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Dopo le alluvioni e i terremoti un nuovo cataclisma sconvolge il nostro Paese: la rivolta dell’Università .
Gli scioperi, le occupazioni, le serrate, le cariche della polizia, gli studenti sospesi, imprigionati, feriti, i professori disarcionati, i rettori confusi, i ministri smarriti, l’inettitudine e la violenza inaspettatamente rivelate, diffondono una cattiva coscienza che neppure le catene della solidarietà potrebbero esorcizzare.
Per un Paese a struttura autoritaria e benpensante come il nostro, la rivolta dell’Università è inconcepibile: come la rivolta delle accademie militari o della polizia o dei carcerati. Se l’Università è in rivolta tutta la struttura della nazione vacilla: c’è ragione di scandalo e anche di disperazione. Infatti l’Università , come le accademie militari, è considerata una fucina di operatori destinati a far funzionare il sistema. I professori e gli studenti, come la polizia e i carcerati, sono rispettivamente gli iniziatori e i catecumeni, i redentori e i redenti del sistema, nel nome della conservazione e della salvaguardia del sistema.
Se l’Università è in rivolta, l’ordine sociale costituito smarrisce le garanzie del suo futuro. Per di più, e questo è peggio, rischia la confusione dei suoi fondamentali valori. La distinzione, precostituita dall’ordine costituito, tra bene e male, giusto e sbagliato, efficienza e spreco, utile e superfluo, eccetera, finisce col dissolvere la sua acquisita precisione in una sequenza inquietante e rischiosa di sfumature dialettiche.
In Italia, quando si dice Università , l’immagine retorica che viene subito alla mente è quella dell’Università medioevale: l’immagine di una comunità totale di docenti e studenti legata da un interesse comune e da una comune responsabilità di ricerca, inserita nell’equilibrio federativo dell’organizzazione dei liberi comuni come un suo elemento strutturale; una struttura della società , ancorata al reale del presente e proiettata verso l’utopia del futuro.
Ma l’immagine medioevale che generalmente si presta nel nostro Paese all’idea di Università è irrimediabilmente retorica. La nostra Università ha subìto dopo il medioevo così radicali trasformazioni da perdere del tutto le sue connotazioni originali. L’Università italiana contemporanea conserva in realtà il calco che le è stato impresso dalla Compagnia di Gesù e dallo Stato Unitario; quella conformazione autoritaria e strumentalizzata che doveva essere confermata dagli eventi storici successivi e che è oggi la principale causa dei suoi ritardi e dei suoi guai.
Con la Compagnia di Gesù alla fine del Cinquecento entra nell’Università italiana, e nelle università dell’area della Controriforma, il principio dell’autorità , e col principio d’autorità il germe corrosivo della libera tensione che aveva caratterizzato le comunità degli studi del medioevo. La cultura viene messa al servizio di una ragione superiore incontestabile che impone l’erezione di un apparato disciplinare e gerarchico. L’idea di una ricerca indipendente e articolata secondo le esigenze di una sua propria razionalità , diviene sospetta nel contesto di un integralismo ideologico che pretende ortodossia e conformismo.
Quando, con ragione, si celebra la gloria delle nostre Università nel periodo della Controriforma, si dovrebbe sempre precisare che la gloria è da attribuire a quei pochi gruppi di studiosi che continuavano a contestare il sistema con un lavoro di ricerca universale in controcorrente alla tendenza ufficiale delle istituzioni di cui facevano parte. Ma alle eccezioni dei Galileo si opponeva la larga generalità dei Priuli e dei Messer Colombe, che era in concreto l’Università . La Vera Università era dunque la rigida istituzione che, controllata dagli integralisti e governata dagli aristotelici, passando attraverso una serie ininterrotta di involuzioni arrivò a quella condizione di ottusità e di clientelismo provinciale che i Commissari Regi ritrovarono, intorno al 1860, quando lo Stato Unitario cominciò a porsi i problemi della riunificazione e del rilancio dell’istruzione superiore. I modelli che il nuovo Stato italiano tenne in considerazione in quegli anni furono quello tedesco e quello francese; di tutti e due riuscì a cogliere il peggio, coerentemente con l’ottuso buonsenso che caratterizzava i suoi atti. Dal modello tedesco raccolse la vocazione al distacco dalle esigenze globali della società , in nome di una idealistica preservazione dell’armonia della conoscenza; trascurò invece il principio del confronto azzardato e indipendente che Guglielmo Humboldt aveva posto alla base del suo programma per la fondazione degli Istituti Superiori Scientifici di Berlino. Del modello francese trascurò i contenuti pragmatici per raccogliere invece le intenzioni autoritarie di una Università come Monopolio di Stato.
