Il mito del califfato
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Il mito del califfato

Le radici indiane dell'Isis

  1. 204 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Il mito del califfato

Le radici indiane dell'Isis

Informazioni su questo libro

«Esiste un diffuso equivoco secondo cui le fonti dell'islamismo radicale nascono in Medio Oriente, cioè in Israele e Palestina. In realtà ciò non è vero. Il subcontinente indiano è altrettanto responsabile per l'islamismo radicale quanto il Medio Oriente, in particolare grazie ad un uomo largamente ignorato dall'Occidente: Maulana Maududi»Philip Jenkins, storico delle religioniIL LIBRO: Nato nel cuore della guerra ad al-Qaeda in Medio Oriente, l'Isis poggia le sue fondamenta ideologiche molto più lontano, fuori dalle zone del conflitto. Per comprendere gli obiettivi, le leggi e la "morale" del sedicente "Stato islamico" bisogna seguire un percorso storico e geografico a ritroso, che dalle terre di bin Laden e dei talebani porta all'India britannica di metà Novecento e a Maududi, teologo indo-pakistano a lungo ignorato in Occidente. Dietro le molteplici forme del terrorismo vi sono decenni di lotte religiose, personalismi, scismi politici ed errate interpretazioni coraniche: questo libro vuole darne una lettura quanto più fedele e realistica svelando, con abbondanza di fonti e testimonianze, cosa si nasconde dietro il folle mito del "califfato" e rivelando le origini indiane del fondamentalismo islamico.L'AUTORE: Giovanni Bensi (1938-2016) giornalista italiano, esperto di questioni storico-religiose dello spazio sovietico e postsovietico. Ha studiato Lingua e letteratura russa sia a Venezia che a Mosca, ed è stata una delle voci più autorevoli dell'emittente statunitense in lingua russa Radio Svoboda, per la quale ha lavorato a lungo anche da Peshawar. Nella città pakistana, retrovia della lotta antisovietica in Afghanistan, è stato testimone della nascita dei talebani. Ha scritto per il quotidiano russo Nezavisimaja Gazeta e per Avvenire ed è stato autore di saggistica, con opere quali Allah contro Gorbaciov (Reverdito, 1988), La Cecenia e la polveriera del Caucaso (Nicolodi, 2005), e pregevoli studi pubblicati da CSSEO come I Taliban: storia e ideologia (2001). Con la casa editrice Sandro Teti Editore ha pubblicato il libro Le religioni dell'Azerbaigian (2012).

