L'Uzbekistan di Alessandro Magno
eBook - ePub

L'Uzbekistan di Alessandro Magno

  1. 416 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

L'Uzbekistan di Alessandro Magno

Informazioni su questo libro

«Un Uzbekistan da rileggere e da interpretare di continuo, che non si conosce mai abbastanza. È un libro al quale, dopo averlo letto, si amerà tornare ancora e ancora per apprezzarne aspetti sempre nuovi. Come le cupole turchesi di Samarcanda che cambiano di colore col mutar del cielo» Franco CardiniIL LIBRO: L'Alessandro Magno che affiora da questo libro è molto distante dall'immagine oleografica veicolata dalle tante opere, spesso pseudostoriche, scritte su di lui. È un viaggio in Uzbekistan alla ricerca dei luoghi del tempo e della memoria dove la storia di Alessandro sfuma nel mito. Dalla congiunzione di una conoscenza accurata delle fonti più antiche (Arriano, Curzio, Plutarco) e di una non comune sensibilità analitica, emerge da queste pagine il personaggio storico del conquistatore nella sua prospettiva umana più attendibile. L'eroe invincibile immortalato nei marmi di Lisippo cede il passo all'ubriacone omicida, al borioso, al superstizioso e cinico sterminatore di popoli. Ma con i difetti dell'uomo si profila anche il volto più autentico di un nuovo Ulisse che vuole conoscere per possedere, sognatore tenace, unificatore di genti. Questo viaggio, sulle tracce del Grande Condottiero, si snoda da Samarcanda luogo di fiaba, a Khiva dalle sabbie dorate, dalla ferace Valle di Fergana, alla scintillante Tashkent affamata di futuro, un Paese che guarda al suo divenire, forte delle tradizioni culturali e scientifiche di una civiltà plurimillenaria che ha dato al mondo grandi pensatori come Avicenna, Averroè, Al-Biruni, Ulugbek…

Domande frequenti

Sì, puoi annullare l'abbonamento in qualsiasi momento dalla sezione Abbonamento nelle impostazioni del tuo account sul sito web di Perlego. L'abbonamento rimarrà attivo fino alla fine del periodo di fatturazione in corso. Scopri come annullare l'abbonamento.
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Perlego offre due piani: Base e Completo
  • Base è ideale per studenti e professionisti che amano esplorare un’ampia varietà di argomenti. Accedi alla Biblioteca Base con oltre 800.000 titoli affidabili e best-seller in business, crescita personale e discipline umanistiche. Include tempo di lettura illimitato e voce Read Aloud standard.
  • Completo: Perfetto per studenti avanzati e ricercatori che necessitano di accesso completo e senza restrizioni. Sblocca oltre 1,4 milioni di libri in centinaia di argomenti, inclusi titoli accademici e specializzati. Il piano Completo include anche funzionalità avanzate come Premium Read Aloud e Research Assistant.
Entrambi i piani sono disponibili con cicli di fatturazione mensili, ogni 4 mesi o annuali.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì! Puoi usare l’app Perlego sia su dispositivi iOS che Android per leggere in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo — anche offline. Perfetta per i tragitti o quando sei in movimento.
Nota che non possiamo supportare dispositivi con iOS 13 o Android 7 o versioni precedenti. Scopri di più sull’utilizzo dell’app.
Sì, puoi accedere a L'Uzbekistan di Alessandro Magno di Vittorio Russo in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Storia e Storia dell'antica Grecia. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