Le vere intenzioni dei vari ministri che hanno governato l’Istruzione Pubblica in Italia dal 1859 ad oggi, da Gabrio Casati in poi (fatta eccezione per De Sanctis e, in un senso diverso, per Gentile), assai più che dai fiumi di parole che hanno pronunciato, sono rappresentate da queste secche dichiarazioni che Napoleone I rilasciò al Consiglio di Stato il 21 marzo del 1810: «Se le mie speranze si attuano voglio trovare nel Corpo universitario una garanzia contro le teorie perniciose che tendono a sovvertire l’ordine sociale costituito… Il Corpo universitario avrà il compito di dare per primo l’allarme e di essere pronto a resistere contro le pericolose teorie degli spiriti singolari… che cercano di agitare l’opinione pubblica». Queste vere intenzioni, bilanciate da una sequenza di calcolati richiami all’incontaminazione della cultura, hanno costituito l’intelaiatura ideologica su cui si è retta finora l’Università italiana. L’Università monopolio di Stato rappresentava lo strumento più appropriato alla borghesia, come classe monopolizzatrice dello Stato. Ma col passaggio da un’economia interamente agricola ad una economia parzialmente industriale, col rafforzamento e la proliferazione della burocrazia statale, la borghesia venne presa da una nuova serie di esigenze che la costrinsero a raggiustare l’apparato della sua pubblica istruzione.
L’Università , strumento di controllo ideologico e di conservazione del potere, doveva ora assolvere anche l’urgente compito di fornire quadri per la gestione delle nuove strutture produttive e dello Stato. L’obiettivo iniziale si configurava a questo punto diverso: si trattava di fondere le nuove necessità contingenti con l’esigenza autoritaria di base. Per conseguirlo occorreva massimizzare la strumentalizzazione dei quadri prodotti; in altre parole, si trattava di orientare la preparazione dei quadri ad un fine puramente operativo e settoriale distruggendo ogni germe di libera ricerca e di critica dentro un sistema organizzativo che automaticamente producesse le motivazioni del suo agnosticismo. Stabiliti gli obiettivi e la strategia per raggiungerli, l’operazione venne messa a punto dal fascismo che utilizzò a questo scopo, simultaneamente, la sapienza e l’ignoranza, la finezza e l’ottusità della classe di cui era al servizio.
La Riforma che passa sotto il nome di Giovanni Gentile ha due tempi, che rappresentano in modo preciso la radicata consuetudine della borghesia italiana di strillare il suo amore per la virtù nell’esatto momento in cui si prostituisce. Il primo tempo corrisponde alla delineazione di un quadro idealistico in cui si ripropone in termini «fichtiani» l’idea di una cultura che si distacca dalle orribili contingenze della realtà per non contaminarsi con la volgarità e la sopraffazione. Il secondo è quello della volgarità e della sopraffazione che invadono il quadro e impongono le loro regole, senza trovare nella cultura una resistenza che vada oltre un accorato (e compiaciuto) rammarico.
Nel 1923 Mussolini, approvando la Riforma Gentile, con la consapevolezza dei radicali ritocchi che le avrebbe subito dopo inflitto per condizionarla meglio ai suoi fini, espresse il suo pensiero in modo del tutto esplicito. «Il governo fascista», egli disse, «ha bisogno della classe dirigente. Nell’esperienza di questi quattordici mesi di governo io ho veduto che la classe dirigente non c’è. Io non posso improvvisare i funzionari in tutta l’Amministrazione dello Stato: tutto ciò deve venirmi a grado a grado, dall’Università … I fascisti hanno l’obbligo di agire perché le Università diano la classe dirigente degnamente preparata ai suoi grandi e difficili doveri». Quali sono i provvedimenti che vennero adottati per risolvere questo programma? Quali le regole che vennero imposte all’Università dalla volgarità e dalla sopraffazione? Le stesse che ordinano la struttura attuale dell’Università italiana; le stesse oggi, dopo una guerra una resistenza un periodo ventennale di dibattiti parlamentari; le stesse che avremmo avuto domani se la nuova Riforma fosse passata alle Camere (se la rivolta degli studenti non fosse riuscita a ribaltare i termini del problema). Il pilastro di queste regole è il principio di autorità ; ancora oggi come all’epoca della Compagnia di Gesù, ma con una sensibile differenza che, malgrado tutto, ha un valore. Questo principio, origine dei mali più gravi che hanno afflitto e continuano ad affliggere il mondo, aveva nella concezione di Ignazio di Loyola una proiezione trascendente e universale, un irriducibile e secco, anche se crudele, rigore. Il principio di autorità su cui si regge la struttura dell’Università dei nostri giorni si proietta invece nel compromesso e nell’umido della corruzione, dove affoga ogni possibilità di contraddizione e quindi di riscatto. Dall’applicazione del principio di autorità deriva all’Università un’organizzazione per compartimenti stagni in necessaria e permanente opposizione tra loro.
