il bene e il male si devono purificare prima di tornare in un’altra vita; quelle dei grandi peccatori sono gettate nel Tartaro da cui non usciranno più.
Dopo la narrazione di questo mito il dialogo termina con il racconto della scena della morte di Socrate. Bevuto il veleno (la cicuta, secondo la tradizione), le sue ultime parole, rivolte al discepolo Critone sono: «Sacrificate per me un gallo a Esculapio». Così erano soliti fare i Greci, sacrificando al dio della medicina un gallo quando si guariva da una malattia. Ovvio interpretare le parole di Socrate come quelle di chi considerava la morte la guarigione della malattia del vivere. In questo senso l’ultimo messaggio del dialogo è in totale coerenza con il suo nucleo tematico centrale, l’idea dell’immortalità dell’anima e della morte come passaggio alla vera vita. Si tratta di un lascito filosofico della massima importanza per tutta la tradizione spirituale del pensiero occidentale.

NOTA BIBLIOGRAFICA

Il Fedone (Pháidon) è stato edito per la prima volta nella traduzione latina di Marsilio Ficino a Firenze nel 1482-84 ca. e nel testo greco, a cura di...

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