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Affrontare e vincere le crisi
Della pandemia e di altre catastrofi: lezioni da apprendere per contenere i danni e ripartire alla grande
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Affrontare e vincere le crisi
Della pandemia e di altre catastrofi: lezioni da apprendere per contenere i danni e ripartire alla grande
Informazioni su questo libro
Il libro, curato dal direttore di Harvard Business Review Italia, Enrico Sassoon, è composto da circa 20 saggi suddivisi in cinque sezioni che toccano tutti i principali temi di primario interesse per chi deve affrontare e risolvere le crisi, sia sotto il profilo professionale sia sotto quello personale. La prima sezione riguarda la pandemia del Coronavirus, evento eccezionale che sta comportando e comporterà non solo pesanti effetti economici, ma profonde implicazioni di gestione, di nuovi rapporti di lavoro come lo smart working e di diverse relazioni all'interno delle organizzazioni. La seconda sezione affronta in modo più ampio la tematica delle crisi, che riguardino sia emergenze sanitarie, sia economiche o di altro tipo. La terza concerne i nuovi approcci alla gestione dei rischi e i nuovi modelli organizzativi e di leadership per farvi fronte. La quarta sezione invita a guardare, in modo professionale e consapevole, al futuro, per essere pronti a gestire eventi inaspettati. E la sezione finale tocca i temi della comunicazione in tempi di crisi.
Un libro completo e di straordinaria attualità, che si avvale di contributi di altissimo livello: Nitin Nohria, Condoleezza Rice, Yuval Noah Harari, Martin Reeves, Robert Kaplan, Heidi Gardner, Andrea Granelli, Emilio Rossi e molti altri.
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Informazioni
Argomento
EconomicsCategoria
International EconomicsPARTE 1
IN GUERRA CONTRO LA PANDEMIA
COSA OCCORRE A UN’ORGANIZZAZIONE PER SUPERARE LA PANDEMIA
di Nitin Nohria
Gran parte del pensiero organizzativo sulle epidemie, e sulla gestione delle crisi in generale, si è concentrato sulla preparazione. Con l’improvvisa comparsa di un nuovo mortale virus, preparare l’organizzazione è fondamentale. Negli ultimi anni, molte aziende hanno creato team di gestione del rischio allo scopo di sviluppare piani di emergenza dettagliati per rispondere a una possibile pandemia. Certo, questo è necessario ma non sufficiente. Nel contesto complesso e incerto di una crisi prolungata e in evoluzione, le organizzazioni più robuste non saranno quelle che hanno semplicemente dei piani da mettere in atto, ma quelle che hanno la capacità di captare i segnali deboli e di dare una risposta continuativa. Come ha osservato Darwin, le specie che sopravvivono sono quelle più adattabili.
Considerate le organizzazioni descritte qui di seguito. Chi se la caverebbe meglio in una crisi prolungata come una pandemia?
Chi saprà cavarsela meglio?
| Organizzazione 1 | Organizzazione 2 |
| Gerarchica | A rete |
| Con leadership centralizzata | Con leadership distribuita |
| Fortemente interrelata | Poco interrelata |
| Con forza lavoro concentrata | Con forza lavoro distribuita |
| Basata su specialisti | Basata su generalisti trasversali |
| Guidata da politiche e procedure | Guidata da regole semplici e flessibili |
L’organizzazione 2 è chiaramente meglio posizionata per rispondere a minacce imprevedibili e in evoluzione. Sappiamo dalla teoria della complessità che seguire alcuni principi fondamentali di risposta alle crisi è più efficace che avere un piano dettagliato a priori. Negli incendi, per esempio, è stato dimostrato che una singola regola – camminare lentamente verso l’uscita – salva più vite di quanto non faccia un piano di fuga complicato.
Non sto dicendo che le aziende non dovrebbero avere piani completi di mitigazione del rischio. Dovrebbero porsi domande sulle loro catene di fornitura e sull’organizzazione interna del tipo: “Qual è la nostra risposta se un componente va in tilt? Qual è la nostra risposta se due componenti smettono di funzionare? Abbiamo sistemi informatici ridondanti?” Ma altrettanto importante è che le aziende si chiedano: “Quale meccanismo di rilevamento e coordinamento in tempo reale useremo per rispondere a eventi che non potremo mai anticipare del tutto?
