ATTO III
FORME DI DELIRIO
LE RAGAZZE PERDUTE
Quando Ruslana Koršunova fu notata la prima volta, all’età di sedici anni, come potenziale top model, erano i suoi occhi ad attirare l’attenzione di tutti. Enormi e azzurri come quelli di un lupo: la luce delle sue radici siberiane, un sole bianco in lontananza, nel cuore dell’inverno, sulle distese innevate. La loro forza era esaltata da un leggero difetto fisico: sul fondo delle palpebre inferiori aveva come due piccole coppe, perennemente colme di liquido, il che rendeva lo sguardo sempre luccicante, come se stesse per piangere o se avesse appena smesso – anche se non si sarebbe potuto dire se per la gioia o la tristezza. Il resto del suo viso, in netto contrasto con gli occhi profondi, luminosi, azzurri e complessi, emanava innocenza. Gli occhi di una trentenne – più un’attrice che una modella – sul volto di una bambina.
A diciotto anni Ruslana era stata scelta come protagonista di una campagna pubblicitaria per un profumo «magico, incantevole» di Nina Ricci. Forse ricorderete lo spot. Ha un’atmosfera da fiaba. Ruslana – abito da sera rosa e una cascata di boccoli – entra in una sala completamente bianca e vuota, a eccezione di un albero scarno e spoglio da cui pende una boccetta di profumo rosa a forma di mela. Di fronte all’albero, una montagna di mele rosse. Ruslana vuole cogliere la mela rosa che è sul ramo, la cinepresa stringe su di lei, in preda a un’euforia giovanile. Si arrampica sulla montagna di mele, sempre più in alto, fino in cima, distende un braccio e raggiunge l’oggetto del suo desiderio.
Ruslana morì due giorni prima del suo ventunesimo compleanno. La notizia fu rilanciata dai tabloid, dalle emittenti via cavo e dalle riviste patinate: «Top model russa muore cadendo dal nono piano di un palazzo di Manhattan. Si pensa a un gesto suicida. Non è stato trovato alcun biglietto».
Nel momento esatto in cui il suo corpo toccò il suolo, esplose una marea di pettegolezzi e voci incontrollate. Si drogava? L’ha fatto per amore? O c’entra la mafia? Si prostituiva? Ruslana sembrava spezzettata in migliaia di versioni di sé – la tossica, la puttana, l’amante rifiutata. Ma il suo viso celestiale continuava a fissarmi oltre tutte queste dicerie.
Io avevo «accesso» a lei, una parolina magica che tutti i registi di documentari e i produttori televisivi bramano. Un mio amico era intimo dei familiari e di alcuni conoscenti di Ruslana. Nei mesi seguenti alla sua morte, avevano rifiutato di incontrare registi e produttori, ma per me avrebbero fatto un’eccezione. In preda all’eccitazione telefonai alla sede di TNT. Quella storia aveva tutto: top model, feste, suicidio... Mosca, New York, Londra e Parigi. Glamour e tragedia. È stato il lavoro che ho ottenuto con più facilità in tutta la mia vita. Mi versarono anche un anticipo più sostanzioso del solito per produrre il documentario.
«Che non sia troppo cupo, però», dissero le produttrici. «Sai bene che abbiamo bisogno di storie positive».
Ruslana morì in Water Street, all’angolo con Wall Street, a Manhattan, nel punto in cui il Financial District incontra l’East River. La sera del mio arrivo piove e fa freddo. Durante il giorno la zona è affollata di impiegati, ma dopo le sei del pomeriggio cala in fretta la quiete. Rimangono solo gli ultimi commessi che si affrettano verso casa nei loro completi neri da becchino, mentre le caffetterie si apprestano a chiudere. L’appartamento di Ruslana era nell’unico edificio residenziale della via. Una costruzione spigolosa in cemento, con i dodici piani disposti in maniera irregolare per riuscire a occupare l’angolo della strada. Ci vivono poche famiglie, solo gli stanchi operatori del commercio e della borsa, i fanti della globalizzazione: un commerciante di lana del Pakistan e un dottorando della Malesia. L’appartamento veniva occupato dalle modelle con ingaggi saltuari.
