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Omicidio sul Garda

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Omicidio sul Garda

Informazioni su questo libro

Anni Trenta: un misterioso omicidio sul Garda. E una oscura pista che conduce al Vittoriale... "Versò una terza, generosa dose di brillantina nella mano sinistra disposta a cavo, si fregò i palmi di entrambe le mani e infine lisciò alla perfezione i capelli corvini. Non uno era fuori posto. La lucentezza della brillantina, che lo inebriava con il suo odore di barberia, di coloniali e di bordelli raffinati, mascherava alla perfezione i primi capelli d'argento che si facevano largo, specie all'inizio delle basette che - anche per questo - lui radeva senza risparmio e senza ripensamenti. Si guardò nello specchio, compiaciuto. Il baffo destro, color carbone, si inarcò. Di soddisfazione."

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Informazioni

eBook ISBN
9788864058085
Argomento
Storia
novels
Massimo Tedeschi
Carta rossa
La morte misteriosa di una ragazza
sul lago di Garda negli anni Trenta.
E un oscuro indizio
che conduce al Vittoriale
Collana a cura di Pino Casamassima
Consulente editoriale: Mario Paternostro
Progetto grafico e impaginazione: Elena Menichini
© 2016 - De Ferrari Comunicazione S.r.l.
Via D'Annunzio, 2/3 - 16121 Genova
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Fax 010 0986823 - cell. 348 7654815
L’editore rimane a disposizione per gli eventuali diritti sulle immagini pubblicate. I diritti d’autore verranno tutelati a norma di legge.
1.
Il torrente
“Crepi l’avarizia”.
Versò una terza, generosa dose di brillantina nella mano sinistra, disposta a incavo. Si fregò i palmi delle mani e infine lisciò alla perfezione i capelli corvini. Non uno era fuori posto. La lucentezza della brillantina, che lo inebriava con il suo odore di barberia, di coloniali e di bordelli raffinati, mascherava alla perfezione i primi capelli d’argento che si facevano largo, specie all’inizio delle basette che – anche per questo – lui radeva senza risparmio e senza ripensamenti.
Si guardò nello specchio, compiaciuto. Il baffo destro, color carbone, si inarcò. Di soddisfazione. Chinandosi ad avvitare il tappo della brillantina sentì un dolore soffuso ai lombi, e sorrise di nuovo. Erano i postumi delle capriole che la sera prima aveva fatto sulla terrazza della vedova Arquati. Una grande balconata a lago, sul lato settentrionale della villa di Portese, perfettamente coperta alla vista dalla strada, e che in compenso offriva una veduta mozzafiato sul golfo di Salò: su fino a Gardone e Maderno, e anche sulla sponda veronese, verso Garda e Torri. Uno scampolo di paradiso che non avrebbe smesso di ammirare, nelle notti serene che quel settembre gardesano si ostinava a regalare. Certo, dopo la cena tête-à-tête, il pesce di lago che sapeva di brace e fondali, il vino rosato delle sue tenute che la vedova aveva versato senza risparmio, ne aveva viste delle belle la chaise longue su cui s’erano adagiati. Già, “chaise longue” ripeté fra sé e sé, assaporando il suono esotico. O forse, in un verbale, avrebbe dovuto italianizzarla in divano o, peggio, ottomana? Come che fosse, aveva dovuto fare appello alle sue virtù di maschio italico per tener testa con onore agli assalti della vedova: estrosa, generosa, mai sazia. La dolenzia diffusa ai lombi, le tracce dei morsi sul petto e delle unghie affondate nella sua schiena che la canottiera non bastava a celare, sarebbero scomparsi alla vista solo grazie alla sua solita candida camicia, diventata una seconda divisa. In lontananza sentì un trillo ma, apparentemente, non ci fece caso. Ripensò al corpo della vedova, al colore compatto, brunito e omogeneo della sua pelle, che risaltava anche al lume di candela a cui l’aveva esplorata, palmo a palmo. A Salò girava voce che Anna Arquati, vedova da un decennio di un possidente terriero molto più vecchio di lei, avesse l’abitudine di prendere il sole completamente nuda. Un suo mezzadro, entrato dal cancello lasciato inavvertitamente aperto per portarle delle verdure appena colte, l’aveva sorpresa così. L’unico indumento che aveva addosso mentre se ne stava sdraiata al sole era una sciarpa di seta, o qualcosa di simile, che le legava i capelli castani chiari. Il mezzadro era riuscito a scorgerla, non visto, per pochi istanti, ma ne aveva ricavato descrizioni minuziose che avevano fatto la delizia degli sfaccendati frequentatori di bar e osterie da Moniga a Gargnano. Certo, ora lui avrebbe potuto confermare e arricchire di dettagli le leggende sorte su quelle forme generose, sulla consistenza di quelle carni, sulla morbidezza di quella pelle. Ma il suo codice personale, il suo stile da gentiluomo, infine i suoi doveri di funzionario integerrimo glie lo impedivano. Pensando al termine “integerrimo” il baffo destro si inarcò di nuovo. Subito dopo una voce stridula fugò quei pensieri e lo richiamò ai suoi doveri.
«Commissariooooo! La vogliono al telefonooooo!».
