Soli e civili
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Soli e civili

Savinio, Noventa, Fortini, Bianciardi e Bellocchio

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Soli e civili

Savinio, Noventa, Fortini, Bianciardi e Bellocchio

Informazioni su questo libro

I ritratti controcorrente di una parte minoritaria e dimenticata della storia culturale del nostro paese scritti da uno dei nostri migliori critici, giovani e anticonformisti, dell'accademia italiana. Da Alberto Savinio fino a Piergiorgio Bellocchio, una galleria di personaggi eretici che hanno segnato la cultura italiana. Con una prefazione di Goffredo Fofi.Matteo Marchesini è nato a Castelfranco Emilia e vive a Bologna. Tra il 1999 e il 2003 ha gestito una libreria specializzata in letteratura italiana contemporanea a San Giovanni in Persiceto e dal 1998 è redattore dell'Annuario di poesia curato da Giorgio Manacorda e Paolo Febbraro. Già autore di libri per ragazzi, nel 2005 ha pubblicato la raccolta di racconti Le donne spariscono in silenzio (Pendragon), vincitrice del premio Iceberg, nel 2006, il ritratto-guida Perdersi a Bologna (Edizioni Interculturali) e nel 2009 i versi di Marcia nuziale (Scheiwiller). Collabora a "Il Foglio", al "Il Sole 24ore" e alle pagine bolognesi del "Corriere della Sera".