La prima fondamentale paratia è tra i docenti e gli studenti. I docenti sono quelli che sanno e gli studenti sono quelli che non sanno. Ma che cosa sanno e non sanno le due parti opposte? Naturalmente sanno e non sanno il sapere; ma non solo questo. Gli studenti, oltre il sapere, non sanno le ragioni per cui dovrebbero sapere; e non sanno i modi in cui queste ragioni sono governate; non conoscono e non debbono conoscere la struttura e le forme di questi modi; non partecipano, non discutono, non decidono: sono passeggeri accidentali ed estranei in una istituzione che dovrebbe essere fatta per loro e che si giustifica solo per la loro presenza.
Un’altra serie di paratie divide ermeticamente i docenti. Ci sono gli assistenti volontari, gli assistenti ordinari, gli incaricati, i professori straordinari, i professori ordinari, i direttori d’istituto, i presidi, i rettori. Qui le paratie sono orizzontali e la loro stratificazione dà luogo a una piramide i cui spigoli svaniscono in alto in una banda oscura. Per un osservatore esterno che giudichi della loro convergenza, il vertice dovrebbe essere vicino e concreto; ma in realtà il vertice non c’è. Al di là della banda che resta indecifrabile gli spigoli divergono, e con un nuovo andamento entrano nel viluppo della struttura dello Stato. Qui si attuano le convergenze e gli intrecci più imprevedibili; qui l’Università trova i legami più misteriosi e indissolubili col sistema.
Del resto, a parte gli assistenti volontari e i professori incaricati, spermatozoi alla febbrile ricerca di un ovulo che dia loro una configurazione concreta, tutti gli altri docenti, ai diversi livelli della piramide, sono funzionari statali. Le pareti che li dividono per categorie gerarchiche sono permeabili in senso ascendente: per tutti, sia pure con un basso tasso di probabilità , c’è la possibilità di ascendere. Ma il regolatore di questa ascesa non è, come si vorrebbe credere, il valore scientifico, poiché l’ascesa è il prodotto di una iniziazione complicata e crudele che ha come soluzione finale l’accettazione del sistema o la connivenza forzata col sistema. La scalata passa attraverso una successione di passaggi perfettamente calibrati che filtrano l’indipendenza, il coraggio di opinione, la lealtà scientifica e umana. Tutti quelli che sono arrivati ai livelli più alti, anche chi per naturale qualità di durezza o per caso è riuscito a conservare dignità e decoro, tutti portano incisa nello strato più intimo della loro vicenda personale la vergogna delle capitolazioni, temporanee o definitive, cui hanno dovuto soggiacere. La regola del gioco è perfetta perché il ciclo non arriva mai a una fine, come il gioco delle perle di vetro o come il poker: nessuno può considerarsi mai sulla vetta, per il semplice fatto che la vetta non c’è. E anche la motivazione del gioco è perfetta, perché è nel potere. Ad ogni tappa conseguita c’è un nuovo privilegio e un nuovo premio di potere, inalienabili e in loro stessi assoluti.
Per fare un esempio che con termini diversi vale per ciascun livello raggiunto: un professore ordinario non può essere dimesso dalla sua posizione neanche se per senescenza precoce non è più in grado di insegnare e neppure se per interessi egoistici privati trascura o si rifiuta di insegnare, adopera gli assistenti e gli studenti come forza-lavoro per le sue personali extrascolastiche iniziative, usa l’insegna del suo grado universitario per crescere di prestigio e di guadagni nel campo dell’attività professionale. Senescente o impegnato, profittatore o disinteressato che sia, egli ha in ogni caso l’assoluta prerogativa di predisporre e manovrare i filtri che sbarrano la sua posizione alla penetrazione dai livelli inferiori. Tutti sono sollecitati dall’automatismo del sistema a riunirsi in questa circostanza di suprema difesa (e di massima corruzione) della struttura; tutti, anche contro le loro personali convinzioni, sono automaticamente trascinati nel gorgo delle astratte manipolazioni (e delle vergognose alleanze).
Attraverso questi processi automatici, che trascendono e allo stesso tempo coinvolgono la volontà delle persone, l’Università ...