Era la signora Assunta Dubini, che gli affittava le due stanze che occupava in centro a Salò, a due passi dallo slargo in lieve pendenza che tutti chiamavano Fossa. Una donnona che si aggirava per casa con caffetani che ne coprivano le forme indefinite, e strani turbanti che ne raccoglievano i capelli radi e grigiastri. Una pettegola patentata, che però gli faceva da informatrice inconsapevole e gratuita su tutti gli affari di cuore e di corna della Riviera. Una donna dall’età imprecisata che si atteggiava ad autorità pubblica da quando aveva iniziato, tre anni fa, ad affittare le stanze del suo enorme appartamento a “ospiti di riguardo”, come li chiamava lei: un cancelliere della pretura che non si vedeva mai e che con assoluta nonchalance avrebbe potuto conservare cadaveri squartati sotto il letto, un maresciallo della Milizia che appestava bagno e tinello con le sue Turmac e, appunto, il commissario.
«Chi mi vuole?» chiese lui dal bagno.
«Vi cercano dal commissariatoooo» rispose lei, alzando la voce di un tono e rendendola ancora più stridula.
Uscì così com’era, canottiera e pigiama, e lei lo ispezionò senza ritegno: un’occhiata ai segni sulla pelle che spuntavano dalla canottiera, uno sguardo più accorto sotto la cintura dei calzoni del pigiama. “Nottata agitata” disse lei compiaciuta, voltandogli le spalle e tornando nei suoi quartieri.
Al telefono c’era Casali, biondino della provincia di Trento, centralinista discreto ed efficiente.
«Commissario, corpo di giovane donna sul greto del torrente Toscolano, in Valle delle Cartiere. Cranio sfondato. Probabile omicidio. Trovata da un dipendente della cartiera che andava al lavoro poco prima delle sei di mattina».
«Vabbè, Casa’, dimmi pure chi è stato e ‘sto caso chiudiamolo lì».
Il centralinista accusò il colpo e si zittì. Il cervello da sbirro del commissario cominciava intanto a lavorare. Certo, un omicidio del genere – se tale si fosse rivelato - era un caso ben strano per la Riviera, dove al massimo il commissariato si occupava di litigi di vicinato, furti nei campi, contrasti fra pescatori per aggiudicarsi i fondali bassi attorno all’isola del Garda e testimoni da condurre in pretura. Delitti non erano mancati, ma rimandavano a guerre per i diritti boschivi, oppure al mondo imprevedibile e vario dei turisti, soprattutto del nord Europa. Una operaia della cartiera uccisa sul greto del torrente era un caso assai diverso. Il commissario mise in moto gli automatismi collaudati tante volte in Sicilia, dove aveva lavorato al commissariato di Agrigento e di morti ammazzati ne vedeva al ritmo di uno a settimana. Quindi attaccò le domande di rito: Pattuglia?
«Sul posto».
Giudice?
«Informato il pm Susio, ma è impegnato a Palazzo di Giustizia, attende verbale».
«Dottor Boletti?».
«Informato. Ha lasciato l’ambulatorio di Maderno. Con un suo paziente, munito di moto Gilera, sta recandosi sul posto per stilare referto di morte».
Ambulanza?
«Già partita dall’ospedale di Salò per recupero salma».
“Vabbè a ‘sto punto manco solo io” pensò fra sé e sé il commissario.
«Distanza del ritrovamento da fermata tram di Toscolano?» chiese infine.
«Quaranta minuti di strada sterrata a piedi. Sconsigliasi tragitto non automunito».
«Vabbè Casa’ mandami l’auto di servizio».
«Trovasi in officina per riparazione. Sarà pronta entro un’ora» disse il centralinista.
“Va bene, dì a Bubbico che lo aspetto al bar Impero”.
***
Il caffè autarchico era imbevibile. Quel sapore di cicoria, orzo e naftalina che lasciava in bocca era insopportabile per un amante del caffè come il commissario Sartori. Per fortuna Bruno, il barista dell’”Impero”, gli aveva versato una razione abbondante del liquore a base di rosso d’uovo e marsala che Sartori si regalava sempre dopo le “notti agitate”, come le chiamava donna Assunta. Per lui un ricostituente, una medicina, un talismano. Bubbico era arrivato puntuale, pur nel fatale ritardo meccanico, e guidava senza fretta lungo la strada Gardesana. Dopo Salò, sulla destra, sfilavano i grandi alberghi. Quell’estate del 1937 la crisi abissina e le sanzioni avevano diradato i vecchi habitué inglesi, belgi e francesi. In compenso i tedeschi erano arrivati a frotte. Un po’ per solidarietà con il regime amico, un po’ perché il marco forte consentiva loro spese da gran signori e vacanze da maraja. In cinque anni Sartori s’era fatto amico dei componenti della vecchia colonia di tedeschi trapiantati sul Garda: gentiluomini come il dottor Hofmann, o il professor Loetze, liberali d’antico stampo che della loro patria ammiravano più Goethe che Bismark, più Brahms che Wagner, e avevano voltato le spalle ai geli di Lubecca e alle nebbie di Dresda per godersi il sole del Garda. I nuovi arrivati erano d’altra pasta. Giovani famiglie, e soprattutto coppie e gruppi di amici. Tutti biondissimi, atletici, ariani. Si dedicavano più alle camminate in montagna che allo struscio sul lungolago di Gardone o Salò. Armati di binocoli e macchine fotografiche, sembravano avanguardie di un esercito anziché turisti in vacanza, ma negli alberghi nessuno ci faceva caso e i lauti conti pagati senza batter ciglio tacitavano ogni dubbio.
Arrivati a Toscolano, Bubbico svoltò di colpo a sinistra facendo stridere le ruote della Topolino di servizio. Sartori fu schiacciato contro la portiera, si rannicchiò ancora un po’ e ...

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