1. Il linguaggio indiretto e le voci del silenzio
A Jean-Paul Sartre
Saussure ci ha insegnato che, presi isolatamente, i segni non significano niente: più che esprimere un senso, ognuno di essi indica uno scarto di senso fra sé e gli altri. Poiché anche di questi ultimi si può dire altrettanto, la lingua è costituita di differenze e non di termini; o meglio, nella lingua i termini sono generati dalle differenze che appaiono fra di essi. Idea difficile, perché il buon senso risponde che se il termine A e il termine B non avessero alcun senso, non si vede come tra di essi ci potrebbe essere contrasto di senso, e se la comunicazione andasse veramente dal tutto della lingua parlata al tutto della lingua udita, per imparare la lingua bisognerebbe già saperla… Ma questa obiezione assomiglia ai paradossi di Zenone: è superata nell’uso stesso della parola, come quelli nel movimento in atto. Questa specie di circolo che fa sì che la lingua preceda se stessa presso coloro che l’imparano, si insegni da sé e suggerisca spontaneamente come deve essere decifrata, è forse il prodigio che definisce il linguaggio.
La lingua si impara, e in questo senso si è costretti ad andare dalle parti al tutto. Il tutto che in Saussure è un primum, non può essere il tutto esplicito e determinato della lingua completa, quale è registrata dalle grammatiche e dai dizionari. Analogamente, Saussure non ha di mira una totalità logica simile a quella di un sistema filosofico i cui elementi, in linea di principio, possono essere tutti dedotti da una sola idea. Proprio perché esclude che i segni possano avere un senso che non sia «diacritico», egli non può fondare la lingua su un sistema di idee positive. L’unità di cui parla Saussure è unità di coesistenza, come quella degli elementi di una volta che si sostengono vicendevolmente. In un insieme di tal genere, le parti della lingua già imparate valgono subito come un tutto, e i progressi ulteriori si effettuano grazie all’articolazione interna di una funzione a modo suo completa, più che per addizione e giustapposizione. Da molto tempo è noto che nel bambino la parola funge inizialmente da frase, e forse anche certi fonemi fungono da parole; ma la linguistica contemporanea pensa in modo più preciso l’unità della lingua isolando all’origine delle parole – e forse anche delle forme e dello stile – certi princìpi «oppositivi» e «relativi» ai quali la definizione del segno data da Saussure si applica ancora più rigorosamente che alle parole, poiché si tratta di componenti del linguaggio che non possiedono in proprio un senso determinabile, e che hanno solo la funzione di rendere possibile la discriminazione dei segni propriamente detti. Orbene, queste prime opposizioni fonematiche possono certo essere lacunose, potranno certo arricchirsi in seguito di altre dimensioni, mentre la catena verbale troverà altri modi di differenziarsi da se stessa: l’importante è che i fonemi sono sin dall’inizio variazioni di un unico apparato di parola, e che con essi il bambino sembra aver «afferrato» il principio di una differenziazione reciproca dei segni e aver acquisito, nello stesso tempo, il senso del segno. Infatti, le opposizioni fonematiche, contemporanee ai primi tentativi di comunicazione, appaiono e si sviluppano senza alcuna relazione con il balbettio – che non di rado è represso da queste opposizioni, che comunque, dopo il loro avvento, conserva solo un’esistenza marginale, e i cui materiali non vengono integrati nel nuovo sistema della parola vera e propria – come se non fosse la stessa cosa a possedere un suono a titolo di elemento del balbettio, che indirizziamo solo a noi stessi, e quale momento di un processo di comunicazione. Si può dunque dire che a questo punto il bambino parla e che in seguito imparerà soltanto ad applicare diversamente il principio della parola. L’intuizione di Saussure viene così precisandosi: con le prime opposizioni fonematiche il bambino è iniziato alla connessione laterale del segno con il segno come fondamento di un rapporto finale del segno con il senso – nella forma particolare che essa ha ricevuto nella lingua di cui si tratta. Se i fonologi riescono a estendere la loro analisi al di là delle parole, fino alle forme, alla sintassi e anche alle differenze stilistiche, è la lingua intera come stile d’espressione, come modo unico di valersi della parola, che viene anticipata dal bambino con le prime opposizioni fonematiche. Il tutto della lingua parlata intorno a lui lo carpirebbe come un vortice, lo tenterebbe mediante le sue opposizioni interne e lo condurrebbe quasi fino al momento in cui tutto quel rumore significherà qualcosa. Il continuo incrociarsi della catena verbale con se stessa, l’emergenza un giorno irrecusabile di una certa gamma fonematica secondo la quale il discorso è manifestamente composto, spingerebbe infine il bambino dalla parte di coloro che parlano. Soltanto la lingua considerata come un tutto permette di comprendere in che modo il linguaggio lo attiri a sé e in che modo egli riesca a entrare in questo dominio le cui porte, si direbbe, non si aprono se non dall’interno. Il segno ha una interiorità e finisce per reclamare un senso proprio perché è diacritico sin dall’inizio, proprio perché si compone e si organizza con se stesso.
