
- 224 pagine
- Italian
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eBook - ePub
La Shoah in me. Memorie di un combattente di Varsavia
Informazioni su questo libro
Aprile 1943: gli ebrei del ghetto di Varsavia insorgono contro l'occupante nazista. Quest'impresa, gloriosa quanto tragica, viene raccontata da Simcha Rotam, membro appena diciannovenne della Resistenza ebraica. L'autore -soprannominato Kazik dai compagni - ci porta tra le rovine di Varsavia ci racconta con lucida emozione le vicende umane di uno dei più atroci episodi dell'Olocausto. La scrittura agile e immediata lascia trasparire il dolore dei ricordi e regala al mondo l'irrinunciabile testimonianza di riscatto e orgoglio dell'ultimo dei combattenti ancora in vita del ghetto di Varsavia.
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Informazioni
V. APPARTAMENTI CLANDESTINI
“Bruciato” l’appartamento in via Komitetowa 4
L’appartamento al civico 4 di via Komitetowa, che in passato era appartenuto a una famiglia ebraica, era ora abitato da Stasia Kopik. La donna, che al momento di affittarlo si era presentata al proprietario e al portiere come la moglie di un ufficiale polacco che era stato fatto prigioniero, ci viveva con le tre figlie e con il marito di una di loro. Era bionda e parlava un polacco impeccabile, esattamente come la figlia Zosia, anche lei simile in tutto a una gentile1. In una delle stanze dell’appartamento era stata sistemata una libreria per dividere la camera in due, una parte visibile e un rifugio in cui si nascondeva il resto della famiglia.
Anche io e Antek vivevamo lì ma, non essendo registrati come affittuari, per salvare le apparenze facevamo finta di essere ospiti delle due donne. Antek “andava a trovare” la madre e io la figlia. Vivevano lì nascosti anche alcuni dirigenti del movimento, tra cui Zivia, Marek Edelman, Tuvia Borzykowski e pochi altri che erano stati portati lì dalla foresta Lomianki. Un giorno alcuni agenti della Gestapo si presentarono nell’appartamento, controllarono i documenti delle due donne che vivevano lì ufficialmente e, dopo aver fatto loro alcune domande, perlustrarono in giro. Nella loro ricerca non trovarono nulla di anomalo e quando ebbero terminato l’ispezione se ne andarono, proprio mentre io, ignorando chi ci fosse nell’appartamento, stavo arrivando al cancello.
La visita della Gestapo ci procurò ansia e preoccupazione: c’era forse stata una denuncia? Iniziammo a pensare di trasferirci. Un giorno una cristiana che abitava nel palazzo bussò alla nostra porta e ci disse chiaramente di sapere che nascondevamo degli ebrei, aggiunse poi che pensava che probabilmente erano ebree anche le due inquiline ufficiali. La donna andò direttamente al punto lasciando intendere che, per una somma consistente, avrebbe tenuto la bocca chiusa, noi allora fissammo un appuntamento con lei per sistemare la cosa e nel frattempo decidemmo di lasciare quel posto oramai “bruciato”.
Mi presentai all’incontro insieme a Natek, eravamo d’accordo che, una volta capito quanto sapesse riguardo l’appartamento e i suoi inquilini e valutato il rischio, avremmo deciso come comportarci. Ci incontrammo al crepuscolo e affrontammo subito la questione, ma all’improvviso Natek, senza rispettare il piano e senza alcun preavviso, tirò fuori la pistola e sparò alla donna. Il proiettile la mancò e sfiorò il mio orecchio, Natek fuggì e io non ebbi altra scelta che portare a termine quello che lui aveva iniziato: sparai due colpi di pistola e subito dopo fuggii in preda al panico, senza avere il tempo di vedere se la donna fosse stata colpita e se fosse morta. Mentre correvo gridai: «I tedeschi fanno un rastrellamento! State in guardia!». La gente in strada iniziò a sparpagliarsi, facilitando così la mia fuga. Arrivato nell’appartamento in via Pańska mi sedetti per pulire la pistola e solo allora mi accorsi dei due proiettili inesplosi e incastrati nella canna, mentirei se dicessi che mi dispiacque2.
Le due affittuarie continuarono a vivere senza problemi in via Komitetowa, noi invece ci spostammo in via Pańska 5. L’appartamento era affittato a nome di due nostre compagne che si fingevano cristiane: Luba Gewisser (la verde Marysia) e Irena Gelblum (Irka), due donne di bell’aspetto e perfettamente integrate tra la popolazione polacca di Varsavia.