Il rapporto della polizia sulla sua morte contiene alcune foto scattate nella casa: niente libri, niente foto alle pareti, niente quadri. La porta era chiusa dall’interno. La portafinestra che dava accesso al balcone era aperta, l’impiantito cosparso di mozziconi – Ruslana fumava sempre lì. Il balcone era coperto da una spessa rete nera di protezione: accanto c’era un palazzo in costruzione; sul pavimento fu rinvenuto un coltello da cucina. Un ampio squarcio nella rete: doveva averla tagliata con il coltello. Il balcone non dà sulla strada, quindi non avrebbe potuto lanciarsi da lì: sarebbe finita sui terrazzi dei piani inferiori. C’era una piccola apertura nell’impalcatura del palazzo in costruzione. Era così stretta che solo una persona molto agile ci sarebbe potuta passare. Quando arrivarono gli agenti, nessuno di loro riuscì a entrarvi.
Lo scheletro del palazzo di quindici piani destinato a ospitare uffici era già stato ultimato. Un guscio di cemento, completo di scale e muri divisori, ma privo della facciata. Il rapporto della polizia non specifica quanto tempo abbia trascorso Ruslana vagando nel palazzo in costruzione. A un piano alto, una sezione del pavimento si protende all’esterno, verso la strada sottostante, come un trampolino. Potrebbe essersi lanciata da lì? Il rapporto non specifica il punto esatto da cui si sarebbe buttata.
Water Street era quasi deserta il sabato in cui Ruslana morì. Era il giorno più caldo dell’anno, il picco dell’estate newyorkese in cui la calura può farti venire il mal di testa. Di solito, durante il weekend i banchieri lasciano la città, ma nel periodo estivo chiunque abbia la possibilità abbandonare il Financial District lo fa. Alle 12.45 un operaio al lavoro in strada udì un tonfo: «Pensavo che una macchina avesse investito un passante. Così mi sono girato e ho visto la ragazza, sdraiata nel mezzo della strada», disse alla polizia. Giaceva sulla linea di mezzeria, a otto metri e mezzo dal palazzo in costruzione. Otto metri e mezzo. Ruslana non cadde per aver messo un piede in fallo. No, prese la rincorsa e si lanciò nel vuoto.
Aveva trascorso la sera prima con Vlada Rosljakova, la testimonial di Chanel. Sono fortunato a trovarla a New York – è in procinto di partire di nuovo, per l’Asia. Queste ragazze non assomigliano affatto alle loro immagini sulle riviste. Sono fragili, con sguardi persi che non sanno bene dove soffermarsi. Immagino che assumano quell’aria risoluta soltanto al lavoro, davanti all’obiettivo: nel resto del tempo, svanisce. Vlada ha un viso perfettamente proporzionato: occupa il centro dell’inquadratura in modo splendido, durante l’intervista.
«Abbiamo cenato a Manhattan, nel nostro bistrot preferito. Stavamo organizzando una sua visita a Parigi, qualche giorno dopo. Poi quella sera ho preso un volo per Parigi, per uno shooting. Mi ha scritto un sms quando sono atterrata, voleva sapere se il viaggio fosse andato bene. A New York doveva essere mattina. E poi, qualche ora più tardi... Qualche ora più tardi ho appreso della sua morte dal notiziario».
«Non hai notato nulla di strano?»
«No. Aveva trascorso a Mosca quasi tutto l’anno prima. Era da un po’ che non ci vedevamo, in realtà».
«Era preoccupata o arrabbiata per qualcosa?»
«No».
«Era fatta?»
«No!»
«Secondo te perché si è uccisa?»
«Mi rifiuto... Non posso... Non credo che si sia suicidata».
Vlada descrive Ruslana come una ragazza «dolce», «sincera» e «intelligente». «Sembrava una bambina». Lo ripete più volte: «Sembrava una bambina». La madre di Ruslana resta alle mie spalle per l’intera durata dell’intervista. Vlada ha accettato di parlare solo perché glielo ha chiesto la donna, ma non riesco a capire se stia rivelando tutto quello che sa. La madre di Ruslana trattiene il fiato, come a impedire al pianto di avere la meglio. Quando tocca a lei, scappa dalla stanza in lacrime dopo le prime domande.
«Non avrei dovuto permetterglielo. Mai. Era soltanto una bambina. Questo mondo non faceva per lei».
La donna ha gli stessi occhi della figlia, identici, e mentre le parlo mi sembra di percepire in qualche modo la presenza di Ruslana. Ha una voce sottile e affilata che sembra davvero perforarti i timpani.
Valentina, questo è il suo nome, odia i media, la televisione, i giornalisti – e chiunque si sia impossessato della storia della figlia, cercando di raccontarla.