PARTE QUINTA
Verso Derbent
Porte di ferro è un nome consueto la cui nozione si applica a una geografia euroasiatica vastissima. Designa normalmente passaggi obbligati in territori impervi e su grandi vie di comunicazione che si ritenevano facilmente difendibili. Le Porte di ferro attraverso cui stiamo passando noi sono note con il nome di Temir darvoza. Giocando sulle parole, questa espressione è traducibile sia con porte di ferro che con porte di Tamerlano.
È certo che la complessa morfologia del territorio e la quasi inaccessibilità dei passaggi, sono la ragione dell’esistenza della cittadina poco distante di Derbent. Il suo nome richiama nel significato il concetto di sbarramento e di passaggio stretto. Protetta da questa impervia morfologia, essa sorge in una posizione cruciale da cui sorveglia ogni passo.
Superate le Porte di ferro, percorriamo una gola nota con il nome di buzghala-khana, ovvero casa della capra. Si trova a una decina di chilometri a Ovest di Derbent. Essa corre tortuosa per lunghissimi tratti diventando sempre più sconnessa e ghiaiosa. Si torce come le spire di un pitone screziato e si flette per sprofondare nascosta alla vista per centinaia di metri. La sovrastano due muraglie quasi a perpendicolo sulla strada slabbrata che a un certo punto si restringe di colpo forse anche per via dell’effetto ottico dovuto alle coste ripide dei monti. I fianchi scoscesi del canyon s’inaspriscono in un colore smorto e formano a poca altezza dalla strada strettissima arcate di rocce in strati spessi che sembrano volerci franare addosso. Un vento improvviso infuria all’esterno senza rumore strappando sbuffi di neve dalle rocce e sibilando appena dalle invisibili fessure del finestrino.
Passiamo come se lo facessimo di nascosto in un silenzio ovattato, quasi per non destare gli spiriti celati nelle balze. Un’ansia irragionevole mi serra la gola, come una spina di cui invano cerco di liberare la ragione. Ho la sensazione di essere osservato da occhi nascosti fissi su di noi, che ci scrutano, che seguono il nostro passaggio, e di mani adunche pronte a ghermirci alla svolta del prossimo tornante: sono forse gli spiriti assopiti nelle balze.
Respiro in maniera sonora quando, superata la gola, entriamo in una vallata incassata fra rilievi accidentati e attraversata da un fiumiciattolo dalle acque trasparenti, lo Shorab. Ne scorgo il corso per un attimo, poi lo vedo scomparire e sprofondare in una frattura carsica a Sud della valle. Proseguiamo attraverso un altro canyon. Intravedo in alto la linea di una muraglia color cenere. Si snoda sulle creste più elevate per chiudere come una cerniera la cerchia della vallata tagliata dalla strada che stiamo percorrendo. È la linea superba di quelle difese di rocce e di terra su cui sorgevano le cittadelle sogdiane evocate dagli autori antichi.
Proprio per via della sua posizione, Derbent (significa gola stretta) ha svolto nel corso dei secoli un particolare ruolo strategico ed economico in quest’area geografica. Battriani e sogdiani qui si attestarono per fermare l’avanzata di Alessandro diretto a Nord, verso Maracanda. In epoca ellenistica, sotto uno dei successori di Seleuco, lungo il profilo delle alture fu consolidata la muraglia artificiale con mattoni crudi e rocce della quale mi pare di scorgere le ultime tracce. Si rese necessario aggiungere a crepacci e a gole ingannevoli questa ulteriore barriera contro gli invasori sciti delle steppe al di là dello Jassarte per rendere ancora meglio difendibile tutta la regione.
Passiamo all’altezza di Shorab, il minuscolo villaggio che precede Derbent; prossimo alla frontiera turkmena, a Ovest, e afgana, a Meridione. È niente più che una borgata offuscata dalla polvere che si leva da un cementificio e costruisce immagini di luce: qualche albero smunto e macchie verde giada qua e là. Sorge oltre l’alveo quasi inaridito di un torrente. Poco oltre c’è una curva a gomito che piega la strada in direzione di Derbent. Le poche case sono disseminate senza ordine fra capannoni e recinti, quasi all’ombra di una montagna più a Meridione lucente come un blocco di ghiaccio. Sui suoi declivi risaltano crinali arditi e scoscendimenti schizzati irregolarmente. Ricordano il vello di un montone tosato male.
Sulla strada principale di Shorab, ma forse è improprio chiamarla strada frastagliata com’è e priva di bordi e smagliata, si affacciano abitazioni di fango rosso disseccato e porte costruite con umili assi male inchiodate. Più avanti, oltre il marciapiede di terra battuta, sporgono tettoie sostenute da colonnati di legno scolorito.
Il sole passa spaurito fra le nubi. Ci fermiamo. Ho bisogno di sgranchire le gambe e Jamil non meno di me.