Questo senso che nasce al margine dei segni, questa imminenza del tutto nelle parti, si ritrovano in tutta la storia della cultura. Prendiamo il momento in cui Brunelleschi costruisce la sua cupola di Santa Maria del Fiore in un rapporto definito con la configurazione del luogo. Si deve dire che egli ha rotto con lo spazio chiuso del Medioevo e ha trovato lo spazio universale del Rinascimento? Ma c’è ancora molta strada per passare da una operazione dell’arte all’impiego deliberato dello spazio come luogo universale di tutte le cose. Bisognerà dire, allora, che tale spazio non è ancora apparso? Ma Brunelleschi si era costruito uno strano congegno dove due vedute del Battistero e del Palazzo della Signoria, con le vie e le piazze che li circondano, si riflettevano in uno specchio, mentre una lastra di metallo levigato vi proiettava sopra la luce del cielo: dunque c’è in lui una ricerca, un problema dello spazio. È altrettanto difficile affermare quando comincia il numero generalizzato nella storia della matematica: in sé (ossia, come dice Hegel, per noi che ve lo proiettiamo), esso si trova già nel numero frazionario che prima del numero algebrico inserisce il numero intero in una serie continua – ma vi si trova per così dire a sua insaputa, e non per sé. Allo stesso modo, dobbiamo rinunciare a fissare il momento in cui il latino diviene francese, perché le forme grammaticali cominciano a essere efficaci e a delinearsi prima di essere adoperate sistematicamente, perché talvolta la lingua rimane per molto tempo pregna di trasformazioni che si realizzeranno in seguito e perché in essa l’enumerazione dei modi d’espressione non ha senso: infatti, quelli che diventano desueti vi conservano una vita ridotta, mentre il posto di quelli che li sostituiranno è a volte già segnato, sia pure sotto la forma di una lacuna, di un bisogno o di una tendenza. Anche quando è possibile datare l’emergenza di un principio per sé, in precedenza questo principio era presente nella cultura, a titolo di assillo o di anticipazione, e la presa di coscienza che lo pone come significazione esplicita non fa che conchiuderne la lunga incubazione in un senso operante. Ma c’è sempre un residuo: lo spazio del Rinascimento sarà a sua volta pensato, più tardi, come un caso particolare dello spazio pittorico possibile. La cultura non ci dà mai significazioni assolutamente trasparenti, la genesi del senso non è mai compiuta. Ciò che a buon diritto chiamiamo nostra verità, noi lo contempliamo sempre in un contesto di simboli che datano il nostro sapere. Non ci troviamo mai di fronte ad architetture di segni il cui senso possa esser fissato a parte, poiché esso non è altro che il modo in cui i segni si comportano l’uno verso l’altro, si distinguono l’uno dall’altro – senza che noi abbiamo nemmeno la malinconica consolazione di un vago relativismo, giacché ognuno di questi passi è senz’altro una verità e sarà salvato nella verità più comprensiva dell’avvenire…
Per ciò che concerne il linguaggio, se è il rapporto laterale fra i segni a rendere significante ciascun segno, allora il senso appare solo all’intersezione e come negli intervalli tra le parole. Ciò ci impedisce di concepire nei termini consueti la distinzione e l’unione del linguaggio e del suo senso. Si crede che il senso sia trascendente ai segni per principio, così come il pensiero lo sarebbe a indici sonori o visivi – e lo si considera immanente ai segni in quanto ognuno di essi, avendo il suo senso una volta per tutte, non potrebbe insinuare fra noi e se stesso nessuna opacità, e nemmeno darci da pensare: i segni fungerebbero solamente da monito, indicherebbero nell’ascoltatore quale dei suoi pensieri deve considerare. In verità, non è così che il senso abita la catena verbale, e non è così che se ne distingue. Se il segno vuol dire qualcosa solo in quanto si profila sugli altri segni, il suo senso è tutto inserito nel linguaggio, la parola opera sempre su uno sfondo di parola, non è mai