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Informazioni

III. STUDENTI SPROVVEDUTI E CATTIVI MAESTRI
A questo punto occorre spiegare che cosa significhi taliban. Questo termine viene dalla parola araba talib che ha un doppio significato: da un lato “studente”, dall’altro “colui che cerca” che “chiede” qualcosa, che “tende” a qualcosa. È necessario tenere presente questa distinzione per capire il valore specifico, anche sul piano storico, che ha questa parola nel linguaggio del movimento che conquistò quasi tutto l’Afghanistan e che, dopo il fallimento dell’impresa anglo-americana (e internazionale) sta tornando allo scoperto. Si noti in particolare che i vocaboli arabi possono avere nelle lingue degli altri paesi islamici connotazioni morfologiche diverse. Così il plurale arabo di talib è talabat (o talabah, anche tulabah, spesso usato in Pakistan), ma nell’area musulmana di cultura iranica, quali sono l’Afghanistan, l’Asia Centrale e lo stesso subcontinente indo-pakistano, si preferisce aggiungere alla parola araba la desinenza persiana del plurale per i nomi indicanti esseri animati -an: abbiamo così taliban, “studenti”, o “cercatori” di qualcosa. Il valore politico del termine taliban si riferisce in realtà a questo secondo significato che fu introdotto per la prima volta negli anni Trenta del XX secolo dal filosofo e teologo musulmano indiano Abu l-A’la Maududi nell’espressione taliban-i ghayat, “coloro che tendono all’estremo”. Egli indicava con questo termine la classe dirigente dello “Stato islamico” ideale da lui progettato e che serve da modello ai taliban afghani. Costoro infatti usano spesso l’espressione coniata da Maududi per designare sé stessi, ricorrendo anche a variazioni, come taliban-i haq (“coloro che tendono alla verità”, o “alla giustizia”), o taliban-i ma’rifat ul-lah (“cercatori della conoscenza di Allah”). Maududi incominciò presto a svolgere attività politica, preoccupato soprattutto della sorte che avrebbe atteso la parte musulmana della popolazione dell’India di fronte alla preponderanza hindu della popolazione, specialmente in vista della dipartita degli inglesi una volta conclusa la Seconda guerra mondiale. Mosso da questi pensieri, nel 1941 Maududi fondò la Jama’at-i Islami (“Comunità islamica”) nell’allora India britannica, reggendola come un movimento politico-religioso col fine di promuovere i valori e le pratiche dell’islam nel mare dell’induismo. Dopo la spartizione dell’India, la Jama’at-i Islami si ricollocò nel panorama del nuovo Stato del Pakistan, nato nel 1947, che Maududi auspicava assumesse un volto decisamente più legato all’islam di quanto non si proponessero invece i suoi padri fondatori, Muhammad Ali Jinnah e Liaquat Ali Khan. La “Comunità islamica” è il più antico partito religioso del Pakistan; con la spartizione del subcontinente indiano, si divise in numerosi gruppi. L’organizzazione guidata da Maududi prese il nome di Jama’at-i Islami Pakistan. Esistono anche la Jama’at-i Islami Hind, la Jama’at-i Islami Bangladesh e gruppi autonomi nel Kashmir indiano, come pure in Sri Lanka. Maududi fu eletto primo amir (lett. “comandante”, ma qui nel senso di “guida, presidente”) della Jama’at-i Islami e conservò tale carica fino al 1972, allorché lasciò tale responsabilità per motivi di salute.
Maududi e la sua Jama’at-i Islami hanno esercitato una notevole influenza sui movimenti islamisti contemporanei, dai “Fratelli musulmani”, attraverso Sayyid Qutb, fino ai taliban afghani e ad al-Qa’idah. Fu Maududi, fra l’altro, a mettere in circolazione termini oggi correnti negli ambienti islamisti, quali “movimento islamico” (harakat-i islami, tehrik-i islami), “politica islamica” (siyasat-i islami), “sistema di vita islamico” (islami nizam-i hayat) e altri. Yoginder Sikand scrive: «La Jama’at-i Islami è oggi di gran lunga il più influente movimento islamico nel mondo, particolarmente forte nei paesi dell’Asia meridionale. La sua influenza si estende molto al di là dei confini del subcontinente indo-pakistano, e gli scritti dei suoi principali ideologi hanno esercitato un possente impatto sul pensiero musulmano contemporaneo in tutto il mondo»1.
È il caso, in particolare, di dire qualcosa sull’influenza che gli insegnamenti di Maududi hanno esercitato sul movimento dei taliban che governarono l’Afghanistan dal 1996-97 al 2001, quando furono spodestati dall’intervento militare americano seguito all’attacco terroristico dell’11 settembre, il cui ideatore, Osama bin Laden, era ospite appunto in Afghanistan. Il termine taliban viene in genere tradotto come “studenti”, in particolare delle madrasa o “scuole religiose” (in arabo dini madaris, sing. madrasa) presenti in gran numero in Pakistan e, allora, nei campi per i profughi afghani. E infatti i taliban erano in parte ex allievi delle dini madaris e delle scuole nei campi per profughi afghani in Pakistan, le une e le altre in maggioranza gestite, direttamente o indirettamente, dalla Jui (Jam’iyyat ul-‘ulama-i islam, “Società dei dotti dell’islam”). Inoltre l’élite dei taliban si era formata alla dar ul-‘ulum (“accademia”, “università”) Haqqaniyyah di Akora Khattak, presso Peshawar, diretta da Sami’ ul-Haq, capo dell’ala più radicale della Jui, membro del Senato e co-fondatore della Mma (Muttahida Majlis-i ‘Amal, “Consiglio unito d’azione”). Dietro insistenza dei deobandi, soprattutto di Mian Tufail Muhammad, allora presidente della Jama’at-i Islami, l’orientamento di queste scuole doveva ispirarsi proprio all’insegnamento di Maududi2.