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Informazioni

DIALETTICA E PAZIENZA sui Dieci inverni di Franco Fortini

I. FUTURO CONTRO PRESENTE
Per arrivare subito al cuore di Dieci inverni, la prima e forse la più intensa raccolta saggistica di Franco Fortini uscita da Feltrinelli nel 1957, basta fermarsi alle tre epigrafi collocate in esergo.
In una, l’autore ci avvisa che qui troveremo pagine «composte, come si fa con le vittime di una qualche sciagura»; le altre due sono brevi citazioni che definiscono già il tema su cui insiste quasi ogni riga del libro, e in qualche modo tutta l’opera di Fortini.
La prima citazione: «Qui ne la ressent pas profondément, cette haine du présent, n’a pas vraiment l’amour de l’avenir» (Évariste Galois).
La seconda: «La pensée de l’avenir est une tentation fine et dangereuse de l’ennemy, contraire à l’Evangile, et capable de tout perdre...» (Martin de Barcos).
Fortini non è autore che lasci scivolare a poco a poco il lettore all’interno del suo discorso: mette immediatamente le mani avanti, in modo epigrammatico e definitivo. Come un altro grande saggista ebreo del nostro Novecento, Giacomo Debenedetti, anche lui ha bisogno di dichiarare con esattezza gli estremi del proprio passaporto: ma se in Debenedetti questo bisogno sfocia in sinuose arringhe difensive, quasi sempre costruite attorno alla metafora ansiosa del documento da esibire, in Fortini si rapprende subito in una lapide dal colore oscuro scolpita all’entrata del suo inferno. Poi, certo, sistemato bene in vista l’avviso perentorio, ecco che l’autore arretra, macera il tema, complica labirinticamente il metabolismo argomentativo; per ritornare magari in clausola al colpo secco della ghigliottina aforistica. Ma intanto, appunto, s’è garantito con la lapide.
Nel caso, per questo primo bilancio della propria biografia intellettuale ha convocato a testimoni un genio matematico che bruciò tutta la sua esperienza in vent’anni e in una notte (come Carlo Michelstaedter, altra lettura giovanile sia di Fortini sia di Debenedetti) e un polemico teologo giansenista. L’accostamento delle due contraddittorie citazioni serve a evocare subito davanti al lettore il demone che anima le pagine seguenti: quello di una Dialettica calata fin nelle minime pieghe della Storia. Da una parte, ci ammonisce il ventriloquo Fortini, bisogna odiare il presente e amare l’avvenire. Ma dall’altra parte questo amore è una tentazione diabolica che ci può perdere - perché è sempre qui e ora, e non nel ricatto di un futuro governato da forze a noi estranee, che dobbiamo pensare le cose a fondo e responsabilmente agire. Lungo tutto il libro, questa doppia istanza viene replicata in un dribbling dialettico e polemico che occupa perfino le più microscopiche molecole delle note; e diventa il termometro con cui l’autore misura tanto la politica dei partiti marxisti di cui si considera militante, quanto la cultura e l’arte passate o presenti.
Ma nella scelta delle citazioni c’è uno scarto rivelatore in più. Per introdurre a un’ambientazione storica hegelo-marxista, Fortini sceglie paradossalmente di rappresentarne i punti cardinali con le discipline più astoriche e idealistiche del mondo: la matematica e la teologia.
*
Il terreno su cui questa doppia istanza chiede d’esser declinata nel modo più concreto è ovviamente quello politico.
L’autore di Dieci inverni fa i conti con un Novecento che ha già alle spalle più di trent’anni di rivoluzione russa e un ventennio d’involuzione nazionalista, progressista e staliniana del comunismo, a partire almeno dagli anni Trenta della guerra spagnola, del frontismo e dei processi di Mosca. Davanti all’interminabile teoria di cadaveri che questa storia ha stipato nei suoi giganteschi quadri viventi, Fortini rifiuta ogni cinica alzata di spalle; ma con un gesto ancora più marcato rifiuta anche d’invocare improbabili e virtuiste palingenesi. Ciò che religiosamente non smette mai di chiedere è “solo” che tutto questo orrore venga pubblicamente vagliato, che rimanga presente in ogni dettaglio alle coscienze, che non sia rimosso. Come il Merleau-Ponty di Umanismo e terrore (1947), l’autore di Dieci inverni crede che perché la violenza non si perpetui occorra guardarla in faccia. Per lui il vero peccato originale della dittatura burocratica sovietica non è la prassi sanguinosa ma la sua maschera giuridica, borghese, atemporale: ossia la sua mistificazione, dovuta al rifiuto di pensare e agire insieme, nello stesso tempo, davanti alle assemblee popolari. «Possiamo accettare che ci vengano richieste sofferenze, fame e morte per il raggiungimento di un fine che è esterno a noi», scrive Fortini, «ma non potremo accettare le sofferenze senza la verità» (né rimandare la ricerca della verità a portata di mano, poiché il tempo biologico costringe a rapide scelte coloro che non la sanno, che non potranno mai saperla intera).