Le aziende non dovrebbero affidarsi esclusivamente a un team specializzato nella gestione del rischio per affrontare una crisi prolungata. E se il team venisse messo in condizioni di non operare? Devono invece sviluppare la capacità di valutare rapidamente i cambiamenti in corso nell’ambiente e sviluppare risposte basate su principi semplici. Ciò significa che le aziende hanno bisogno di una rete globale di persone provenienti da tutta l’organizzazione in grado di coordinarsi e di adattarsi allo svolgersi degli eventi, reagendo immediatamente e in modo appropriato a interruzioni della comunicazione all’interno e all’esterno dell’organizzazione e a perdite di risorse fisiche e umane. (Se una sede importante all’estero viene improvvisamente disconnessa dalla rete dell’azienda, chi interviene?). Questa rete deve passare rapidamente attraverso un processo di individuazione delle minacce, di coordinamento, di risposta e poi di nuovo di rilevamento. E deve impegnarsi a risolvere i problemi che emergono in modo creativo e collaborativo, ma anche disciplinato, anche quando i membri della rete di crisi sono in movimento o vengono tagliati fuori.
Questo è esattamente ciò che fanno le forze navali d’intervento, e con grande efficacia. Uno dei motivi per cui i marines sono così pronti e reattivi è che si esercitano di continuo. Le aziende dovrebbero fare lo stesso. Una società potrebbe costituire un gruppo collocato in tutto il mondo con un numero variabile di membri che potrebbe dedicare, diciamo, mezza giornata ogni due mesi a simulazioni di crisi. Per esempio: cosa potrebbe fare il gruppo se per qualche motivo venisse meno il 30% della forza lavoro dell’azienda in Asia? E se gli Stati Uniti chiudessero le frontiere? Come risponderebbe il team a uno scenario “impensabile”? L’obiettivo non è quello di creare regole specifiche per rispondere a minacce specifiche, ma di fare pratica di nuovi modi per risolvere i problemi in un ambiente imprevedibile e in rapido cambiamento.
Per quanto riguarda le due organizzazioni rappresentate nella tabella, in caso di crisi si troverà avvantaggiata quella che riesce a far leva sulle proprie capacità e a cooperare con gli altri membri della comunità, e anche con i concorrenti. Le aziende dovrebbero orientarsi ad applicare un modello open-source di risposta alle crisi. Così come invitano i partner e i concorrenti a sviluppare prodotti innovativi in modo congiunto, dovrebbero valutare se le risposte alle crisi sviluppate in modo cooperativo sarebbero migliori di quelle proprietarie. Se perdessero certe capacità in una crisi e i concorrenti ne perdessero altre, ci sono opportunità reciprocamente vantaggiose per scambi e collaborazioni?
Infine, molti leader pensano che la gestione delle crisi non sia il loro lavoro. Ecco perché hanno assunto esperti di mitigazione del rischio e di sicurezza. Ma creare organizzazioni forti di fronte all’incertezza richiede una nuova mentalità che va gestita top-down. Sviluppando una cultura e meccanismi che supportino una superiore capacità di adattamento, le aziende si vaccineranno contro una serie di minacce, non solo contro le pandemie. Diventeranno più resistenti e competitive nell’incerto contesto del business.
NITIN NOHRIA è il decimo rettore della Harvard Business School (dal 1 luglio 2010). In precedenza è stato presidente della Leadership Initiative, Senior Associate Dean of Faculty Development e Head of the Organizational Behavior Unit.
I GIORNI DELL’EMERGENZA
Intervista di Christiane Amanpour a Yuval Noah Harari
Quelli della pandemia sono giorni particolari. Lei ha scritto molto sulla Storia, su ciò che ci rende umani. Ha mai visto nei tempi moderni, nella nostra società economicamente e tecnologicamente globalizzata, una crisi simile a questa?
Come questa non proprio. Voglio dire, non vediamo un’epidemia globale di questa portata da almeno 100 anni. Davvero nessuno di noi ha già sperimentato nella propria vita ciò che sta accadendo ora. E questo è uno dei motivi che rende la situazione così spaventosa e allarmante. Ma se guardi al passato, alla prospettiva più ampia della Storia, allora ti rendi conto che l’umanità più vicina ha già affrontato molte di queste epidemie e che probabilmente noi ci troviamo nella miglior condizione di sempre per poter affrontare un tale sconvolgimento.