Nell’appartamento si nascondeva anche Jurek Grossberg, il fidanzato di Luba. Studente e dirigente del movimento degli scouts (conosciuti come “amanti della patria e della lingua madre”), Jurek aveva buoni contatti tra i circoli patriottici polacchi ma purtroppo non “c’è rosa senza spine” e il suo punto debole era l’aspetto tipicamente ebraico, che avrebbe potuto costargli molto caro.
Luba aveva affittato l’appartamento prima della Rivolta del ghetto e io e Antek ci eravamo recati spesso da loro. Nonostante la guerra, non era inusuale vedere dei giovanotti far visita a delle ragazze e i vicini, incuriositi dalle “frequentazioni” delle due fanciulle, provavano spesso a indovinare come fossero composte le coppie. Io e Antek eravamo i principali pretendenti, ma venivano anche altri compagni, incluso Tadek (Tuvia Shayngut) che, a volte, nascose nell’appartamento armi che sarebbero poi state spedite ai nostri compagni in qualche ghetto. Portammo con noi anche Zivia, Marek, Tuvia Borzykowski e Krysia3 e il nostro andare apertamente avanti e indietro spiegava agli occhi dei vicini l’abbondante quantità di cibo che le ragazze acquistavano.
Via Pańska 5: appartamento e base delle operazioni
Prima della Grande deportazione del ghetto di Varsavia, via Pańska faceva parte del Piccolo ghetto, quando poi l’area fu ridotta divenne una strada della parte ariana. Un ufficio istituito dal governo municipale si occupava nello specifico degli appartamenti vuoti, alcuni in parte e altri completamente distrutti, ma comunque tutti ripuliti dagli ebrei e dai loro averi, con il preciso intento di affittarli di nuovo, questa volta a polacchi.
Per noi della Żob un appartamento nella parte ariana non era semplicemente una casa e un rifugio, era anche una base dove nascondere armi, tenere incontri, esercitazioni e organizzare operazioni clandestine. La storia della vita dei sopravvissuti della Żob potrebbe essere tracciata seguendo l’elenco delle abitazioni, come se fossero pietre miliari o tavole cronologiche. Eravamo dislocati contemporaneamente in diversi appartamenti clandestini e se fosse stato facile procurarsene, certamente ne avremmo affittati di più. Comunque per quel che ricordo, quello in via Pańska 5 era speciale. Il palazzo si trovava su una strada caratteristica, con un continuo via vai di persone, ed era un semplice condominio di tre o quattro piani. L’appartamento affittato da Luba era all’ultimo piano. Nonostante fossimo in guerra, il fronte sembrava ancora lontano e la vita, pur tra le restrizioni imposte dall’occupazione, andava avanti quasi normalmente. L’uscio dell’appartamento veniva aperto dall’interno soltanto quando si bussava secondo un segnale prestabilito: taaa-ta-ta-ta.
Gli ebrei facilmente riconoscibili come Zivia, Marek, Tuvia e Jurek non uscivano mai. Ogni volta che arrivava un ospite non a conoscenza del segreto, oppure un estraneo come il postino, l’addetto a leggere il contatore della luce o un vicino per chiedere in prestito qualcosa, bisognava rifugiarsi immediatamente nel nascondiglio dove non c’era quasi spazio per muoversi. La gente confinata nell’appartamento si manteneva in contatto con il mondo esterno grazie a quelli che invece potevano essere scambiati per ariani. Con il passare del tempo la differenza tra i reclusi e quelli che potevano “andarsene in giro liberamente” aumentò. Girare per le strade di Varsavia o incontrare nei caffè ebrei e membri della Resistenza polacca era pericoloso, eppure mi sentivo privilegiato rispetto ai miei amici che non potevano uscire: tutte le loro informazioni erano filtrate da noi e non avevano alcuna possibilità di farsi delle impressioni dirette. D’altra parte io e Antek, per far credere di essere a lavoro, passavamo la maggior parte del tempo fuori, uscendo la mattina e tornando al coprifuoco, mentre Luba e Irena andavano a lavorare come gli altri polacchi e tornavano a casa prima di noi.
Tra le due donne e i confinati, a causa dei continui attriti, dissensi e delle discussioni, si creavano disaccordi più spesso che tra i confinati e me e Antek. Non bisogna dimenticare che queste persone si erano trovate a convivere per caso ed erano obbligate a stare insieme 24 ore al giorno. Non avendo fatto parte del movimento giovanile sionista, Luba e Irena avevano un background diverso rispetto al resto del gruppo, invece Zivia, che aveva otto o nove anni più di loro, era ben conosciuta tra gli ebrei e tra i sionisti. Io e Antek tornavamo a casa stanchi per il lavoro e di solito facevamo rapporto sull’attività della giornata. Zivia era una buona cuoca e cenavamo tutti insieme, il menù consisteva principalmente in zuppa di patate e carne di cavallo.
