La storia del Blues
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La storia del Blues

Roberto Caselli

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  1. 338 pagine
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La storia del Blues

Roberto Caselli

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Il blues è la voce dell'anima. Il blues è l'avventura del nero americano che cerca di scuotersi di dosso la schiavitù, che cerca una diversa identità. Il blues è la voce intima dello swing, del be bop, ma anche del jazzista free quando negli anni '60 lo rinnegherà perché in esso vedrà gli spettri dei momenti più iniqui della sua storia. Perché possa manifestarsi non ha necessariamente bisogno delle dodici battute, è sufficiente covarselo nell'anima e allora in qualche modo lo si vedrà emergere, magari in un assolo di sax o in una rullata di batteria, e sorprenderà per la sua forza, per la veemenza con cui verrà veicolato. Ma il blues è soprattutto una grande metafora che esplicita la natura dell'uomo, sempre alla ricerca del bene e sempre pronto a inciampare nel male. Così nel blues convivono il sacro e il profano, sempre apparentemente dicotomici, mai in realtà completamente separati. Il libro racconta il blues dalle sue origini ad oggi: passa in rassegna musicisti e stili, si sofferma sulle influenze e sugli aneddoti che hanno reso mitici i suoi personaggi. In questa seconda edizione si è voluto introdurre per la prima volta anche un lungo, esaustivo capitolo sulla storia del blues italiano. Una bella realtà che ormai non ha più soggezione di nessuno, ma che tarda ad avere la vetrina che merita.

