L’obiezioni di coscienza
Perché sono obbiettore di coscienza
Lettera aperta, 1962
Il giorno 12 Novembre ho rifiutato di indossare la divisa militare perché il servizio militare contrasta con la mia coscienza di cattolico. Sono convinto poi che tradirei non solo la mia risposta personale al Cristo e la mia vocazione nella Chiesa, ma anche il mio impegno di uomo nella Società ed il mio dovere di cittadino di fronte allo Stato.
A non pochi un contrasto così palese in me, tra la fedeltà allo Stato ed una viva presenza nella Chiesa risulterà inconcepibile, anche perché finora il rifiuto di servire la patria in armi è stato prerogativa dei Testimoni di Geova (un centinaio dal 1946 ad oggi), coi quali mi trovo a condividere le sofferenze, pur non abbracciandone la fede e gli ideali.
D’altra parte la qualifica di obiettore di coscienza è troppo generica per gettare un po’ di luce sulla mia posizione, pur essendo chiaro (almeno per me) che l’obiezione di coscienza non si limita al servizio militare: ogni volta che un uomo rifiuta di divenire complice di una situazione ingiusta, di eseguire comandi e compiere azioni contrarie ai suoi principi, si ha obiezione di coscienza.
Vi sono varie forme di coscienza e “molte sono le mansioni nella casa del Padre”, che chiama chi vuole e dove vuole. La mia obiezione di coscienza presuppone tutta una concezione dell’uomo, figlio di Dio e dei rapporti tra gli uomini, tutti fratelli in Cristo, come traspare dalla rivelazione cristiana, di cui vorrei essere umile testimone. Ma presuppone anche una vocazione personalissima, maturata in me durante lunghi anni, a vivere il più integralmente possibile quella non violenza evangelica fondata sulla legge nuova che mi comanda di “amare il prossimo come me stesso” e che si realizza, come stile di azione e di presenza, nella resistenza attiva al male con la forza dell’amore, nel rifiuto della “violenza connaturale all’uomo”, come se la natura non potesse essere redenta dalla Grazia.
La Chiesa mi insegna che il Vangelo non è un sistema di tipo teorico, un codice morale, ma è la Parola rivelata e il Cristo non è un personaggio storico o un grande filosofo, ma la Verità fatta carne. Quindi l’annuncio di “pace agli uomini di buona volontà” che parte dalla capanna di Betlemme e finisce sulla Croce come perdono universale e riconciliazione fra Dio e gli uomini, non è un insegnamento morale, ma una verità che il cristiano deve “incarnare” nella sua vita come membro di quel Corpo di Cristo che è la Chiesa.
Di fronte alla pace gaudente dei militaristi di tutte le razze, per me cattolico la pace porta il segno dei chiodi ed è il bene per cui devo soffrire di più sulla terra: si tratta per me di amare sempre il prossimo anche quando è il nemico militare o l’avversario politico, anche quando ha la pelle di colore diverso o appartiene ad un’altra classe sociale ecc., perché il resto “lo sanno fare anche i pagani”. Di fronte alle scelte temporali, nel giuoco dei rapporti di forza, quando - come oggi - non è più necessario volere la guerra per farla ed è messo in pericolo il destino stesso dell’uomo, c’è il rischio che la mia “obiezione di coscienza” di fronte al servizio militare risulti anzitutto un sacrificio egoistico, come un “salvarsi la propria anima” ed appaia inoltre agli occhi degli amici {anche i più vicini) come puro profetismo, pacifismo astratto, aristocratico individualismo o peggio. Invece, quanto al mettere in pace la mia coscienza, devo dire che mai come in questi giorni la mia coscienza è un vulcano, perché capisco benissimo che rifiutare il male implicito per me nel servizio militare, non è ipso facto fare la pace. L’assenza o la quiete delle armi non è ancora la pace che deve essere un impegno di ogni uomo e deve essere costruita insieme giorno per giorno almeno con gli stessi sacrifici di mezzi e di ingegno, di sudore e di sangue impiegati per la guerra. Per me il male non è la guerra. Semmai è un male presente anche in quello che per eufemismo chiamiamo “tempo di pace”, perché mette le sue radici in altri mali: l’ingiustizia, la fame, lo sfruttamento, l’ignoranza, la malattia ecc.; di fronte ai quali vorrei esercitare molto più positivamente la mia “obiezione di coscienza”. Inutile quindi aggiungere che sarei disposto a servire la patria in un servizio civile alternativo che mi offra questa possibilità.
Sembreranno le mie giustificazioni troppo altisonanti di fronte ad un atto come il rifiuto del servizio militare che, pur essendo così carico di sanzioni giuridiche, tuttavia, così poco incide socialmente sulla realtà degli uomini. Ma il problema per me, non è quello, banale in fondo, il portare o no la divisa militare, ma quello di agire nel presente hic et nunc per sbarrare il cammino alla violenza, istituzionalizzata.
Se fosse sufficiente affermare il “Tu non uccidere”, fare il servizio militare, ma non voglio “lasciare uccidere”, non voglio che la violenza trionfi nelle varie forme con cui l’uomo, immagine di Dio, è calpestato. Questa decisione non mi isola dall’impegno nella storia degli uomini e dal rischio comune nella realtà di tutti, non è senza incidenza nella vita sociale di fronte alle esigenze del bene comune, perché - mentre mi appello ai valori umani distrutti da ogni struttura militare, chiedo la libertà di realizzarli, di renderli vivi, di attuarli nella mia esistenza concreta, nei rapporti tra gli uomini, nelle istituzioni della vita civile. So bene che nella situazione storica attuale la pace e la guerra non dipendono solo da me, e nemmeno dalle singole nazioni, forse neppure dai blocchi militari contrapposti. Ma appunto per questo la pace nella giustizia, non la pace armata, la riconciliazione universale degli uomini con Dio e tra di loro deve essere oggi l’impegno di ogni individuo, dei singoli stati, di tutte le alleanze internazionali.