altro che una piega nell’immenso tessuto del parlare. Per comprenderla, non dobbiamo consultare qualche lessico interiore che ci dia, per i vocaboli o le forme, i pensieri puri a cui essi corrisponderebbero: basta che ci offriamo alla sua vita, al suo movimento di differenziazione o di articolazione, alla sua eloquente gesticolazione. C’è dunque un’opacità del linguaggio: esso non si interrompe mai per lasciare il posto al senso puro, non è mai limitato se non da altro linguaggio e il suo senso è sempre incastonato nelle parole. Come una sciarada, non lo si comprende che per l’interazione dei segni, ciascuno dei quali, considerato isolatamente, è o equivoco o banale: solo riuniti essi hanno senso. In colui che parla come in colui che ascolta, si tratta di ben altro che di una tecnica del cifrare o del decifrare usata per significazioni bell’e fatte: egli deve anzitutto farle esistere a titolo di entità reperibili, installandole all’incrocio dei gesti linguistici come ciò che questi indicano in comune accordo. Le nostre analisi del pensiero procedono come se, prima di trovare le sue parole, esso fosse già una specie di testo ideale che le nostre frasi tentano di tradurre. Ma l’autore stesso non ha nessun testo da poter confrontare con il suo scritto, nessun linguaggio prima del linguaggio. Se la sua parola lo soddisfa, è per un equilibrio di cui essa stessa definisce le condizioni, per una perfezione senza modello. Assai più che un mezzo, il linguaggio è qualcosa di simile a un essere, e proprio per questo riesce così bene a renderci presente qualcuno: la parola di un amico al telefono ci dà l’amico stesso, come se egli fosse tutto in quella maniera di interpellare e di congedarsi, di cominciare e di finire le sue frasi, di camminare attraverso le cose non dette. Il senso è il movimento totale della parola – ecco perché il nostro pensiero è sparso nel linguaggio; ecco perché, anche, il nostro pensiero lo attraversa, così come il gesto oltrepassa successivamente i suoi punti di passaggio. Nel momento stesso in cui colma il nostro spirito per intero, senza lasciare il più piccolo posto a un pensiero che non sia preso nella sua vibrazione, e proprio nella misura in cui ci abbandoniamo a esso, il linguaggio oltrepassa i «segni» verso il loro senso. E nulla ci separa più da questo senso: il linguaggio non presuppone una sua tavola di corrispondenza, ma svela da sé i suoi segreti, li insegna a ogni bambino che viene al mondo, è interamente atto di mostrare. La sua opacità, il suo ostinato riferirsi a se stesso, il suo ritornare e ripiegarsi su se stesso, sono proprio quel che ne fa un potere spirituale; infatti esso diviene a sua volta qualcosa come un universo, capace di abbracciare in sé le cose stesse – dopo averle cambiate nel loro senso.
Ora, se allontaniamo dal nostro spirito l’idea di un testo originale di cui il nostro linguaggio sarebbe la traduzione o la versione cifrata, vedremo che l’idea di una espressione completa è assurda, che ogni linguaggio è indiretto o allusivo, è, se si vuole, silenzio. Il rapporto tra il senso e la parola non può più essere quella corrispondenza puntuale alla quale ci riferiamo sempre. Saussure fa notare che, dicendo the man I love, l’inglese si esprime non meno completamente del francese che dice «l’homme que j’aime». Si dirà che l’inglese non esprime il pronome relativo; ma la verità è che, invece di essere espresso da una parola, esso entra nel linguaggio come un vuoto tra le parole. Ma non diciamo neppure che è sottinteso: la nozione di sottinteso esprime ingenuamente la nostra convinzione che una lingua (generalmente la nostra lingua materna) sia riuscita a captare nelle sue forme le cose stesse, e che ogni altra lingua, se vuole riuscirvi anch’essa, deve usare, almeno tacitamente, strumenti analoghi. Ora, se per noi il francese va alle cose stesse, non è certo perché abbia riprodotto le articolazioni dell’essere: esso ha una parola distinta per esprimere la relazione, ma non