Grazie a cosa?
Grazie alla medicina moderna. Quando la Peste nera scoppiò nel 14° secolo, passò dalla Cina alla Gran Bretagna in circa 10 anni. Anni che uccisero tra un quarto e la metà dell’intera popolazione dell’Asia e dell’Europa e nessuno aveva idea di cosa stesse succedendo, quale fosse la causa della malattia e cosa si potesse fare a riguardo. Oggi, con l’epidemia di Coronavirus, ci sono volute solo due settimane per scienziati e medici non solo per identificare il virus responsabile, ma anche, conseguentemente, il suo intero genoma. E per sviluppare test che almeno ci dicono chi ha il virus e chi no. Quindi, c’è modo di superare tutto questo. Siamo, come ho detto, in una posizione migliore rispetto a qualsiasi altra volta precedente.
Ma non dimentichiamoci che è passato dalla Cina alla Gran Bretagna, agli Stati Uniti in un periodo molto, molto più breve, di pochi mesi. Cosa, come normale cittadino, la spaventa di più o pensa debba essere fatto, almeno per fermare il panico almeno?
Penso che la cosa peggiore sia la disunione che vediamo nel mondo, la mancanza di cooperazione, di coordinamento tra i diversi Paesi. E la mancanza di fiducia, sia tra gli Stati sia tra le popolazioni e i Governi. Questo è fondamentalmente il rovescio della medaglia di quello che abbiamo visto succedere negli ultimi anni: l’epidemia delle fake news e il deterioramento delle relazioni internazionali. Se si confronta questa crisi, ad esempio, con quella finanziaria del 2008, ovviamente si tratta di due emergenze di tipo diverso, ma con delle somiglianze. Nel 2008 ci sono stati degli adulti responsabili nel mondo che hanno assunto una posizione di leadership, hanno preso il mondo sulle proprie spalle e impedito che si verificassero le conseguenze peggiori. Negli ultimi quattro anni però, in sostanza, abbiamo visto un rapido deterioramento della fiducia nel sistema internazionale. Il Paese che in precedenza aveva assunto la posizione leader, sia nella gestione della crisi finanziaria del 2008, sia nell’ultima grande epidemia, l’epidemia di Ebola del 2014 – gli Stati Uniti – ora non sta assumendo alcun tipo di posizione di comando. In realtà, dal 2016, l’attuale amministrazione ha reso chiaro che gli Stati Uniti hanno rassegnato le dimissioni dal loro ruolo di leader mondiale. Non hanno più amici al mondo, hanno solo interessi. E anche se adesso, che non stanno facendo molto, provassero a diventare di nuovo una guida, nessuno seguirebbe un leader la cui filosofia è Me First (io per primo).
Quindi, ciò che mi spaventa davvero è la mancanza di leadership e cooperazione. E ciò di cui la gente dovrebbe rendersi conto è che la diffusione dell’epidemia in ogni singolo Paese minaccia il mondo intero a causa del fatto che, se non viene contenuto in tempo, il virus si evolverà. Questo è forse uno dei peggiori scenari con questo tipo di epidemia: una rapida evoluzione del virus.
L’abbiamo visto con l’epidemia di Ebola del 2014. La vera epidemia è iniziata con una mutazione genetica di un virus in una persona in Africa occidentale, che ha trasformato l’Ebola da una malattia relativamente rara in un’epidemia distruttiva; perché questa singola mutazione ha aumentato la capacità di contagio del virus di quattro volte. Ora, questo potrebbe stare accadendo adesso da qualche parte in Iran o in Italia o altrove, e ovunque ciò accada mette in pericolo il mondo intero. L’umanità ha bisogno di serrare i ranghi, unirsi, contro i virus.
Dice serrare i ranghi, e questo sembra essere il contrario di ciò che i populisti e i nazionalisti stanno affermando dal 2016 sia negli Stati Uniti che nel Regno Unito e in altre parti del mondo. E cioè che la globalizzazione è solamente negativa e che dobbiamo sempre chiuderci per non lasciar passare nulla di male attraverso i confini. Sta dicendo che questa si è rivelata una teoria fallimentare quando si tratta di questo tipo di crisi.