Quindi la capillare e agghiacciante violenza del comunismo incarnato si può perfino digerire: ma a patto che non le si tolga il nitore della tragedia, che se ne continui a percepire l’inaccettabilità. La sua condizione d’uso sta nel rimetterla ogni giorno in gioco davanti agli organismi pubblici, e nel verificare i risultati della «dittatura proletaria» dentro l’orizzonte temporale di una vita umana: perché quando le prospettive si dilatano fino a lasciar sfumare le possibilità di mutamento bisogna difendere perfino le vecchie garanzie costiituzionali, le sempre insufficienti libertà individuali borghesi – pena la resa a un dominio acefalo, eteronomo, incontrollato. La dialettica deve rimanere leggibile, o la speranza si muta in fede, Marx in Hegel, la Storia nel Giudizio Universale ex post, l’interesse concreto in un supposto interesse permanente che è nascosto nella coscienza dei capi e da cui i militanti sono tagliati fuori, mutilati nella loro personalità da un nuovo Leviatano.
Insomma: guai ad accontentarsi del presente, ma anche guai a eluderlo, a consegnarsi mani e piedi legati a un qualche idolo. Questa è la tensione che segna e segnerà sempre ogni riflessione di Fortini su qualunque argomento: l’inesausto odio dello stato di cose presente - o a volte, pare, il dovere dell’odio – ingaggia in lui un’inesausta lotta contro la cura della vita quotidiana.
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Ma da quale luogo ci parla questo intellettuale che fa la spola senza sosta tra passato, presente e futuro? Da dove ha ereditato la sua dialettica estenuante? Chi è, insomma, e chi è stato finora il Fortini del 1957?
Abbiamo di fronte un letterato di famiglia cattolico-ebraica e piccolo-borghese, nato nel 1917 col cognome Lattes e cresciuto nella Firenze del fascismo. Battezzato valdese nel ‘39, maturato attraverso la polemica antiermetica e antivirtuista della «Riforma Letteraria» di Giacomo Noventa, Fortini si rifugiò dopo l’armistizio a Zurigo, e in seguito visse il tramonto di quella fragile utopia di guerra che fu la repubblica partigiana dell’Ossola (in queste terre di confine conobbe molti degli intellettuali con cui poi continuò a dialogare per decenni).
Alla vigilia dei Dieci inverni, l’ex letterato fiorentino era un giovane uomo uscito dalla guerra religioso e marxista; un uomo sbalzato nella Milano sporca di rabbia e piombo, di sirene e di giornali, descritta nelle poesie di Foglio di via (1946) e sul «Politecnico» di Elio Vittorini. Mentre s’irrigidivano gli equilibri della guerra fredda, sostò brevemente nella cittadella umanistico-funzionale di Adriano Olivetti, e masticò l’amara politica di base nel Psi fino al trauma del ‘56, alle speranze del XX congresso e alle disillusioni di Budapest. Nel frattempo iniziava a tradurre alcuni eccezionali autori moderni (gli anni di Dieci inverni sono anche quelli del lavoro sulle pagine di Eluard, Brecht, Proust, Kierkegaard, Weil) e a intervenire sulle riviste e i giornali più influenti ma anche più diversi della sinistra: oltre al «Politecnico» «Comunità», «Nuovi Argomenti», «l’Avanti!», e poi «Discussioni», «Ragionamenti», «Officina»...
Questo Fortini divenne presto un instancabile animatore di gruppi intellettuali, un tessitore di esili e sempre deluse trame collettive, che durante gli anni Cinquanta arrivarono a lambire anche la Francia (i contatti con Morin, con Barthes). Ma soprattutto si conquistò presto una prosa da robusto saggista, avendo letto e tempestivamente assimilato le speculari lezioni di Lukács e Adorno (anche grazie all’amico Renato Solmi, di cui in Dieci inverni si sente echeggiare la voce lucida e cortese come dalla buca del suggeritore).
Infine, il Fortini del ‘57 è un quarantenne che sente ormai chiusa per sempre una stagione della propria vita: un intellettuale che, pur rigettando con sdegno le compiaciute identificazioni di storia individuale e storia collettiva, non sa mai rinunciare del tutto al pathos del reduce.