designa la funzione completamente mediante una desinenza speciale; si potrebbe dire che sottintende la declinazione, espressa invece dal tedesco (e anche l’aspetto, espresso dal russo, e l’ottativo, espresso dal greco). Se il francese ci sembra ricalcato sulle cose, non è perché lo sia ma perché ce ne dà l’illusione mediante i rapporti interni tra segno e segno. Ma the man I love lo fa altrettanto bene. L’assenza di segno può essere un segno, e l’espressione non sta nel far aderire a ogni elemento del senso un elemento del discorso, è una operazione del linguaggio sul linguaggio che a un tratto si decentra verso il suo senso. Dire non è mettere una parola sotto ogni pensiero: se lo facessimo, nulla sarebbe mai detto, non avremmo il sentimento di vivere nel linguaggio e resteremmo nel silenzio, perché il segno svanirebbe subito davanti a un senso di sua appartenenza, e perché il pensiero non incontrerebbe mai altro che pensieri: quello che esso vuole esprimere, e quello che formerebbe con un linguaggio interamente esplicito. Viceversa, talvolta noi abbiamo il sentimento che un pensiero è stato detto – non sostituito da indici verbali, ma incorporato nelle parole e reso in esse disponibile –, e in definitiva c’è un potere delle parole perché, lavorando le une contro le altre, esse sono attirate a distanza dal pensiero come le maree dalla luna, e in questo tumulto evocano il loro senso ben più imperiosamente che se ognuna richiamasse solo una significazione sbiadita di cui sarebbe l’indice indifferente e predestinato. Il linguaggio dice perentoriamente quando rinuncia a dire la cosa stessa. Come l’algebra fa entrare nel calcolo grandezze ignote, così la parola differenzia significazioni che, prese isolatamente, non sono note, ed è a forza di trattarle come note, di darci un ritratto astratto di esse e del loro commercio, che il linguaggio finisce per imporci, in un lampo, l’identificazione più precisa. Il linguaggio significa quando, invece di copiare il pensiero, si lascia fare e disfare da esso. Esso porta il suo senso così come l’orma di un passo significa il movimento e lo sforzo di un corpo. Dobbiamo distinguere l’uso empirico del linguaggio già fatto e l’uso creatore, di cui il primo, d’altra parte, non può essere che un risultato. Quel che è parola nel senso del linguaggio empirico – cioè l’opportuno richiamo di un segno prestabilito, – non lo è rispetto al linguaggio autentico: come ha detto Mallarmé, è la moneta usata che mi vien messa in mano silenziosamente. Invece la parola vera, quella che significa, che rende infine presente l’absente de tous bouquets e libera il senso prigioniero nella cosa, non è che silenzio rispetto all’uso empirico, poiché non giunge fino al nome comune. Il linguaggio è di per sé obliquo e autonomo, e se gli accade di significare direttamente un pensiero o una cosa, è in virtù di un potere secondo, derivato dalla sua vita interiore. Come il tessitore, lo scrittore lavora dunque alla rovescia, ed è così che si trova improvvisamente circondato di senso.
Se questo è vero, la sua operazione non è molto diversa da quella del pittore. Si è soliti dire che il pittore ci raggiunge attraverso il mondo silenzioso dei colori e delle linee, si rivolge in noi a un potere di decifrazione non formulato e di cui avremo appunto il controllo solo dopo averlo esercitato alla cieca, dopo aver amato l’opera. Lo scrittore, invece, si installa in segni già elaborati, in un mondo già parlante, ed esige da noi soltanto un potere di riordinare le nostre significazioni secondo l’indicazione dei segni che ci propone. Ma se il linguaggio può esprimere tanto in virtù di ciò che sta fra le parole quanto in virtù delle parole? Tanto in virtù di ciò che esso non «dice» quanto in virtù di ciò che «dice»? Se c’è, nascosto nel linguaggio empirico, un linguaggio alla seconda potenza, dove i segni vivono di nuovo la vita vaga dei colori, e dove le significazioni non si liberano completamente dal commercio dei segni?
