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"Scrivere una canzone è un doloroso atto di coraggio, una lacerante voglia di conoscere se stessi, a costo di esporsi e stuzzicare il proprio narcisismo. La sensazione diventa febbrilmente piacevole solo quando tutto sta prendendo forma: prima si soffre molto. L'ispirazione è sottile, fuggevole, impalpabile: va coltivata e assecondata, scovata e costretta ad uscire dagli angoli...". Enrico Ruggeri-----------Pino Casamassima, giornalista e saggista, è stato opinionista per il web europeo del network americano CBS, e consulente editoriale della Rizzoli Libri. Attualmente scrive per Il Corriere della Sera e cura una rubrica su Il Giorno. Autore de La Storia siamo noi, collabora con History Channel e l'Università Cattolica di Milano.
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Informazioni
Argomento
Médias et arts de la scèneCategoria
Biographies de musique
CONTRO CANTO
Si ringrazia per la preziosa collaborazione Silvio Crippa
Fotografie di Roberto Coggiola e Archivio personale Ruggeri
Grafica: Elena Menichini
Realizzazione editoriale
© De Ferrari Comunicazione S.r.l.
Via D'Annunzio, 2/4 - 16123 Genova
Tel. 010 0986820 - 0986821 - 0986822
Fax 010 0986823
L’editore rimane a disposizione per gli eventuali diritti
sulle immagini pubblicate. I diritti d’autore verranno
tutelati a norma di legge.
Pino Casamassima
ENRICO RUGGERI
Gli occhi del musicista

INTRODUZIONE
Fra i libri letti quest’anno ce n’è uno, “Non ti muovere” di Margaret Mazzantini, che mi ha particolarmente colpito positivamente per come l’autrice sia riuscita a calarsi nella testa del protagonista. Un bagno di personalità riuscito perfettamente fino nelle pieghe più intime della mentalità di un uomo. Questo talento è riscontrabile anche in altri campi artistici, primo fra tutti quello musicale. E fra i maschietti più capaci di calarsi nei panni delle donne c’è proprio Enrico Ruggeri. Le canzoni scritte per le diverse interpreti della musica leggera italiana sono fra le più suggestive in assoluto, proprio perché trasmettono al meglio i sentimenti, le illusioni e le delusioni delle donne, oltre a quella rabbia tipicamente femminile che solo uno che le conosce bene può percepire e quindi comunicare: il caso appunto di Enrico. Che, ovviamente, non è confinabile solo in questo particolare aspetto della sua attività di autore, anzi: la sua carriera, ormai lunga un quarto di secolo, è scandita da successi personali ormai diventati storia della canzone italiana. Intelligente e sensibile, Ruggeri ha cantato in tutti questi anni il quotidiano e l’amore, la tristezza e la gioia, l’impegno sociale e umano soprattutto nei confronti di quelle minoranze trasversali a ogni latitudine geografica e temporale. Non è infatti casuale che le ultime sue canzoni presentate sul formidabile (in tutti i sensi) palcoscenico di Sanremo siano state ispirate dalla tragedia della ex Jugoslavia e dalla pena di morte. Quest’ultima, “Nessuno tocchi Caino”, testimonia il suo impegno personale nell’associazione che si batte appunto contro tale crimine. Questo libro è il frutto di un lunghe chiacchierate: dialoghi che hanno attraversato un po’ tutto il mondo di “Rrouge”, non soltanto la canzone. Diversamente dalle precedenti monografie su De André, De Gregori, Battisti, Vasco, Fossati, questa ha la particolarità di essere quasi un fiume in piena: un libero parlare del protagonista. Libero appunto quanto forte è il suo sentimento di libertà, e mi è parso corretto non interferire con le mie considerazioni, le mie analisi, proprio per permettere al suo pensiero di esprimersi in un contesto indisturbato. Non solo musica, quindi, ma anche mitologia e cinematografia, letteratura e televisione, fino ai più forti temi sociali italiani e internazionali, passando per gli aspetti più veraci di una personalità tanto rotonda quanto intrigante. Una vita nella quale gli occhi hanno avuto un peso determinante, come testimonia il titolo sia del suo ultimo album, sia di questo libro.