Il termine è il plurale persiano della parola araba talib, il cui plurale in arabo è invece talaba o tulabah. Esso significa “colui che tende” o “aspira” a qualcosa, e acquista il significato di “studente” nell’espressione talib ‘ilm, o talib-i ‘ilm3, “colui che aspira al sapere”. Può essere usato in questo senso anche da solo come forma ellittica di questa espressione. Perciò è invalso l’uso di tradurre come “studenti” (delle “scuole coraniche”). Ma quando si vuol fare il plurale di talib nel senso semplicemente di “studente”, in Pakistan si preferisce la forma araba: per esempio l’organizzazione studentesca della Jama’at-i Islami si chiama Islami Jam’iyyat-i Tulaba (“Associazione degli studenti islamici”), appunto tulaba e non taliban. Infatti l’uso di quest’ultimo ha un significato più sottilmente politico che va al di là del valore di “studenti”. Nella letteratura della Jama’at, ancora ai tempi della sua fondazione, si usava spesso il termine nel senso originario di “coloro che aspirano” a qualcosa, in espressioni come taliban-i ghayat fi sabil ullah (“coloro che aspirano al massimo sulla via di Allah”), taliban-i kamal (“coloro che aspirano alla perfezione”), cioè coloro che, secondo la concezione di Maududi, erano pronti a «sottomettersi totalmente al piacere di Allah, fondere nel crogiolo dell’islam tutta la propria vita, senza tralasciare neppure la più insignificante parte di essa». Insomma, i taliban sarebbero semplicemente i più intransigenti, i più fanatici assertori ed esecutori della dawlat al-islamiyyah, dello Stato islamico “perfetto” che loro avrebbero creato in Afghanistan.
Come “studenti” possono senz’altro essere indicati gli 11 giovani allievi della dini madrasa (“scuola religiosa”, plur. dini madaris), gestita dall’ex mujahid Mullah Muhammad Omar a Kandahar, che nel settembre 1994 si ribellarono contro le vessazioni a danno della popolazione locale perpetrate da ex combattenti contro l’occupazione sovietica, poi degenerati in banditi di strada. La stessa qualifica può essere attribuita anche agli studenti delle dini madaris pakistane, che in seguito fecero causa comune con i taliban. Mullah Omar, ora deceduto, era un noto amir ul-mujahidin, capo guerrigliero della regione di Kandahar, che dopo la caduta del regime filosovietico di Najibullah era tornato alla sua attività di ustad (“maestro”) di teologia islamica. Nel periodo 1992-1994, dopo lo sbando delle tanzimat, le organizzazioni dei mujahidin che durante il periodo comunista si erano rifugiate a Peshawar, nella Provincia del Nord-Ovest, o del Sarhad (oggi chiamato Pakhtunkhwa, la “terra dei pashtun”) in Pakistan, molti ex combattenti si erano radunati in bande armate che estorcevano balzelli alla popolazione locale e ai veicoli in transito, commettendo assassinii, stupri e altre violenze. La goccia che fece traboccare il vaso cadde il 2 novembre 1994, quando un gruppo di ex mujahidin, guidato da Amir Lalai (successivamente impiccato dai taliban), assaltò nei pressi di Kandahar un convoglio di trenta autocarri pakistani diretti in Asia Centrale. Nella sparatoria che ne seguì rimasero uccise 20 persone e le violenze continuarono; vennero ingaggiati combattimenti durati quattro giorni, dopo di che i taliban liberarono il convoglio, con un bilancio di 50 morti.
Naturalmente le soperchierie degli ex mujahidin sollevavano l’indignazione popolare. La situazione in quel periodo è così descritta da due conoscitori della regione: «Il caos e l’anarchia dei signori della guerra locali, dei banditi e trafficanti di droga disgustarono lui (Mullah Omar) e altri mullah ed ex mujahidin con le sue stesse idee. Indignato all’estremo da una rapina di strada particolarmente brutale nel luglio 1994, accompagnata da violenze contro donne, Mullah Omar raccolse un manipolo di suoi allievi ed ex mujahidin per sconfiggere i violenti e farne giustizia sommaria. Il risultato di questa azione fu elettrizzante per l’opinione pubblica e altri comandanti locali si unirono a questi taliban. In ottobre essi conquistarono Spin Boldak, città afghana di frontiera, e in novembre anche Kandahar, con l’approvazione dagli stessi abitanti»4.
Però il Mullah Omar era un personaggio più che discutibile. Su di lui esiste un’interessante testimonianza resa al Daily Telegraph di Londra da Hafiz Sadiqullah Hassani, fuggito in Pakistan dopo essere stato agente della “polizia segreta” dei taliban e membro della guardia del corpo dello stesso Mullah Omar. «È un uomo di media altezza» dice Hassani, «grassoccio, con un occhio artificiale ve...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Nota dell’editore
  3. Prefazione
  4. I. ISLAM E POLITICA
  5. II. BIN LADEN SI CANDIDA AL CALIFFATO
  6. III. STUDENTI SPROVVEDUTI E CATTIVI MAESTRI
  7. IV. LE TARIQAH E IL MISTICISMO ISLAMICO
  8. V. IL MAGGIOR SUFI E POETA AFGHANO: JALALUDDIN RUMI
  9. VI. AFGHANISTAN: UNA STORIA DI TRIBOLAZIONI
  10. VII. ISLAM E MITOLOGIA POLITICA
  11. VIII. ISLAMISMO, TALIBAN E TERRORE
  12. IX. INDIA E PAKISTAN: VERSO LA “MODERAZIONE ILLUMINATA”?
  13. X. LA MINACCIA DELL’ISIS NEL MASHREQ
  14. MAPPE
  15. Novità
  16. Ebook disponibili