Sotto una delle tettoie, un gruppo di vecchi gioca a shesh-besh, una variante del più noto backgammon e del gioco turco che qui chiamano tavla. Solo per un attimo i vecchi ruotano lo sguardo verso di noi, raddrizzandosi sulla schiena e lasciandosi distrarre dall’ansare della Lada. Hanno volti scavati da riflessioni prolungate e denti asimmetrici. Uno di essi, lungo come un cero pasquale, ci segue con occhi attenti, arriccia il naso e ruota la testa mostrando le vaste orecchie rosee e trasparenti come ali di pipistrello.
Sul marciapiede opposto, oltre una fila di campanule, sostano alcuni asini distesi, infiacchiti sotto il peso dei basti non rimossi. Bambini dai volti chiari e gli occhi lucenti si tirano sassi e ridono in un turbinio di mani eccitate come voli di farfalle. Mi osservano incuriositi, mi sorridono, qualcuno più intraprendente tira fuori la lingua, subito imitato dagli altri. È un segno di saluto, spiega Jamil. Come fanno i tibetani. Uno fra gli altri più vivace, piccolo e infagottato, ha gli occhi dalle pupille ladre, rissose, come quelli di Franti, l’infame del libro Cuore. Lo seguo mentre si china per raccogliere qualcosa, un sasso, forse per riprendere il gioco, o per tirarmelo. Lo vedo rialzarsi e offrirmelo sul palmo aperto della mano. Sì, è un sassolino ma trasparente, di color granato. Forse un frammento di vetro consumato dall’abrasione. Diventa mansueto di colpo il suo volto piccino e si schiude in un sorriso non più infame. Di colpo svanisce pure la foga rissosa nel suo sguardo e nel mio giudizio sfuma la perfidia del personaggio cui l’avevo associato. Svanisce soprattutto l’umiltà dei suoi panni e la povertà intorno. Svanisce l’immondizia e tutta la bruttezza di questo posto. Di colpo si fa tesoro di scrigno la sensibilità innata di questa creaturina che giudica una scheggia di bottiglia degna di essere porta in dono. Raccolta fra tante, essa diventa definitivamente preziosa nella mia mano.
Proseguiamo verso Levante.
Sono quasi le 10 del mattino e il cielo è immobile nel suo grigiore. L’attraversano i voli diagonali e lontani dei gipeti dal petto fulvo, gli avvoltoi di qui. Con tagli neri delle ali vagano senza meta come spazzati dal vento di quota. È un ambiente, questo, che ispira tristezza, forse per il colore metallico delle pareti rocciose, umide e sfavillanti di una luce appuntita. O forse è una tristezza ispirata dal silenzio bianco dei campi di cotone brevi e irregolari che ci hanno accompagnato per lunghi tratti fin dalla partenza da Bukhara. A essi sono seguiti i campi innevati che da un centinaio di chilometri ci camminano accanto ora con poche interruzioni.
In una parte del cielo un massiccio squarcio di luce rompe le nubi e cade obliquo e acuminato. In un’altra una pioggia grigia corre verso le onde di un oceano di nubi più basse e richiama i versi di Lorca.
«Lilith, la prima moglie di Adamo, pettina il demone da cui nasceranno i suoi jinn» commenta Jamil. «Qui diciamo così quando piove da una parte del cielo e dall’altra spunta il sole». Poi d’istinto si lecca il palmo della mano e se lo passa sui capelli.
Sorrido rammentando che anche da noi c’è una vecchia credenza secondo la quale quando piove e c’è contemporaneamente il sole si dice che le streghe si pettinano. E chissà che la storia non sia mutuata da remote e comuni tradizioni islamiche.
Intanto ho brividi che non sono impressioni ma sintomi. Avvicino a coppa le mani al volto e vi soffio il fiato caldo per riscaldarle. Non basta. Fa proprio freddo mentre fuori il vento non smette di stemperare lungo le pareti rocciose folate di foschia come zucchero filato, neve come polvere e spruzzi gelati. Questi sembrano cadere dall’alto alla stregua di una pioggia di fuliggine bianca o di uno spettacolare fuoco di artificio capovolto. È come quando in volo il muso dell’aereo s’inabissa nel candore spesso e molle delle nubi. Allora ti senti avvolto da un vapore scintillante, soffice come uno scialle reale di alpaca. Fin quando fra brandelli di nubi opaline, poi rosee, poi porporine, si profila il verde della terra e bruna nei riquadri regolari tagliati da solchi di aratro.
Quasi mi rifiuto di crederlo. Dopo aver attraversato la piana desertica per circa 200 chilometri tra Bukhara e Guzar, torrida e slavata come un tappeto vecchio, ci attende ora, repentino, questa specie di gelo paralizzante. Devo riconoscere che l’Uzbekistan è il paese degli squilibri meteorologici più imprevedibili. Continuo a tenere aperto di un dito il finestrino con sicuro disappunto di Jamil che però non si lamenta. Appoggio la fronte sulla superficie fredda, ma mi ritraggo di scatto per la sensazione di gelo. Mi riavvicino. Voglio scrutare nei ghirigori dei colori della natura di qui, senza filtri; voglio saggiare gli odori delle pietre, della bruma, del muschio azzurrognolo sulle rocce e sentire in ogni cosa l’impronta intera delle costruzioni fatte per l’eternità. Perché tra questi silenzi innevati se ne colgono le tracce inconfondibili. Il petto si gonfia di eccitazione e la mente di pensieri.