L’assurdo storico-politico cui siam giunti è che gli stati non possono più farsi la guerra, ma il mondo può essere distrutto con una scelta che sfugge al giudizio ed alla volontà dell’uomo. Per riprendere in mano il proprio destino, per costituire la pace, fino ad oggi, nessuno stato ha mai speso materialmente nulla e nessuno individuo (salvo luminose eccezioni) ha messo sul piatto la propria vita.
A questo punto salta fuori il rospo: “Tu parli bene, però vai a sbattere la testa contro l’implacabilità della legge italiana che ti condanna fino a quarantacinque anni e finisci per trovarti in una situazione-limite, in un vicolo chiuso, finisci per non essere utile né a te stesso né agli altri”. Ma le leggi sono onera degli uomini e per cambiarle, basta volerlo in tanti, bisogna porre continuamente sul tappeto il problema del riconoscimento giuridico dell’obiezione di coscienza senza stancarsi e sopratutto inquadrandolo in una vasta rivoluzione della vita civile.
...Certo noi tutti “obiettori”, resistiamo fin a quando abbiamo fiato e fin quando ce lo concedono le autorità militari. Ma al di là di questo scottante e terribile “impasse” (che non è certo risolto per me, perché evidentemente non si decide una volta per tutte), vorrei concludere queste mie parole (che vorrebbero essere soprattutto un segno di amicizia per amici e nemici) con un passo della esortazione di Papa Giovanni XXIII proprio negli ultimi giorni della vigilia conciliare: “Siate uomini pacifici, siate costruttori di pace. Non attardatevi sui fatui giuochi di polemica amara ed ingiusta, di avversioni preconcette e definitive, di rigide catalogazioni di uomini e di eventi. Siate sempre disponibili per i grandi disegni della Provvidenza. La Chiesa questo e non altro vuole con il suo Concilio”.
Con la Chiesa prego ed attendo dal Concilio che sia anche riaffermato il primato della coscienza per tutti gli umilissimi e, spesso, indegni “costruttori di pace”, come me, e difesa la libertà di coscienza come fondamento della stessa fede.
Carcere Militare Giudiziario - Firenze, 17 dicembre 1962
Don Milani ieri e oggi
“Giovedì prossimo (20 dic.) ci sarà a Firenze davanti al Trib. militare il processo del giovane cattolico milanese Giuseppe Gozzini obiettore. Se sarà condannato è fissato che i non-violenti fiorentini digiuneranno in piazza Duomo per tutto il giorno di Natale. Sono favorevolissimo alla manifestazione per molti motivi. Non ho mai partecipato alle marce della pace perché non appare chiara la loro utilità. Ma qui invece appare. C’è l’immediatezza della cosa. C’è che è cattolico. Una rarità tra gli obiettori che son tutti protestanti. E loro sono assistiti dalla solidarietà della loro chiesa. Giuseppe no. Poi c’è la difficoltà per ognuno di lasciare il pranzo familiare il giorno di Natale. Insomma a me pare molto sana cosa e ho intenzione di andarci con tutti i ragazzi che vorranno (di S. Donato e di qui). Purtroppo non potrò esserci prima di mezzogiorno perché ho da dire le Messe. Comunque la notizia della mia partecipazione è segretissima perché non voglio che mi arrivi la proibizione prima del fatto. Ti prego di fare tutto quello che puoi per sensibilizzare i tuoi colleghi dell’avvenimento...”.
Così scriveva don Milani al giornalista Giorgio Pecorini il 17 dicembre 1962 e aggiungeva di chiedere conferma della manifestazione ad Alberto L’Abate oppure alla Corsia dei Servi a Milano specificando che “Gozzini esce da quell’ambiente”.
Ero in galera alla Fortezza da Basso già da un paio di mesi e quindi aspettavo con ansia l’udienza del 20 dicembre ma il processo fu rinviato all’11 gennaio e la manifestazione, di cui parla don Milani, non ci fu. Stando “dentro”, di quel che avveniva “fuori” sapevo quel poco che mi aveva detto il prete operaio don Bruno Borghi, venuto a trovarmi in carcere. Nella Firenze di La Pira la gente comune si appassionava al caso dell’obiettore cattolico e ne parlava per le strade, nelle chiese, nei bar.
Infatti la mia futura moglie, venendo da Milano, alla fermata del tram chiede dov’è la Fortezza da Basso: “Ah, dov’è rinchiuso l’obiettore...”, le rispondono subito. “Sì, io vado proprio da lui!” E c’era chi voleva accompagnarla: “Gli dica che io (nome e cognome ) sono d’accordo!”. Del resto anche padre Balducci mi ha raccontato che a sollecitarlo a “prendere posizione” sono stati gli operai della Galileo, che sono andati a trovarlo per dirgli: “Ma qui non si fa nulla?” .Era un’Italia in cui le idee contavano più delle chiacchiere.
Per farla breve, il processo, che i più avveduti delle alte sfere politico-militari avrebbero voluto evitare, si concluse con una condanna a sei mesi senza condizionale: il “caso Gozzini” ebbe una risonanza enorme grazie soprattutto agli interventi autorevoli di padre Ernesto Balducci e di don Lorenzo Milani, che hanno pagato di persona ben più di me per la loro coraggiosa solidarietà (denuncie e ostracismi, processi e condanne).
Due giorni dopo la mia condanna (13 gennaio 1963) padre Balducci pubblica un articolo sul quotidiano “Il Giornale del Mattino” di Firenze...