Per molto tempo discutemmo se girare armati, i miei compagni sostenevano che non avremmo dovuto portare armi in strada per il pericolo di cadere nelle mani di una pattuglia tedesca e di essere arrestati, al contrario la mia opinione era che non dovevamo andare in giro senza, ogni incontro con i tedeschi avrebbe potuto farci finire alla Gestapo e questo doveva essere evitato a ogni costo. Una volta, durante una discussione, urtai per sbaglio con il dito il grilletto della pistola che avevo in tasca, partì un colpo e il proiettile raggiunse il pavimento graffiando il cuoio della mia scarpa.
In un’altra occasione, in seguito a una burrascosa lite con Antek su come portare avanti l’attività (non riesco però a ricordare i dettagli), mi sentii molto offeso e decisi di entrare in “sciopero”. Lo sciopero non durò a lungo e tornai a lavoro uno o due giorni dopo, quando ci accordammo sul fatto che avrei portato avanti le cose nel modo che mi fosse sembrato più opportuno.
Nelle nostre conversazioni trattavamo di vari argomenti e una cosa che ci chiedevamo spesso era che cosa sarebbe accaduto nel caso fossimo sopravvissuti. Provavamo a immaginare la fine della guerra, anche perché tutto prima o poi finisce: come sarebbero andate le cose? Non credo che pensassimo davvero di riuscire a sopravvivere, ma a volte quell’idea ci sfiorava il cuore e allora parlavamo di quello che avremmo fatto e tentavamo di immaginare come le altre persone ci avrebbero trattato, sollevando anche il problema di come noi avremmo trattato i tedeschi. Erano i pensieri di ragazzi che avevano già sperimentato più dolore di quanto sia normale per una vita intera, proprio a causa dei tedeschi, e ognuno di noi aveva un’opinione differente riguardo a ciò che si sarebbe fatto a guerra finita. Diversamente dal resto dei miei compagni sostenevo che avremmo dovuto vendicarci, avevo una vaga idea che, così come ci eravamo organizzati per la Rivolta del ghetto, avremmo dovuto preparare un piano per mettere in atto una vendetta su larga scala e per uccidere un gran numero di tedeschi, soprattutto uomini delle SS e agenti della Gestapo. Avrei voluto spingermi addirittura oltre, sostenendo che avremmo dovuto vendicarci dell’intera nazione tedesca; fino ad allora non avevamo mai nemmeno pensato che potesse esistere un “tedesco buono” e io vedevo in quel popolo il nemico giurato, pronto a fare qualsiasi cosa per annientarci. Ero fermamente convinto che, nel caso fossimo sopravvissuti, avremmo dovuto uccidere quanti più tedeschi possibile. Ci sedevamo per discutere e i nostri dibattiti erano spesso animati, si trattava di problemi che suscitavano un’ondata di emozioni poiché sulle nostre vite e sulla nostra sopravvivenza pendeva un grande punto interrogativo. Zivia e Antek rifiutavano l’idea della vendetta, persino a quei tempi era loro ferma opinione che, alla fine della guerra, avremmo dovuto emigrare in Terra d’Israele per seguire i princìpi del movimento sionista. Tornammo su questo argomento in molte conversazioni senza mai giungere a una conclusione.
A parte le discussioni, mi piacerebbe raccontare brevemente delle mie storie d’amore. Ho già ricordato Dwora Baran. Fino a quando un essere umano è vivo, anche con cibo insufficiente e nelle più difficili condizioni, “quel mondo”, cioè i suoi istinti e sentimenti, non scompaiono, anche se potreste ribattere che, di fatto, è vero anche il contrario. Fatta eccezione per il periodo nel ghetto, devo ammettere che, per la maggior parte della guerra, non mi mancò né il cibo, né la salute, né ragionevoli condizioni igieniche.
Prima vissi a Klwów (la bella vita) con il contadino, sguazzando tutto il giorno come pastore, guardando la mandria e, al momento della ricompensa, mangiando pane a sazietà e bevendo latte fresco.
I primi giorni nella parte ariana li avevo passati a casa di una ragazza di poco più grande di me. Ero un ragazzino innocente, “vergine” e per questo vittima delle derisioni dei miei compagni di scuola più esperti. Se non fosse stato per quella ragazza chissà quando avrei perso la verginità, lei si prese cura della mia “istruzione” prima dicendo: «Di sicuro sei molto stressato e ne hai un grande bisogno!», e poi dandomi delle “lezioni”.