Ottobre 2003
Atti di coraggioso dolore
«Scrivere una canzone è un doloroso atto di coraggio, una lacerante voglia di conoscere se stessi, a costo di esporsi e stuzzicare il proprio narcisismo. La sensazione diventa febbrilmente piacevole solo quando tutto sta prendendo forma, prima si soffre molto. L’ispirazione è sottile, fuggevole, impalpabile: va coltivata e assecondata, scovata e costretta ad uscire dagli angoli. Quando si è molto giovani è più turbinosa, caotica, frastornante. Col passare degli anni i problemi della vita si accavallano, gli agi e il benessere ci impigriscono, subentrano disillusione e torpore, ansia per il tempo che passa e amarezza. La battaglia da vincere è più difficile, attanagliati come siamo dalla paura di non saperci ripetere. E spesso il pubblico è crudele e capriccioso, con la sua voglia di novità. Ma è anche vero che molti artisti hanno preferito circondarsi di persone che non hanno avuto il coraggio di contraddirli, fino a convincersi di essere infallibili…
«I miei genitori mi iscrissero alle elementari quando avevo cinque anni, perché sapevo già leggere e in casa mi annoiavo. Apprendevo tutto molto in fretta e per qualche anno rischiai di diventare un vero bambino prodigio. Mio padre mi insegnava l’inglese e i numeri relativi, leggevo Dante e l’Iliade. Così una mattina sbagliai apposta tutto un compito in classe di aritmetica: volevo provare la sensazione di quelli che non ce la facevano. Da quel giorno mi ha accompagnato per tutta la vita un senso di solidarietà con i perdenti, gli umiliati, le minoranze, le diversità. E ogni volta che mi è capitato di appartenere a una di queste categorie ho sempre provato un grande senso di orgoglio. Forse è per questo che ho sempre avuto eroi negativi o sconfitti, da Ettore in avanti, e ho sempre diffidato delle maggioranze e del clamore che circonda i trionfatori. Quando mi è capitato di vincere qualcosa ho sempre vestito i miei successi con tutto il pudore di cui disponevo…
«L’immagine di Ettore è quella di una persona chiamata perdente perché nella società di oggi è diventato obbligatorio vincere. Quando si dice “Quello è un perdente” s’intende che quella è una persona per bene, uno che rispetta la parola data, uno che ha rispetto degli altri, uno che non è uno squalo, e paradossalmente queste positività diventano delle negatività. Mi è rimasta impressa una situazione di “Amici miei”, in cui il giornalista Perozzi, quando muore, Moschin chiede alla moglie: “ma come… neanche una lacrimuccia?”, e lei risponde “si piange quando muore qualcuno, qui non è morto nessuno”. Ho scritto tante canzoni su chi non ce l’ha fatta. Nella canzone “Gimondi e il cannibale” mi interessava mettere in risalto proprio questo concetto: quello del cosiddetto perdente. E da qui torna la figura di Ettore, che sa di andare incontro alla morte, ma non per questo è un perdente nel senso che noi in questo tipo di società diamo a questa parola, caricandola di valenze filtrate dal nostro modo di intendere la vita: una vita nella quale si deve per forza vincere, primeggiare».
Eccolo, Enrico Ruggeri, classe 1957, milanese, cantante e autore di successo. Un successo che ha origini lontane, targate anni Settanta, quando accadeva tutto e il contrario di tutto…
Accadeva che i contorni si confondessero, nonostante o forse a causa di linee di demarcazione troppo segnate, che in modo manicheo portavano a bollare col marchio del corretto e dello scorretto ciò che era tinto d’un colore o d’un altro. A prescindere. Ci fu un film che dipinse bene quell’humus culturale in cui germogliava di tutto, ma in orti ben separati. Si chiamava “Maledetti vi amerò”, opera prima di Marco Tullio Giordana. Il protagonista, un Flavio Bucci in splendida forma, tornava a casa, a Milano, dopo un lungo viaggio in America latina. Uno di quei viaggi che tanti ragazzi dell’epoca fecero per sfuggire a un arresto, a una situazione non più gestibile, nonostante la buona volontà e la fattiva collaborazione delle famiglie. Tornava, dunque, e trovava che tutto era cambiato, a cominciare dai suoi compagni di lotta, i suoi amici. Nel frattempo, le Br hanno rapito e ucciso Moro. E lui non ha più alcuna identità: il suo passato non esiste più, il futuro non gli appartiene: «E’ un po’ paradossale: c’è chi si arrende, diciamo così, gente che dice “ora vado via da qui, perché in questa città non si può più vivere”, io no: Milano è la città più europea d’Italia, inteso questo sia come pregio sia come difetto. Sì, è un po’ cialtrona, con la moda, la mondanità, la futilità portata all’eccesso, ma è anche una città vivace, coi suoi concerti, il teatro, i centri sociali, che non sono quelli che spaccano tutto, ma dove di fa cultura, musica. Certo, oggi Milano vive tante contraddizioni, a cominciare da una nuova e diversa immigrazione proveniente da popoli e culture fortemente diverse dalle nostre, ma queste cose sono già successe a Parigi decenni prima. Ricordo che da bambino la parola “negro” non era offensiva: una volta, avrò avuto neanche dieci anni, vidi uno di colore e noi bambini gli siamo andati dietro per guardarlo meglio: non c’era nulla di razzista nel nostro atteggiamento, ma solo curiosità: oggi mio figlio ha amici di colore. Sono ottimista per il futuro…
L’equità del mondo
Il filosofo Emanuele Severino dice che è improprio parlare di scontro fra mondo occidentale e mondo musulmano, perché l’islamismo fa parte dell’occidente. Non resta quindi che lo scontro fra mondo islamico e quello cristiano…
«Io non farei questa distinzione, ma fra mondo fondamentalista e mondo opulento: nella differenza fra questi due blocchi passa il concetto di vita umana. Noi che stiamo bene, che abbiamo il problema della seconda casa, della seconda macchina, che viviamo nell’angoscia se non riusciamo a pagare una rata del mutuo, che motivo avremmo mai di andare a fare una guerra o a farci saltare in aria in un autobus dopo esserci imbottirci di tritolo? Non è un problema di fede: io non morirei mai per una causa, perché sto bene, mentre dall’altra parte del mondo c’è chi è sfruttato, chi vive sotto il tallone di una dittatura. Un popolo alla fame e sottomesso, o addirittura umiliato ha invece proprio nella fede la sua unica arma di riscatto: un islamico che vive a New York non vive molto diversamente da un occidentale. Il distacco vero è fra un modo che muore di indigestione e uno che muore di fame: queste ingiustizie sono la base di tutti i conflitti moderni. La disperazione di intere aree geografiche diventa odio, fondamentalismo, tortura, pena di morte, ecc. il problema è dare equità al mondo: un mondo in cui l’islamico entra tranquillamente nella sinagoga e l’ebreo nella moschea. Ma mi rendo conto che siamo ancora ben lontani da questa visione zuccherina del mondo: per ora dobbiamo fare i conti con le stragi, ormai esportate anche quelle nel mondo occidentale, anzi, nel cuore dell’occidente: New York. Per gli americani l’11 settembre è stato uno choc doppio, perché hanno nel dna il concetto di esportare la loro democrazia, il loro modello, e hanno sempre esportato anche la guerra. Mia madre ricorda ancora di quando gli americani bombardavano i tram, con la gente che scendeva e si buttava per terra perché gli aerei ripassavano e mitragliavano le persone scese dal tram. Lei insegnava e una mattina trovò la scuola devastata. Io sorrido quando ci dicono che gli americani ci hanno liberati. La guerra di liberazione americana è stata condotta distruggendo anche le nostre città. Con l’11 settembre per una volta loro si sono resi conto della realtà della guerra. Con tutto il rispetto per i morti, noi di 11 settembre ne abbiamo avuti più di uno, e in altre parti del mondo ce l’hanno tutti i giorni…
Non omologato
In quel decennio delle tante contraddizioni, Ruggeri vive a Milano la sua condizione di “diverso”, di non-omologato. A cominciare dalla scuola, da sempre crogiolo delle nuove istanze: «Nel mio liceo, il Berchet, i diseredati erano i non-rossi. I leader del movimento erano i figli ricchi di Treccani, Malerba. Avevano case in corso Venezia e venivano a scuola con l’eskimo. La violenza era all’ordine del giorno: non c’era attenzione al sociale, ma alla violenza, cose simili agli stadi di oggi. Gli episodi di intolleranza erano tanti: nel mio liceo, quelli di CL erano menati tutti i giorni con qualsiasi pretesto, anche per un solo foglio attaccato al muro. Quando morì il commissario Calabresi non ne fu...
Indice dei contenuti
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