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Informazioni

Editore
Hoepli
Anno
2020
ISBN
9788820395841
Il primo stile a sedimentarsi nella tradizione blues fu quello del Delta, probabilmente il più puro e originale. Ma ben presto ogni stato del Sud mise a punto un proprio modo di suonare, riconoscibile fra tutti gli altri.
La geografia delle città in cui il blues si sviluppò contribuì a determinare le influenze, ma furono soprattutto i continui spostamenti a plasmarne gli stili. In più, le prime registrazioni di successo funzionarono da traino per le costruzioni successive, che tendevano a uniformarsi proprio su quei modelli. Nacquero così il blues del Tennessee, del Texas, del Piedmont e della Louisiana. Prima ancora che il blues diventasse elettrico, passò attraverso la fase urbana con le città di Chicago e Kansas City come capitali. Negli anni ‘40, in seguito a migrazioni di bluesman texani verso occidente, si sviluppò in California anche il jump blues, che ebbe in Los Angeles il centro propulsivo. Qui, per la prima volta, si elettrificò la chitarra, grazie a personaggi come Charlie Christian e T-Bone Walker, e si posero le basi per il successivo sviluppo della nuova musica di Chicago.
“Se T-Bone Walker fosse stato una donna le avrei chiesto di sposarmi. Non avevo mai sentito nessuno suonare come lui: singole note blues ricavate da una chitarra elettrica”
B.B. KING
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CROSSROADS
COUNTRY BLUES E PRIMI BLUES URBANI
Uomini e stili del country blues
“Il blues è facile da suonare, ma è difficile da sentire”
— JIMI HENDRIX
IL BLUES DEL DELTA
Secondo gli studiosi qui è nato il blues nella sua forma più originale, e sempre qui si sono create le leggende legate al mito del crocicchio, dove nelle notti di plenilunio il diavolo era disponibile a patti con gli umani. Dalle piantagioni di cotone del Delta sono usciti alcuni tra i musicisti più straordinari della storia del blues.
La regione del Delta è una lingua di terra compresa tra le acque del Mississippi che scorrono poco più a sud di Memphis e il fiume Yazoo che in esso confluisce nei pressi di Vicksburg, lungo la mitica Highway 61. Non è quindi da confondere con il delta di carattere geologico che lo stesso Mississippi effettivamente crea sfociando nel Golfo del Messico. Qui si estendeva la cosiddetta “Cotton Belt”, un’area sterminata di piantagioni di cotone, le più vaste dell’intero Sud. Sempre qui, con buone probabilità, nacque il blues. L’isolamento geografico, cui i piccoli centri di questa zona furono sottoposti per molto tempo, ha finito col conservare l’originalità della musica e ne ha permesso la sedimentazione. Nella regione del Delta echeggiano nomi di luoghi mitici e famigliari per chi ama il blues: Clarksdale, che tenne a battesimo John Lee Hooker, Itta Bena, dove nacque B. B. King, Helena e Greenwood, in cui morirono rispettivamente Sonny Boy Williamson II e Robert Johnson. E poi ancora Greenville, Hollandale, Vicksburg e tanti altri.
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LA STRADA DEL BLUES
La Highway 61, con i suoi oltre duemila chilometri di asfalto, taglia verticalmente gli Stati Uniti seguendo in buona parte il percorso del “grande padre” Mississippi e mettendo in comunicazione New Orleans con il Canada. Nel suo primo tratto, fino alle porte di Memphis, essa viene anche chiamata “la strada del blues”. Dal 1926, anno della sua inaugurazione, e per tutti gli anni ‘30 e ‘40 sono passate lungo questa arteria le grandi migrazioni verso nord, cui si accodavano anche i bluesman per portare la loro musica a Memphis, St. Louis, Chicago e con opportune deviazioni a Kansas City, Indianapolis e Detroit. Ma il blues delle origini, quello del Delta, lo troviamo sparso nei piccoli centri di Clarksdale, Vicksburg, Greenville e Natchez, dove la Highway 61 si snoda un po’ più tortuosa, quasi volesse ricordare le difficoltà della vita grama a cui i neri furono sottoposti.
A Bolton, nel 1880, nacque Charley Patton, uomo piccolo di statura, uno strano incrocio di almeno tre razze: in lui confluivano curiosamente la carnagione scura, i capelli quasi biondi e gli zigomi che tradivano una discendenza pellerossa.
Fu figlio illegittimo di Henderson Chatmon, un suonatore di violino che trasmise il suo amore per la musica alla numerosa prole. La famiglia Chatmon, infatti, avrebbe dato al blues, oltre a Patton, almeno altri due grandi interpreti: Sam e Armenter, quest’ultimo più noto con il nome di Bo Carter. Charley Patton imparò ben presto a suonare la chitarra e molto giovane si trasferì a lavorare nella piantagione dei Dockery, che allora raccoglieva il meglio dei bluesman del tempo. Conobbe e fece musica con Willie Brown, Son House, Tommy Johnson e con l’allora giovanissimo Robert Johnson. Il modo di suonare di Patton era piuttosto rozzo: Charley percuoteva la cassa della chitarra per darsi un maggiore accompagnamento ritmico a supporto della sua voce possente.
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Charley Patton
Patton ci riporta a un linguaggio antico, ancora pesantemente caratterizzato dalle influenze africane, che si manifestano soprattutto nel ritmo e nell’uso di particolari scale musicali. Nei suoi brani, il ritmo non è semplicemente limitato a una forte sincope, ma viene continuamente spezzato e cambiato, fino a creare unità indipendenti che si intersecano nella struttura metrica.
La produzione musicale di Charley Patton comprende una cinquantina di pezzi: blues, ballate e canzoni che provenivano sia dalla tradizione bianca rurale sia da quella nera.
Nella visione di Patton, il musicista doveva soddisfare tutte le richieste del pubblico, e perciò non si limitava a proporre soltanto un genere particolare, ma badava a essere anche un buon entertainer che non lesinava numeri di bravura come quello di suonare la chitarra dietro la schiena. Morì nel 1934 in seguito a una crisi cardiaca, pochi mesi dopo avere registrato una session per conto dell’American Record Company.