«Perché tutti dicono che era una drogata e una prostituta? Come si permettono? Come fanno a parlare in quel modo di una persona che non conoscono? Non ne hanno il diritto!»
Le dico che nel mio caso sarà diverso. Campioni del sangue e degli organi di Ruslana sono conservati nel laboratorio del medico legale di New York che ha seguito il caso. Valentina mi concede il permesso di far analizzare il sangue per verificare la presenza di sostanze stupefacenti. Vuole anche che accertiamo se ci siano tracce di Roipnol e di cloroformio – o di qualsiasi altra droga che possano averle somministrato per farle perdere conoscenza.
«Non si sarebbe mai uccisa», ripetono Valentina e Vlada. «Non era una persona di quel tipo».
Ruslana era cresciuta ad Almaty, nel Kazakistan. La sua famiglia era russa: il padre era un ufficiale dell’Armata Rossa di stanza nell’allora repubblica kazaka fino al crollo dell’URSS. Dopodiché si reinventò nel settore privato.
«Eravamo ricchi. Alcuni tra i primi a esserlo veramente», mi racconta Valentina mentre passeggiamo per New York. «Poi mio marito venne ucciso».
Ruslana aveva solo cinque anni all’epoca. Aveva un fratellino, di nome Ruslan. Ruslan e Ruslana.
«Gli avete dato lo stesso nome?»
«Sì. È un nome bellissimo, non trova?»
Valentina si mise alla ricerca di un lavoro. Ricevette una proposta come venditrice porta a porta: le aziende americane di cosmetici si stavano espandendo nel Kazakistan. Il loro business era in calo in Occidente, ma stava vivendo un boom in Oriente. Valentina accettò la proposta. Seguì un addestramento che l’avrebbe trasformata in una venditrice perfetta: si può vendere qualunque cosa a chiunque, basta crederci. Le insegnarono i «segreti» del successo: indurre la cliente a dire «sì» tre volte durante la prima conversazione – anche se si parla del tempo – in modo che sarà più disposta a ripeterlo quando le verranno proposti un rossetto o una crema antiage. Nella Russia post-sovietica, queste aziende stavano conoscendo un successo incredibile: promettevano guadagni facili e la sapienza segreta della bellezza occidentale in un pacchetto unico. (In verità, alla base c’era un imbroglio: i venditori erano costretti a comprare ingenti quantità di cosmetici per poi provare a piazzarli. Credevano di essere commercianti, ma in realtà erano acquirenti.)
«Ero una delle migliori», continua Valentina, e posso quasi riconoscere l’orgoglio aziendalistico inculcatole durante l’addestramento. «Ero diventata una manager di medio livello».
Valentina iscrisse la figlia alla scuola tedesca locale, considerata il miglior istituto di Almaty. Frequentarla assicurava un certo prestigio. Ruslana portava l’apparecchio per i denti, prendeva ottimi voti e si preparava a frequentare l’università in Germania. Aveva i capelli lunghi fino alle ginocchia.
«Erano splendidi», ricorda Valentina. «La aiutavo a lavarli. Fino ai suoi quindici anni lo facevamo sempre insieme».
Quando arrivò la telefonata dell’agenzia di modelle, Valentina non la prese seriamente. Non le piaceva quel mondo, che le sembrava non molto lontano dalla prostituzione. Ruslana sarebbe andata all’università, comunque. Ma la talent scout continuava a chiamare con insistenza. Le spiegò che fare la modella le avrebbe permesso di pagarsi gli studi perfino in Inghilterra o in America. Ruslana sarebbe stata catapultata in Occidente, non sarebbe rimasta prigioniera a Mosca. Avrebbero cercato di farla sfilare durante la settimana della moda londinese.
«Londra! Finalmente vedrò Londra!», disse Ruslana, implorando la madre di lasciarla andare.
La scout dell’agenzia si chiama Tatiana Cherednikova. La scovo a Mosca. Sta andando all’aeroporto, parliamo sul sedile posteriore della sua auto. Mi aspettavo una donna con abiti firmati e tacchi alti. Ma Tatiana è l’esatto opposto. Indossa un maglione di lana con un motivo di renne e scarponi da neve. L’autoradio diffonde canzoni natalizie contenute in un cd. Si avvicina il Natale in Occidente (in Russia è a gennaio). Tatiana si è convertita al protestantesimo nel corso dei suoi viaggi in Europa e negli Stati Uniti.
