Interventi
Umanità di confine
EDOARDO GREBLO
La mobilità è da sempre parte integrante dell’agire umano, sia individuale che collettivo. Ma in passato la sua regolazione politica era profondamente diversa da quella attuale, poiché gli Stati non disponevano delle risorse e delle capacità amministrative per controllare i propri confini e distinguere efficacemente fra interno ed esterno, fra cittadini e stranieri. È stato attraverso l’invenzione moderna della nazione intesa in senso pre-politico, dove è l’ethnos a definire il demos, che gli Stati-nazione hanno fatto coincidere i confini della cittadinanza con i confini della comunità, politica e nazionale al tempo stesso.
Con l’avvento della configurazione nazionale della cittadinanza è stata però automaticamente creata anche la figura moderna dello straniero, di chi è definito in negativo come estraneo alla comunità degli appartenenti. Non a caso il dilagare sulla scena europea di migranti forzati, rifugiati e apolidi si verifica con la fine della Prima guerra mondiale, quando l’Europa assume il profilo di un sistema di Stati-nazione ciascuno dei quali impone una politica della cittadinanza basata sulla continuità fra natività e nazionalità. Ogni Stato pretende di riconoscere come cittadini solo i membri della nazione, e perciò di garantire pieni diritti civili e politici solo a coloro che per nascita o per origine rientrano nella finzione di una comunità nazionale ipoteticamente omogenea. È questa decisione all’origine del fenomeno dei rifugiati e degli apolidi, di una massa stabilmente residente di non-cittadini che finisce per mettere a nudo questa finzione, per portare alla luce lo scarto tra nascita e nazione e per rivelare l’artificio della naturalità dell’appartenenza a una “comunità di destino” basata sull’unità etnico-culturale.
Hannah Arendt è stata la prima a trarre le conseguenze di questa situazione. Il capitolo di Le origini del totalitarismo dedicato al problema dei rifugiati e degli apolidi tra il 1918 e il 1945, Il tramonto dello stato nazionale e la fine dei diritti umani, è stato ed è tuttora una straordinaria fonte di ispirazione per un numero considerevole di analisi e ricerche. Molti studi sulle migrazioni hanno adottato l’analisi di Arendt come punto di partenza per istituire uno stretto parallelismo tra gli apolidi di allora e i migranti senza documenti del nostro tempo, poiché, come ha sostenuto Benhabib, “nelle nostre società, l’essere sprovvisti di documenti regolari è una forma di morte civile”. E questo perché dà luogo a quella forma di privazione dei diritti che impedisce di essere parte di una comunità, ovvero di “vivere in una struttura in cui si è giudicati per le proprie azioni e opinioni”. È il ritrovarsi in questa sorta di limbo giuridico, di “morte civile”, a caratterizzare i sans papiers, i migranti in condizione irregolare di oggi. L’esclusione dall’appartenenza politica vissuta dalle minoranze tra le due guerre mondiali può essere equiparata alla realtà odierna dei migranti senza i documenti in regola: “La realtà politica dell’apolidia vissuta da Arendt e da milioni di altre persone non è scomparsa, ma è diventata una questione all’ordine del giorno”.
Si tratta di un’equiparazione che richiede però alcune precisazioni. Dopo la Seconda guerra mondiale il sistema della protezione internazionale degli apolidi, dei rifugiati e dei richiedenti asilo ha esteso le norme di tutela e garanzia anche alle persone in fuga dalle persecuzioni o dalle ingiustizie sofferte nei paesi di origine. Il diritto di avere diritti significa attualmente che lo statuto universale di persona spetta a ogni singolo essere umano a prescindere dalla sua cittadinanza nazionale. Il trattamento da parte degli Stati di coloro che sono stati costretti ad abbandonare la comunità di origine perché spinti a forza in una comunità territorialmente definita diversa dalla loro non rappresenta più una prerogativa intoccabile. Il diritto di asilo e il principio di non-respingimento possono essere considerati come gli strumenti primari progettati per garantire la tutela formale del non-cittadino, dell’individuo straniero.
È questa constatazione a suggerire l’esigenza di fornire alcune precisazioni riguardo all’equiparazione tra i rifugiati e i migranti senza documenti. Sottolineare la distinzione tra gli uni e gli altri è importante anzitutto per una ragione storica, e cioè per non rimuovere l’unicità della sorte toccata agli ebrei prima e durante la Seconda guerra mondiale, anche perché era a loro che Arendt faceva riferimento quando scriveva il capitolo sui rifugiati senza Stato. Ma anche per ragioni di chiarezza analitica. È stato Michel Agier a cogliere il problema teorico sottostante all’equiparazione tra i rifugiati e i sans papiers quando ha osservato, riferendosi a queste figure nella loro generalità, che a colpire è la “mancanza di definizione”. Il vocabolario per distinguere tra le diverse figure di non-cittadino è infatti, a dir poco, controverso o lacunoso.
Ciò nonostante, la prospettiva inaugurata da Hannah Arendt è così preziosa perché le sue analisi hanno un valore che trascende l’analisi storica: la perdita della cittadinanza non riguarda soltanto le stateless persons di allora, confinate nel limbo degli apolidi, i titolari del celebre passaporto Nansen, ma investe anche, e molto da vicino, il problema dell’umanità di confine, come i rifugiati e i migranti etichettati come “clandestini” perché privi di documenti. E, soprattutto, perché la sua prospettiva permette di elaborare una definizione di rifugiato in termini politici: il rifugiato è una figura dell’esclusione totale, per cui l’esclusione dalla comunità coincide con la perdita della condizione di zoon politikon e con il ritorno alla dimensione puramente naturale e biologica dell’esistenza, a quella condizione di “nuda vita” di cui parla Agamben. Ciò offre indicazioni essenziali in merito al rapporto tra i rifugiati e l’ordine politico che li esclude o che nega loro l’accesso al proprio territorio.
Tuttavia, la figura politica del migrante privo di documenti del nostro tempo andrebbe forse interpretata in un modo un po’ diverso da quello proposto da Arendt per gli apolidi, i “senza patria” gettati in una condizione di superfluità. In fondo, nonostante tutto, gli strumenti giuridici introdotti dopo la Seconda guerra mondiale non sono mai stati formalmente aboliti, anche se troppo spesso rimangono lettera morta. L’introduzione di questi strumenti giuridici suggerisce di evitare una forse troppo precipitosa assimilazione tra il migrante sprovvisto di documenti regolari e quella figura dell’esclusione totale, privata della dimensione sociale e relazionale caratteristica dell’esistenza umana e ridotta a una condizione meramente “biologica” dell’esistenza, di cui parla Hannah Arendt. E ciò per almeno una ragione decisiva: restituire all’umanità di confine la capacità di dare corpo a quella forma di “cittadinanza insorgente” in cui traspare la possibilità di agire da cittadino indipendentemente da ogni statuto giuridico.
1. Esclusione senza confini
La concezione etnica di “popolo-di-Stato” determina lo sfondo concettuale in cui si sviluppa l’analisi di Arendt. Questa concezione, che si ispira alla volontà di garantire pieni diritti civili e politici solo a chi appartiene per origine o per nascita alla comunità nazionale, si presta infatti a essere escludente sin dall’inizio, dal momento che esclude chi non è membro della comunità per via ascrittiva da ogni possibilità di farne parte pleno iure. Per Arendt, l’espulsione di milioni di esseri umani dalla comunità dello Stato-nazione rappr...