Le lettere di Dante
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Le lettere di Dante

Ambienti culturali, contesti storici e circolazione dei saperi

Antonio Montefusco, Giuliano Milani, Antonio Montefusco, Giuliano Milani

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  1. 636 pagine
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Le lettere di Dante

Ambienti culturali, contesti storici e circolazione dei saperi

Antonio Montefusco, Giuliano Milani, Antonio Montefusco, Giuliano Milani

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Le 12 epistole di Dante Alighieri costituiscono un eccezionale documento sulla sua vita dopo il bando dalla città di Firenze (1302). Oltre al valore biografico, esse sono opere letterarie a tutto tondo, che spaziano dalla scrittura «di servizio» (nelle lettere redatte su commissione della moglie di Simone di Guido Guidi) all'autocommento (nelle epistole al marchese Malaspina e a Cino di Pistoia, che accompagnavano dei testi poetici) e al manifesto politico (soprattutto nelle cosiddette «arrighiane»).

Questo volume è il primo dedicato alle lettere dantesche, e offre finalmente al lettore i risultati di due momenti di incontro e discussione sviluppati a Venezia, Università Ca' Foscari, nel 2016 e 2017, nell'ambito di un progetto ERC BIFLOW. Più di 20 specialisti di diverse discipline (filologia, storia, letteratura) si sono misurati con questi testi, fornendone una interpretazione puntuale, sviluppando nuove letture, inserendoli nel contesto sociale e intellettuale del tempo, collocandoli nella tormentata biografia di Dante.

Oggetto dell'interesse dei contributi è anche la sparuta, ma assai qualificata, tradizione manoscritta dei testi, che viene studiata tenendo presente sia gli illustri copisti (Giovanni Boccaccio; il notaio, poi vescovo, Francesco Piendibeni da Montepulciano) sia i contesti di trasmissione. Notevole spazio è anche dato alle competenze epistolografiche di Dante e al rapporto tra la sua scrittura e la tradizione del dictamen.