L’atto di dipingere ha due facce: c’è la macchia o il tratto di colore che si pone in un punto della tela, e c’è il loro effetto nell’insieme, senza misura comune con essi, poiché essi non sono quasi niente e bastano a cambiare un ritratto o un paesaggio. Chi osservasse il pittore troppo da vicino, con il naso sul suo pennello, vedrebbe solo il rovescio del suo lavoro. Il rovescio è un tenue movimento del pennello o della penna di Poussin, mentre il diritto è lo sprazzo di luce che esso sprigiona. Una cinepresa ha registrato al rallentatore il lavoro di Matisse: ne risultava un’impressione prodigiosa, tanto che Matisse stesso ne fu commosso, a quanto si dice. Quello stesso pennello che, visto a occhio nudo, saltava da un atto all’altro, ora lo si vedeva meditare, in un tempo dilatato e solenne, come nell’imminenza del principio del mondo, tentare dieci movimenti possibili, danzare davanti alla tela, sfiorarla più volte e infine gettarsi in un lampo sul solo tracciato necessario. In questa analisi c’è naturalmente qualcosa di artificiale, e Matisse si è ingannato se ha creduto, sulla fede del film, di aver veramente scelto, quel giorno, fra tutti i tracciati possibili, e risolto, come il Dio di Leibniz, un immenso problema di minimo e di massimo: egli era un uomo, non un demiurgo. Matisse non ha tenuto sotto lo sguardo dello spirito tutti i gesti possibili, e non ha avuto bisogno di eliminarli tutti tranne uno, dando ragione della sua scelta. È il rallentatore a enumerare i possibili. Matisse, situato in un tempo e in una visione d’uomo, ha guardato l’insieme-aperto della tela cominciata, e ha portato il pennello sul tracciato che lo chiamava perché il quadro fosse infine ciò che era in via di diventare. Con un semplice gesto egli ha risolto il problema che a cose fatte sembra implicare un numero infinito di dati, come la mano, secondo Bergson, ottiene di colpo, nella limatura di ferro, il complicato assestamento che le farà posto. Tutto si è svolto nel mondo umano della percezione e del gesto; e la macchina da presa ci dà una visione affascinante dell’evento proprio facendoci credere che la mano del pittore operava nel mondo fisico nel quale sono possibili infinite opzioni. Tuttavia, è vero che la mano di Matisse ha esitato, è quindi vero che vi è stata una scelta e che il tratto è stato scelto in modo da osservare varie condizioni sparse sulla tela, non formulate, non formulabili da altri che da Matisse, poiché non erano definite e imposte se non dall’intenzione di fare quel quadro, che non esisteva ancora.
Non altrimenti si comporta la parola veramente espressiva, e quindi ogni linguaggio nell’atto di stabilirsi. Essa non cerca soltanto un segno per una significazione già definita, come si va a cercare un martello per piantare un chiodo o una tenaglia per estrarlo. La parola va a tastoni intorno a una intenzione di significare che non si regola su un testo, e che appunto lo sta scrivendo. Se vogliamo renderle giustizia, dobbiamo immaginare alcune di quelle che avrebbero potuto essere al suo posto, e che sono state respinte, sentire come avrebbero diversamente toccato e scosso la catena del linguaggio, fino a che punto questa parola era la sola possibile affinché una data significazione venisse al mondo… Infine, dobbiamo considerare la parola prima che sia pronunziata, considerare lo sfondo di silenzio che continuamente la circonda, senza il quale essa non direbbe niente, o anche mettere a nudo i fili di silenzio di cui è inframezzata. Per le espressioni già acquisite c’è un senso diretto, che corrisponde puntualmente a costrutti, forme, vocaboli istituiti. Apparentemente, non ci sono qui lacune non c’è silenzio parlante. Ma il senso delle espressioni in via di compimento non può essere di questo genere: c’è un senso laterale o obliquo, che si spande tra le parole, – c’è un altro modo di scuotere l’apparato del linguaggio o del discorso per ricavarne un suono nuovo. Se vogliamo comprendere il linguaggio nella sua operazione originaria dobbiamo immaginare di non aver mai parlato, sottometterlo a una riduzione senza la quale ci sfuggirebbe ancora riportandoci a ciò che esso significa, guardarlo come i sordi guardano coloro che parlano, confrontare l’arte del linguaggio con le altre arti dell’espressione, tentare di vederlo come una di queste arti mute. Può darsi che il senso del linguaggio abbia un privilegio decisivo, ma solo tentando di fare questo parallelo, noi scorgeremo ciò che forse lo rende infine impossibile. Cominciamo con il comprendere che c’è un linguaggio tacito e che la pittura parla a modo suo.
Malraux osserva che la pittura e il linguaggio sono confrontabili solo quando sono stati staccati da ciò che «rappresentano» per essere riuniti sotto la categoria dell’espressione creatrice: a questo punto essi si riconoscono reciprocamente come due volti dello stesso t...