«Lavoro duro e onestà. Non c’è altro», mi dice, parlando della sua nuova fede religiosa.
Le chiedo di Ruslana.
«Mi sento in colpa, è ovvio. Mi sembra di vederla, felice con la sua mamma, pronta ad andare all’università – poi salto fuori io e dico: “Ehi, vieni nel regno fatato delle modelle, è un posto magnifico...” E tutto va a finire in quel modo... Ma io credevo davvero che fosse un lavoro perfetto per pagarsi gli studi. Lo fanno un sacco di ragazze. È una possibilità».
Parla in modo molto onesto: non intuisco alcuna doppiezza in lei. Le chiedo come aveva scoperto Ruslana.
Tatiana trascorre metà della sua vita in viaggio, soppesando una serie infinita di zigomi, gambe, fianchi, labbra. Passa in rassegna migliaia di ragazze ogni anno. E forse due o tre di queste raggiungeranno la vetta. L’ex Unione Sovietica è il suo territorio. Durante la guerra fredda erano le spie a conoscere il paese, a studiarlo, a indagarne ogni dettaglio: ogni grattacielo, ogni strada fangosa, ogni fabbrica. Adesso sono gli scout delle agenzie di modelle. Voronež, Minsk, Karaganda, Almaty, Rostov: le grandi riserve della bellezza russa, ragazze semplici e sgraziate da affinare e trasformare in modelle. Molte persone non hanno mai sentito neanche nominare questi posti. Tatiana li conosce a menadito. L’Unione Sovietica si estendeva su un quinto delle terre emerse: gli stati che ne facevano parte producono il quindici per cento del petrolio mondiale. E più della metà delle modelle che sfilano sulle passerelle di Milano e Parigi provengono dall’ex Unione Sovietica.
Nel 2004 Tatiana si era diretta nel Kazakistan. Faceva parte della giuria di Miss Almaty. Era stata invitata dagli imprenditori locali: volevano che scegliesse una ragazza tra le partecipanti, molte delle quali erano le loro amanti, e la portasse a Parigi. Ma le ragazze erano tutte tette e culo – bamboline per oligarchi. Molto lontane dai canoni richiesti a Parigi e Milano. Aveva anche visitato tutte le agenzie durante la sua permanenza, ma non ne aveva trovata neanche una che andasse bene. Un viaggio deludente.
Tatiana era sul volo di ritorno. Aveva finito prima di quanto si aspettasse il tascabile che stava leggendo e prese a sfogliare la rivista di bordo.
Si fermò. Tra la pubblicità di un whisky e un articolo sulla flora del Kazakistan, compariva la foto di una ragazza. Splendida. Lo scatto era di dubbio gusto: una specie di orfanella in un abito succinto di stile tribale, in una posa a metà tra Lolita e Mowgli, circondata da una giungla di alberi di plastica. Ma la ragazza era splendida. Aveva due occhi azzurri che le assicuravano uno sguardo potente e tanto profondo da – così sembrava – inglobare Tatiana, l’aereo e le nuvole, giocattoli sospesi in quella vastità azzurra.
Appena atterrò, Tatiana chiamò i suoi colleghi dell’agenzia a Mosca: «Trovate quella ragazza», disse. «Trovatela».
Ma Ruslana non era una modella. Nessuna agenzia aveva mai sentito parlare di lei. Alla fine individuarono l’autore dello scatto. Ruslana era una vecchia amica della figlia del caporedattore della rivista. Avevano fatto quella foto quasi per gioco per illustrare un articolo sulle amazzoni. Che Tatiana vi si fosse imbattuta era stato un puro colpo di fortuna. Cose che accadono nelle favole.
«Fu subito ingaggiata da un’agenzia londinese. Iniziò a sfilare a Londra, Parigi, Milano. Solo durante le vacanze, però, per non perdere la scuola. In seguito, quando iniziò a lavorare a tempo pieno, ogni tanto mi telefonava per ringraziarmi. È raro sentirsi dire grazie da una fotomodella. Ma Ruslana era diversa».
«Secondo te perché si è uccisa?»
«Era la modella più stabile dal punto di vista emotivo che abbia mai conosciuto. La più equilibrata. E quella con il miglior percorso di studi. La storia del suo suicidio per me non ha alcun senso».
Il traffico rallenta fino a fermarsi, Tatiana riuscirà a prendere il suo volo pe...