Non vi sono segni di presenze umane su questo percorso, nessuna testimonianza passata, nessun vestigio che dica di scontri, di stragi. Nulla. Eppure, quello che coglie la vista è lo stesso paesaggio immobile e indifferente che vide il passaggio di falangi macedoni inseguitrici. Queste gole scavate dalla fatica delle ere e le lastre di roccia stratificate, hanno riflesso l’eco delle kopis, le spade ricurve dei soldati di Alessandro. Venivano battute sugli scudi per spaventare i sogdiani nascosti tra gli anfratti e pronti alla sorpresa. Il silenzio che il freddo rende ancora più efficace, è quasi sonoro. Ha la solennità delle cose pure. Ora raccoglie il mio respiro ansioso come allora raccolse quello affannoso di terrore di guerrieri inseguiti o il rantolo di morte di quelli raggiunti da un colpo di sarissa…
A mano a mano che l’auto si arrampica su per i pendii, l’aria si assottiglia e il cielo si fa inaspettatamente trasparente come un vetro bagnato.
E poi finalmente raggiungiamo un’assonnata Derbent.
La casa di Roxane
Derbent è poco più di un villaggio. Sul ciglio della strada torreggiano noci selvatici e platani dalle foglie smorte.
Qui, secondo una tradizione locale, sarebbe nata Roxane.
Il mercato del villaggio è un sorprendente impatto con odori euforizzanti e con lo schiaffo accecante dei colori violenti di stoffe, di abiti di velluto, di derrate, di spezie e di scintille d’argento di coltelli propri dell’artigianato di qui. Il brusio tipico dei mercati qui è attutito dall’aria vaporosa del fumo che si solleva dai forni ambulanti.
Jamil chiede informazioni sull’ubicazione della casa natale di Roxane. Lo fa forse malvolentieri; non crede che esista una casa della principessa, ammesso che sia nata qui.
Insisto sorridendo.
«Non importa che Roxane sia nata qui o no,» provo a convincerlo «importa solo crederlo. Importa che una leggenda lo affermi per dare la stura alla fantasia creatrice della gente. La cosa più facile che le persone sanno fare è di assecondare i “si dice” per dar corpo alle leggende. Sì, perché la leggenda è un fatto di convenienza: attira viaggiatori, curiosi, sognatori e questo genera pubblicità, profitto e vantaggi per tutti, soprattutto per i piccoli venditori di ninnoli ricordo».
Non mi sbaglio. La casa di Roxane esiste. O meglio, è stata inventata. Ne abbiamo conferma subito da un ragazzetto che per qualche som si presta di accompagnarci.
Divento di colpo viaggiatore curioso e sognatore come alla ricerca di un favoloso paese della cannella. Mi piace per un attimo tuffarmi in questa astrattezza. Mi piace convincermi che c’è una casa natale di Roxane qui, e che qui lei visse la sua infanzia. Mi piace credere che queste stesse strade naturali lei attraversò adolescente e quest’aria briosa respirò come me, fra i banchi del mercato, saltellando tra i rivoletti di acqua fangosa fra le lastre di granito della via. E mi piace credere che quelle valli incassate tra i ripidi versanti delle alture che ci sovrastano, lei valicò con la fantasia dei suoi giovani anni. Così, fino al suo risveglio nella violenza della vita di Alessandro che facendola sua sposa, la fece pure vittima del suo destino.
La casa di Roxane è a pochi passi dal luogo dove abbiamo parcheggiato l’auto. Giro intorno lo sguardo. È uno spazio che sembra un disegno approssimativo. Tutto è essenziale nella conca naturale dove si trova la dimora. Perfino i colori sono semplici e sfumati, quasi filtrati da una luce filigranata. Non c’è nulla che meriti attenzione nella costruzione di pietra viva. Il luogo ricorda un rifugio montano e forse lo è. È una sorta di tumulo di rocce levigate tra le cui connessure cresce spesso e verdissimo il muschio con ciuffetti filamentosi color viola e piccoli frutti oblunghi come cucunci di cappero. Qui, davanti a queste pietre della leggendaria abitazione di una figura semileggendaria, secondo le prescrizioni del mazdeismo, avrebbero avuto luogo gli arcaici riti di purificazione connessi con la cerimonia nuziale. Qui, a piedi nudi, gli sposi avrebbero girato tre volte intorno al fuoco sacro. Così fanno ancora oggi le giovani coppie: lei fra le braccia del compagno, prima di varcare la soglia della casa dove vivranno. Ma i rituali dei nostri giorni non hanno più intento sacro ma solo finalità di scongiuro.
Devo immaginare un gruppo di turisti che davanti a queste pietre ascoltano con rigorosa attenzione le aspre spiegazioni in tedesco di un cicerone barbuto. Immagino di ascoltare curioso io pure ...

Indice dei contenuti

  1. COVER
  2. OCCHIELLO
  3. FRONTESPIZIO
  4. PREFAZIONE
  5. PARTE PRIMA
  6. PARTE SECONDA
  7. PARTE TERZA
  8. PARTE QUARTA
  9. PARTE QUINTA
  10. PARTE SESTA
  11. RINGRAZIAMENTI
  12. NOTE SULLA TRASLITTERAZIONE
  13. NOTA SULLE FONTI BIBLIOGRAFICHE
  14. COLLANA ZIG ZAG