Nonostante Charley Patton fosse da tutti considerato un grande maestro non lasciò molti epigoni. A parte Howlin’ Wolf, al secolo Chester Burnett, che cercò per tutta la vita di imitarne lo stile vocale ma che poi si esibì in un contesto urbano con band elettrificate, forse il solo Big Joe Williams, per la potenza percussiva che si riscontra nei suoi blues, può considerarsi in qualche modo suo discepolo. È anche possibile che lo stile arcaico di Patton, col passare del tempo, non riscuotesse più il gradimento del pubblico, che preferiva una maggiore linearità di esecuzione, come quella garantita da personaggi come Son House e Robert Johnson. Ed è forse anche per questo che artisti di valore come Willie Brown, che furono effettivamente influenzati dal bluesman di Bolton, non riuscirono a incidere più di tanto e finirono col fare più la fortuna di altri musicisti che non la propria.
“È un gemito nero e crudele e sta davanti alla mia porta. Quando lascerò Chicago, Dio, non ci tornerò mai più”
CHARLEY PATTON
Eddie Son House era più giovane di Patton, nacque in una fattoria vicino alla città di Clarksdale ed ebbe un’infanzia caratterizzata da rigidi insegnamenti religiosi impartiti dalla famiglia: così finì per scegliere la strada della predicazione. Il suo incontro con il blues avvenne casualmente e non in giovanissima età, ma lo sconvolse a tal punto da fargli mettere in dubbio la missione di pastore battista.
La dicotomia tra sacro e profano risulterà infatti essere la tematica pregnante e essenziale del musicista nel corso di tutta la sua vita. La tecnica chitarristica adottata era molto più fluida di quella di Patton, e si avvaleva dell’uso quasi costante dello slide, originariamente costituito da un collo di bottiglia inserito sul dito mignolo o anulare della mano sinistra, o da una lama di coltello, da sfregare sulle corde della chitarra. Il suono che se ne ricavava era particolare, generalmente metallico e sofferto, ma anche dipendente dalla velocità e dal grado di vibrato. Son House era un autentico maestro dello slide: sempre contenuto, non ha mai fatto sfoggio di virtuosismo fine a se stesso, ma badava piuttosto a suonare con l’anima. Incise per la prima volta, per conto della Paramount, nel 1923, quando aveva già ventotto anni: in quell’occasione conobbe Willie Brown, con il quale si unì per formare insieme a Charley Patton un formidabile terzetto noto come i Mississippi Saints. Nei primi anni ‘40 Son House registrò le storiche incisioni per la Library Of Congress – per le quali ebbe come compenso una Coca Cola che, ironicamente, durante un’intervista definì “essere molto fresca” – e nel corso del revival partecipò a moltissimi folk festival che gli diedero una certa popolarità. Son House, morto nel 1988, è stato un personaggio fondamentale anche per avere ricostruito con i suoi ricordi personali alcuni spaccati della storia del blues. Il motivo principale per cui, a ragione o a torto, viene ricordato è quello di essere stato il vero maestro di quel musicista “maledetto” che fu Robert Johnson, personaggio fondamentale nello sviluppo dello stile Delta, ma anche precursore di quello che sarebbe poi diventato il blues di Chicago. Robert Johnson, “moody man”, uomo lunatico, come lo definì Johnny Shines che lo accompagnò in gioventù nei suoi vagabondaggi, è entrato nella leggenda, e come tutte le leggende che si rispettano unisce al vero parecchio fantastico: quel tanto che basta per creare un mito. La storia di Robert Johnson, “The King Of The Delta Blues”, è stata ricostruita solo negli ultimi trent’anni e il merito va soprattutto alle lunghe e maniacali ricerche di Mack McCormick, che è anche riuscito a recuperare un paio di sue fotografie. Si dice che Robert Johnson sia nato l’8 maggio 1912 a Hazlehurst, ma qualcuno afferma con ostinazione che si trattava del 1911, altri addirittura del 1910. Non è mai stato trovato un certificato di nascita che risolvesse la questione, ma di certo la madre fu Julia Majors Dodds, che al momento della nascita di Robert aveva già avuto dieci figli. Nessuno dei due uomini che lo crebbero era il vero padre biologico, che sembra sia sparito subito dalla circolazione. Robert imparò i primi rudimenti chitarristici dal fratellastro e sempre in quegli anni prese dimestichezza con l’armonica, che elesse a suo strumento preferito. Suonava allora piuttosto male, tanto da essere spesso oggetto delle benevoli prese in giro di Son House e di Willie Brown, che se lo trovavano sempre tra i piedi. Ma dopo un breve periodo di latitanza, Johnson a quanto pare tornò e stupì tutti per la tecnica chitarristica maturata. Affermò di averla imparata direttamente dal diavolo, dopo aver accettato un patto demoniaco: l’anima in cambio della perizia musicale.
“I blues non sono altro che un crudele, doloroso gelo che ti agita”
SON HOUSE
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TRADITIONAL O ORIGINAL?
La spinosa questione delle cover
I musicisti del Delta costituirono un serbatoio senza fine da cui trarre ispirazione per tutte le band di blues rock che negli anni ‘60 e ‘70 si formarono in Europa e in America.
Con la scusa dei diritti scaduti quasi nessuno badò a versare ai vecchi bluesman un minimo di riconoscimento monetario. Una delle pochissime eccezioni fu quella di Eric Clapton che, quando riprese con i Cream I’m So Glad di Skip James, volle pagare al vecchio bluesman il dovuto, in modo da permettergli di curarsi il cancro e di vivere un po’ di tempo in più. Molto meno coscienziosi furono invece i Led Zeppelin, che copiarono frasi intere da Travelling Riverside Blues di Robert Johnson nella loro The Lemon Song senza spendere nemmeno una parola sulla provenienza. Gli ZZ Top furono addirittura condannati a pagare i diritti a John Lee Hooker per avere ampiamente preso spunto da Boogie Chillen per la composizione della loro La Grange. E tra i tanti altri esempi che si potrebbero fare, vale la pena di ricordare la sfacciataggine con cui Bob Dylan arrivò al punto di mettere la propria firma sulla celebre Rollin’ And Tumblin’ di Muddy Waters.
Più che dal diavolo aveva certamente imparato molto da Son House, che Robert con avidità osservò suonare per lungo tempo; approfondì la tecnica dello slide e ancora più del maestro concepì i testi come storie ...

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