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Il libro, infatti, inizia col lungo pezzo retrospettivo Il senno di poi, dove il racconto biografico-elegiaco ci conduce subito davanti allo sfondo grigio, scheletrico e invernale con cui è preparata la tela di questi saggi. In poche righe, con un tipico movimento fortiniano, si passa dal campo lungo della guerra fredda al freddo d’un terrazzo milanese. Tra la neve, l’autore va a prendere carbone per la stufa - la combustione è una sua metafora ricorrente - mentre tutt’intorno avanza l’Italia della «stanchezza coloniale», rovescio della prima euforia del boom.
Qui le speranze sconfitte della giovinezza vengono enunciate trapiantando subito nel discorso la cellula dialettica delle epigrafi iniziali. Nell’immediato dopoguerra, annota Fortini, si voleva formare un frammento di società nuova, si voleva inventare un modo nuovo di stare collettivamente insieme; e «l’immagine del futuro di giustizia e di benessere nel socialismo doveva essere illuminata solo nella misura in cui fosse necessaria ad un comportamento che assicurasse indirettamente al presente una respirazione più umana e quasi l’allegoria, e l’anticipo, d’una umanità meno deformata; d’una felicità».
Ma ora quella storia è finita, almeno nei termini in cui si tentava d’interpretarla fino al fatidico ‘56. Si è arenata la cultura prodotta dal trauma della Resistenza; e sarà compito del libro indicarne quasi giorno per giorno le ragioni, come in un’autopsia che è anche una spietata autoanalisi.
*
Dopo questo bilancio ex post si delinea lo spartiacque delle sezioni di Dieci inverni, che con alcuni intermezzi sarà riproposto anche nelle successive raccolte saggistiche fortiniane: da una parte il «discorso indiretto» sulle istituzioni letterarie e culturali, dall’altra il «discorso diretto» sulle istituzioni sociali e politiche.
L’unità di misura degli eventi resta sempre lo stesso termometro tarato sulle lapidi d’avvio: uno strumento chiamato a rivelare ogni volta, millimetricamente, quanto venga rispettata l’istanza del «qui e ora», e quanto quella che invoca il cambiamento a lungo termine.
Già nella discussione delle opere letterarie, questa dialettica si definisce presto come iato tra urgenza anarchica e sol dell’avvenire comunista (si veda, a questo proposito, la concisa analisi dei personaggi contrapposti di Nikolàj e Cekmèn nel brano dedicato al romanzo di Nekrasov). Come ribadirà poi sempre, e in particolare nelle pagine più intense di Questioni di frontiera (1977), Fortini avvisa qui che il comunismo non può rimuovere l’istanza tragica dell’anarchico senza ridursi a una inumana forma di stoicismo. Ma al tempo stesso, l’anarchico non può rimuovere la Storia senza arrendersi al “sempre uguale”. E’ quello che capita ad esempio al Camus dell’Uomo in rivolta, il libro del 1951 che costò allo scrittore algerino la rottura con Sartre, e che per Fortini è insieme un ghiotto bersaglio e una dolorosa spina. In un appassionato esame del testo - versione meno compatta e assai più vulnerabile dell’apodittico, poetico Mito di Sisifo - l’autore di Dieci inverni nota che non vi si parla mai del contenuto storico di questa «rivolta» destinata a bruciare in una fiammata istantanea, e opposta da Camus alla sclerotizzazione inevitabile delle rivoluzioni. Non se ne parla, osserva Fortini, quasi che il suo contenuto fosse irrilevante: ma se questo è il nucleo teorico, come si può poi pretendere di criticare con rigore la Storia e la Politica, mentre si decide d’ignorarne i dati concreti e si finge l’esistenza di un carattere umano atemporale? Il critico aggiunge che il libro di Camus servirà, magari involontariamente, «a fornire qualche dozzina di mezze verità alla impaziente debolezza teorica di intellettuali preoccupati di far perdonare, col loro vago anticomunismo di oggi, il vago lor comunismo di ieri». Di fronte alla violenza, infatti, il «moto primo» dell’autore «non è la carità, è l’astensione». Camus vuole che gli uomini rinuncino alla divinità personale, senza però proporne una soprumana. Ma così, rileva Fortini, poiché l’Altro non viene riconosciuto né nell’estraneazione marxista né nella filiale relazione cristiana, finisce per esistere soltanto il lampeggiare di una coscienza soggettiva che non può non portare all’atto gratuito. In realtà, per il nostro saggista invernale è imp...

Indice dei contenuti

  1. Questo libro
  2. Nota introduttiva
  3. Premessa
  4. LE IDEE TASCABILI
  5. SAVER DE NO’ ESSER GNENTE
  6. DIALETTICA E PAZIENZA sui Dieci inverni di Franco Fortini
  7. GADDIANO E CLASSICISTA
  8. UN INGLESE A PIACENZA