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Informazioni

Editore
De Gruyter
Anno
2020
ISBN
9783110590739
Edizione
1
Argomento
Literature

Gli anni dell’Impero

L’epistola V di Dante: un’intertestualità polimorfa

Anna Fontes Baratto
Université Paris 3 – Sorbonne Nouvelle

Abstracts

Nell’epistola V il denso e variegato percorso intertestuale, con cui Dante sigla la novitas di una scrittura consona alla dies nova che spunta con la venuta di Enrico VII, conduce dagli iniziali echi virgiliani alle citazioni finali dei verba Christi. Sono infatti le parole di Cristo stesso che Dante convoca – a suggello conclusivo della “novità” introdotta dall’epistola rispetto alle pagine del Convivio sull’autorità imperiale – per asserire la diretta derivazione da Dio di entrambi i massimi poteri: con velata polemica (al di là del riferimento d’obbligo all’enciclica Exultet in gloria) nei confronti di Clemente V, ben deciso a confinare l’imperatore nella funzione esclusiva di «advocatus et defensor ecclesie». Travalicando però il terreno meramente politico, l’Ep. V punta a definire la specifica competenza (e quindi responsabilità storica) della Chiesa nell’attenersi alla “verità” del messaggio evangelico.
The paper analyzes Dante’s epistle V with respect to the thick and multifaceted intertextual fabric through which Dante marks the novelty of his writing as resonating with the new day brought by Henry VII’s coming: such intertextual path drives from the initial Virgilian echoes to the final quotation of verba Christi. Christ’s last words are thus evoked by Dante not only as to confirm that the epistle moves further forward than the Convivio with respect to his conception of imperial authority, but also as to maintain that both major powers are directly derived from God. By being implicitly polemical towards pope Clement V (beyond the compulsory reference to his encyclical Exultet in gloria), Dante aims at restraining the emperor’s functions to those of «advocatus et defensor ecclesie». Ep. V thus exceeds a merely political discourse and seeks to define the specific competence (and thus historical responsibility) of the Church, whose role is to conform to the truth of the evangelical message.
Parole chiave: papato, impero, intertestualità biblica, intertestualità classica, epistolografia latina.
«Ecce nunc tempus acceptabile»: l’incipit paolino, annunciatore di una «dies nova», definisce fin da subito l’inedita congiuntura propizia che determina anche la scrittura nova dell’epistola. 1 Perché il tempus acceptabile, l’occasione da cogliere senza frapporre indugi, è certo quello dell’ormai imminente calata di Enrico, ma il tempo “che stringe” esige anche l’impegno personale nell’elaborazione di una scrittura che a sua volta “stringa i tempi”, per assumere direttamente il linguaggio della coincidenza tra messaggio biblico e stilemi classici, tra disegno provvidenziale e attestazioni storiche del suo inverarsi nel tempo. Qui tutto è detto nel presente di una scrittura fagocitante che azzera tutte le distanze, proiettando il proprio messaggio sul tempo “altro” del piano divino per individuare, nel presente, nel tempo storico del presente, i segni dell’evento provvidenziale già in corso e valutare le resistenze che ad esso intendono opporsi.
È indubbio che, con questo nuovo impasto linguistico, Dante stesse elaborando una sua nuova figura autoriale, dotata inoltre dell’auctoritas che certo gli mancava per rivolgersi a tutti i poteri costituiti d’Italia, dai re ai populi (par. 1). Quanto alla figura del “profeta” che questa scrittura gli conferisce, essa va intesa, mi pare, proprio nel senso precisato da Sylvain Piron:
c’est la marche même des événements qui constitue le présage qu’interprète le poète. (…) Dans ce prophétisme au présent, Dante ne fait pas autre chose qu’énoncer publiquement sa compréhension d’une situation historique exceptionnelle. 2
Eccezionalità di una situazione storica che, per di più, impone di colmare il “vuoto” concettuale reperibile tra l’idea imperiale già pienamente formulata nel Convivio e la sua rielaborazione, e attualizzazione, nella Monarchia, come Giorgio Inglese ha opportunamente sottolineato nella sua recente Vita di Dante:
la “digressione” del Convivio (IV, vi, 1) sull’autorità imperiale non sfiora nemmeno la questione del rapporto con Pietro e i suoi successori; o meglio: mentre risulta limpidamente asserito che l’Impero fu affidato a Roma «in quello altissimo e congiuntissimo consistorio della Trinitade» (v 3), non è reso esplicito ciò che tale sarà, invece, nella Monarchia: che l’autorità dell’Imperatore romano deriva «immediate a Deo» e non «aliquo Dei vicario vel ministro» (Mon. III i 5). Non è pensabile che, quando scriveva il quarto del Convivio, Dante ancora nutrisse dubbi al riguardo: ma di fatto una specifica polemica sull’argomento gli parve, in quella fase, non necessaria. 3
La rende invece “necessaria” la dies nova che spunta con la venuta di Arrigo in Italia – e proprio nella parte conclusiva dell’epistola (parr. 27–28) si concentra la «specifica polemica sull’argomento» individuata da G. Inglese. La conferma dell’«insperata» (par. 19) discesa in Italia di un imperatore, con l’indispensabile avvallo del papa, mobilita infatti l’illustrazione del ruolo messianico che l’imperatore è chiamato a svolgere, promovendo in Italia la politica di giustizia e di pace di cui è il solo garante, ma l’esaltazione della missione imperiale induce anche Dante, in un secondo momento, a pronunciarsi sui rapporti tra i due massimi poteri: nei termini appunto che, assenti dal Convivio, saranno poi chiaramente enunciati nella Monarchia. Dante affronta così una questione che, se all’attualità politica si ricollega, da essa poi si discosta, per spostarsi sul terreno propriamente ecclesiale della retta interpretazione dei compiti rispettivamente assegnati da Dio al potere temporale e spirituale, come annunciato dal par. 22:
unde Deum romanum principem predestinasse relucet in miris effectibus, et verbo Verbi confirmasse posterius profitetur Ecclesia.
Letta in questa prospettiva, l’epistola V fa in realtà emergere fin da subito le spie di un intento polemico che, non certo apertamente ma comunque più o meno velatamente, colpisce nello specifico le più recenti prese di posizione di Clemente – a dispetto dell’accenno finale (positivo, ma anche molto restrittivo) all’enciclica Exultet in gloria del primo settembre 1310. Quanto all’intertestualità “polimorfa” cui è intitolato il mio intervento, l’analizzerò proprio puntando sull’intento polemico, cioè sulla destinazione e funzione polemica di molti inserti intertestuali. Darò quindi per scontata, vale a dire per già eccellentemente indagata, la ricognizione dei singoli tasselli, 4 ma mi soffermerò piuttosto su alcuni aspetti – per altro spesso interdiscorsivi, e quindi indiretti, o di rimbalzo (par ricochet), più che intertestuali stricto sensu –, volti ad illustrare l’intento polemico da cui muove un’epistola che non credo esclusivamente destinata a promuovere la figura messianica dell’imperatore, né tantomeno propensa ad accreditare l’affidabilità dell’appoggio dato dal papa alla sua impresa.
Se infatti guardiamo più da vicino il modo in cui si sono sviluppate (e, aggiungerei subito, invelenite) le relazioni tra Clemente e Enrico in quei due mesi (o poco più) che separano l’emanazione dell’enciclica dalla redazione dell’epistola, il quadro che ne risulta non conforta affatto la diffusa opinione che nessuna nube fosse ancora venuta ad offuscare i loro rapporti.
Giovanni Villani ci ha già ampiamente edotti sulle turbolente reazioni italiane all’annuncio della calata, mettendo l’accento sulle invasive ingerenze fiorentine, in ambito politico, diplomatico e finanziario. 5 Ma il quadro da lui delineato va completato coll’infittirsi degli scambi di messaggi, e più precisamente dei messaggi di Clemente, in previsione della venuta in Italia. Per ovvie ragioni di spazio, lo farò nel modo più stringato – cominciando però da un accenno preliminare alla «legatio ad Italicos», il cui annuncio da Norimberga (26 giugno 1309) 6 precede l’approvazione dell’elezione da parte del papa, nel concistoro del luglio 1309. Dalle relazioni degli ambasciatori di Enrico in Lombardia (agosto 1310) 7 risulta che molte città lombarde subordinano la loro risposta a quella della lega lombarda o all’accordo del papa. Risulta inoltre l’afflusso degli extrinseci presso gli ambasciatori imperiali: «tous les forenssis de Boulogne et de toutes les autres villes de Lombardie sont venus a nous et se sont ofers de servir a tout leur pouvoir monsigneur l’enpereur». 8
A metà settembre, pochi giorni dopo l’emanazione dell’Exultet in gloria, Clemente informa Enrico dell’arrivo in curia dei delegati lombardi 9 (sono attesi anche i toscani, che invece non si presentano), poi, l’8 ottobre, gli comunica di averli assicurati (traduco ad sensum) che Enrico farà quello che il papa gli dirà di fare. 10 L’11 ottobre Clemente riesce finalmente a far sottoscrivere a Enrico, che tergiversava da mesi (ma adesso il tempo stringe anche per lui), la «promissio lausannensis» ,11 l’atto ufficiale di sottomissione, con solenne giuramento, di cui Bowsky dice che mai un imperatore si era prima legato le mani in tal modo, impegnandosi ad intervenire solo per difendere ovunque e comunque gli interessi della Chiesa e dei suoi fedeli. 12
Sempre in ottobre, Enrico riceve un Memoriale pontificis regi missum che gli era stato trasmesso, precisa il curatore del testo, «ut de iuramenti ratione ac indole animum regis placaret», il che è subito confermato dalle prime parole del Memoriale, inviatogli «ut (…) ostruantur ora iniqua loquentium et informantium eundem regem minus vere». 13 Clemente, prosegue il testo, appoggia quanto può la spedizione in Italia, «non sine gravi displicentia multorum» (par. 7). Ma il Memoriale agita anche minacce o ricatti mai formulati prima nei confronti di Enrico. La Chiesa ha già dato prova di non essere a corto di difensori: decretando unilateralmente, ad esempio, la translatio imperii a vantaggio di Carlomagno (par. 8). Le clausole della promissio sono giuste, e vanno quindi rispettate, anche senza giuramento, da un re giusto. Ma se non lo è, non è questo un peccato? E la revoca «ratione peccati» (argument massue della supremazia papale) non spetta al papa? «Certe sic, ut patet ex canone» (par. 9). C’è chi soffia sul fuoco presso Arrigo (ma che ci sia anche Dante?); l’appoggio che gli dà Clemente dispiace «ai devoti alla Chiesa di Lombardia e Tuscia, atterriti dall’avvento, diffidenti, già pronti alla ribellione» (par. 10), che le garanzie profuse dal papa non riescono a placare. Conclusione: «verbis malignis et insidiis non debet regia celsitudo aures adhibere» (par. 11).
E possiamo adesso tornare all’epistola dantesca, ripre...

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