Sì. Perché non si può davvero gestire il virus e prevenire le epidemie ricorrendo all’isolamento. Puoi prevenirle solo con l’informazione. Se pensi davvero di isolarti a un livello tale da non essere esposto a epidemie esterne, anche risalendo fino al Medioevo sappiamo che questa strategia non risulta sufficiente. Perché abbiamo avuto questo tipo di epidemie anche allora e nemmeno in quel periodo è bastato isolarsi. È necessario tornare all’età della pietra per trovare le condizioni per cui isolarsi può essere davvero una soluzione possibile contro le epidemie, e nessuno evidentemente può farlo.
Il vero confine da proteggere con molta attenzione non è tra Paesi e l’altro, ma tra il mondo umano e la sfera del virus. Gli umani sono circondati da un’enorme varietà di virus presenti in luoghi e animali di ogni tipo. E se un virus attraversa questo confine, in qualsiasi parte del mondo, mette in pericolo l’intera specie umana. Questo è il confine a cui pensare davvero. Se un virus, originatosi ad esempio in un pipistrello, riesce ad attraversare il confine con la specie umana in qualsiasi parte del mondo, quel virus si adatta al corpo umano e quindi è un pericolo per tutti in tutto il globo. È un’illusione, quindi, pensare che a lungo termine ci si possa proteggere contro quel virus semplicemente chiudendo i confini del proprio Paese. La politica più efficace è quella di sorvegliare il confine tra il genere umano e il mondo dei virus.
Come si può fare?
Rafforzando i sistemi sanitari di tutto il mondo. Rendendosi conto che ciò che sta accadendo ora in Africa occidentale o in Iran o in Cina, è non solo una minaccia per gli iraniani o i cinesi, ma anche una minaccia per gli israeliani. Quindi, abbiamo bisogno di più realtà come l’Organizzazione mondiale della sanità e maggiore solidarietà internazionale per aiutare il Paese che è attualmente più colpito a far fronte a questa crisi. Con l’invio di attrezzature e personale e, più di ogni altra cosa, con buone informazioni, scientifiche, o con il sostegno economico. Un Paese in cui inizia un focolaio, se pensa di essere da solo esiterà a prendere drastiche misure di quarantena perché penserà “se blocchiamo l’intero Stato o intere città collasseremo economicamente e nessuno verrà ad aiutarci, quindi aspettiamo e vediamo se è davvero un pericolo così grande”. E poi sarà troppo tardi. Ora, se un Paese come l’Italia, ad esempio, sapesse che nel caso decidesse di fermarsi riceverà aiuto da altri Paesi, sarà disposto a prendere prima questa misura drastica. A beneficio dell’intera umanità. Per ogni euro che la Germania o la Francia spendono per sostenere l’Italia in una situazione del genere ne risparmierebbero 100 in seguito, non dovendo affrontare l’epidemia nelle loro città.
Ora, questo virus è fuori dagli schemi e c’è stata, si potrebbe dire, una risposta lenta in tutto il mondo nel cercare di sorvegliare quel confine tra virus ed esseri umani. L’Italia ha preso una misura drastica e l’intero Paese si è bloccato. Che cosa ne pensi?
Direi che è un test, soprattutto per l’Unione Europea, che ha perso molto supporto negli ultimi anni. È la possibilità per l’Unione di dimostrare davvero il suo valore, il momento per gli altri Stati membri di venire in aiuto all’Italia. Agendo in questo modo, non solo proteggeranno i propri cittadini, ma mostreranno il valore di un sistema come l’Unione Europea. Se non lo faranno, il virus potrebbe distruggere anche la stessa ...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Colophon
- Indice
- Introduzione: il tempo spezzato
- PARTE 1 – IN GUERRA CONTRO LA PANDEMIA
- PARTE 2 – AFFRONTARE LE CRISI
- PARTE 3 – LA GESTIONE DEI RISCHI DEL XXI SECOLO
- PARTE 4 – GLI SCENARI PER ANTICIPARE IL FUTURO
- PARTE 5 – COMUNICARE NELLE CRISI