Nell’appartamento di via Pańska 5 incontrai Irena Gelblum, chiamata Irka, e lei conquistò il mio cuore. Marysia (Luba Gewisser) era la ragazza di Jurek e Irena la mia. L’amavo con l’ardore tipico della giovinezza e passavo con lei ogni minuto libero; era una bella ragazza dagli occhi verdi e sognanti, molto brava, intelligente e dall’animo gentile. Era lei a occuparsi degli incarichi più pericolosi e fu a lei che Antek ordinò di trasportare le armi a Poniatowa e a Trawniki, compito che eseguì fedelmente e con ottimi risultati. La clandestinità e l’appartamento affollato ostacolavano il nostro amore ma a Varsavia c’erano un parco pubblico e vari posti dove potevamo andare. Restammo insieme durante tutta la guerra. Forse il nostro comportamento non fu sempre approvato “dalle madri e dai padri del movimento” con cui vivevamo poiché non corrispondeva alla loro nozione di purezza sessuale: diversamente da noi mettevano in pratica ciò che predicavano e in cui credevano, nella clandestinità però, sotto l’occupazione nazista, ognuno viveva a modo suo.
“Czarny” il traditore
Una delle persone con cui ero in contatto era Stefan Pokropek, un polacco che frequentava regolarmente un appartamento nel quartiere Praga, a Est del fiume Vistola, in via Waszyngtona 80, e che aveva una figlia della mia stessa età. In quel periodo ero stato incaricato di procurare delle armi ai nostri compagni a Koniecpol, a Czestochowa e nelle loro immediate vicinanze, quindi decisi di chiedere il suo aiuto. Nel luglio o nell’agosto del 1943 Stefan mi invitò a casa sua per farmi incontrare qualcuno che, disse, «può aiutarti nella faccenda». Il soprannome dell’uomo era Czarny: “il nero”.
Lo avevo incontrato circa un mese e mezzo prima, durante una delle mie visite da Stefan, chiedeva di unirsi alla Resistenza e un suo buon amico aveva garantito per lui. Dal momento che Stefan non aveva nessun contatto, mi chiese di aiutare Czarny a entrare nei “ranghi dei partigiani”. Uno o due giorni dopo, avevo riferito ad Antek della richiesta di Czarny e lui ne aveva parlato con il gruppo dirigente della AL sottolineando: «Non lo conosciamo bene e quindi non possiamo garantire per lui…». Nei giorni successivi il gruppo dirigente ci fece sapere che, dopo averne discusso, avevano deciso di accettarlo ma almeno per il momento non lo avrebbero mandato in un’unità partigiana nella foresta, sarebbe stato inserito nella vita clandestina in città per occuparsi di alcune operazioni.
Qualche settimana dopo, come convenuto, stavo aspettando Czarny in una stanza in fondo all’appartamento di Stefan, lui arrivò puntuale e ci disse che avrebbe potuto procurarci una considerevole quantità di armi e munizioni. Volle sapere se avevo portato il denaro per l’acquisto, annuii e gli spiegai che doveva essere molto cauto, perché questo genere di compravendite poteva facilmente sfociare in complicazioni o catture. In quel mentre, per puro caso, Tadek Shayngut entrò nella stanza e si unì alla conversazione; ci accordammo che Czarny sarebbe tornato un’ora dopo con le armi e le munizioni e noi in cambio gli promettemmo di consegnargli il denaro seduta stante. Dissi a Tadek di andarsene, chiunque non fosse stato indispensabile non avrebbe dovuto essere presente agli scambi, ma questi indugiava, in apparenza per curiosità, anche perché cose del genere non accadevano tutti i giorni. Alla fine si arrese e se ne andò, ma prima che fosse lontano sentimmo bussare e gridare: «Aprite! Gestapo!». Stefan stava per aprire la porta ma io gli dissi di aspettare, nell’appartamento c’erano armi che avrebbero dovuto essere spedite al ghetto o a Czestochowa ed eravamo stati colti mentre le sballavamo, pulivamo, assemblavamo e impacchettavamo; a parte la mia pistola non ce n’era un’altra pronta all’uso e rischiavamo di fare la figura dei ragazzini. La figlia di Stefan, che era con noi nella stanza, saltò dalla finestra e io la seguii. I proiettili tedeschi mi passarono a un millime...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Occhiello
- Frontespizio
- Colophon
- Prefazione
- Introduzione
- I. Prima della guerra: in una famiglia di Varsavia
- II. Nei ranghi della Żob
- III. Nelle fogne: salvare i sopravvissuti
- IV. Dopo l'operazione di salvataggio
- V. Appartamenti clandestini
- VI. Operazioni clandestine
- VII. L'insurrezione di Varsavia
- VIII. La Żob torna in azione
- IX. Conclusioni: missione a Lublino
- Appendice: diario di un combattente
- Bibliografia