È un termine davvero problematico, la parola «contenuto»... si sa che è una parola terribile. La usiamo perché non ci sono alternative migliori e perché sta diventando la parola chiave prediletta dell’industria.
Andy Bryant,
direttore del settore creativo di Red Bee Media1
Ripetutamente, nelle interviste che abbiamo condotto per questo libro con professionisti delle industrie della promozione, è stata pronunciata la parola «contenuto». Dai riferimenti al «branded content», al «contenuto liquido» e al «contenuto catalitico» fino alle «piattaforme di contenuto», il termine è diventato pervasivo nei dibattiti in tutto il settore dei media. Nel novembre del 2012 il ramo britannico del centro media Mindshare ha incentrato una delle sue annuali «riunioni interne» specificamente sul «futuro del contenuto». L’evento, durato una giornata, ha affrontato i mutamenti dei contenuti nel cinema, nella musica, nella televisione, nelle notizie e nella tecnologia, e ha ospitato sessioni intitolate «il ciclo vitale del contenuto creativo», «il futuro del contenuto sono i dati», e «i contenuti generati dagli utenti sono i più coinvolgenti?». Un anno più tardi, la Minnesota Interactive Marketing Association ha organizzato un evento che ha registrato il tutto esaurito allo scopo di esaminare «cosa significa davvero contenuto».2 Se, come indicano questi esempi, lo status del contenuto è ancora aperto, lo è anche l’interrogativo su chi ha la responsabilità di definire questa parola nel mondo dei media digitali. Come ha osservato l’ex direttore e fondatore di Entertainment Weekly in un post intitolato «Allora che cos’è il contenuto?», «Noi che lavoriamo nei media [...] pensiamo spetti a noi definire cos’è il contenuto: è quello che facciamo. Ma Google, per esempio, non definisce il contenuto in questo modo. Vede contenuto dappertutto».3 Simili problemi di definizione sono avvertiti anche all’interno del dibattito accademico. Paul McDonald, per esempio, ha affermato che gli studiosi del settore audiovisivo devono «affrontare il fatto inevitabile che il cinema ormai è un “contenuto” nell’ambiente dei media convergenti, accanto a video, giochi, musica e online, ed è integrato con essi».4 Anche se a volte è usato a malincuore da accademici e dirigenti d’industria – Mike Weise dell’agenzia pubblicitaria Jwt lo chiama «la temibile parola a effetto»5 – «contenuto» è diventato tuttavia una definizione onnipresente che testimonia lo stravolgimento dei discorsi e delle pratiche consolidati all’interno della produzione mediale contemporanea.
Prendendo in esame queste definizioni, Simone Murray scrive di una «concettualizzazione tipica del ventunesimo secolo del contenuto come insitamente liquido e multiuso».6 Come McDonald, Murray collega questo aspetto agli sviluppi nell’intrattenimento mediale e in particolare ai modi in cui i «pacchetti di contenuti» vengono raggruppati intorno a un elemento centrale come un film blockbuster. Tuttavia, dietro le analisi di Murray sulla promozione trasversale, sui franchise e sui brand mediali, si celano gerarchie testuali sempre più destabilizzate tra elementi centrali e materiali promozionali. Come sostiene John T. Caldwell, i materiali promozionali «migrano o si avvicinano persistentemente allo status di testi “primari”» all’interno della cultura audiovisiva contemporanea.7 Nelle nostre interviste, il contenuto è stato usato non soltanto in riferimento a film e programmi televisivi, ma anche a una serie di paratesti mediali e forme promozionali che circolano tra, oltre e al di sotto della produzione degli studios e dei network. Anzi, l’adozione del termine «contenuto» da parte dell’industria pubblicitaria nel discorso mediale contemporaneo indica che questa fusione tra promozione e contenuto si estende al di là del settore cinematografico e televisivo e abbraccia un più vasto cambiamento culturale nella pratica audiovisiva. In tal senso, la liquidità dei contenuti non descrive soltanto il modo in cui i media brand si spostano da una piattaforma all’altra, ma indica anche un allentamento dei parametri stessi che stabiliscono cosa è un contenuto e chi produce quel contenuto.
In questo capitolo il nostro intento non è tanto di risolvere queste difficoltà di definizione, quanto piuttosto di decifrare la serie di transizioni avvenute all’interno della cultura mediale che si celano dietro la ridefinizione della promozione come contenuto. Affrontiamo la questione in due modi. Innanzitutto, esaminiamo i cambiamenti interni alla cultura mediale che hanno portato alla fusione tra «promozione» e «contenuto» in un periodo in cui una serie sempre più numerosa di testi circola in modo più diffuso in una gamma più ampia di schermi e piattaforme. In secondo luogo, prendiamo in considerazione il caso specifico del branded entertainment. Come osserva Jennifer Gillan,8 il branded entertainment non è affatto nuovo: «gli ibridi tra contenuto e promozione» (gli intrecci con gli sponsor, gli spot sceneggiati, le integrazioni dei prodotti nei contenuti mediali) sono stati utilizzati diffusamente nei programmi televisivi americani nella metà del secolo scorso. Tuttavia, così come negli anni Cinquanta e Sessanta queste strategie erano una reazione a un periodo di transizione mediale – erano quindi collegate all’influsso delle nuove tecnologie sui modelli di business, ai timori sulle piattaforme di visione emergenti e alle ansie nei confronti del comportamento di un pubblico in precedenza affidabile – nei primi decenni del ventunesimo secolo il branded entertainment ha risposto a una sensazione analoga, quella di trovarsi in una fase di passaggio. Come terreno di investimento discorsivo negli anni Zero e Dieci, questa espressione sarebbe arrivata a indicare la creazione di pubblicità «di qualità o interesse tale che è il pubblico stesso a cercarle di sua iniziativa».9 Sotto il profilo dei case studies, il branded entertainment racchiude i confini fluidi tra promozione e contenuto all’interno della cultura audiovisiva contemporanea e rivela le configurazioni e le teorizzazioni in mutamento che si celano dietro questo cambiamento.
È possibile collocare i contenuti della promozione audiovisiva grossomodo in tre aree che verranno esplorate in questo libro: la pubblicità audiovisiva, il marketing cinematografico e televisivo e la promozione di aziende ed enti organizzativi. Queste tre aree hanno storie distinte, ma tutte hanno attraversato cambiamenti importanti in seguito ai mutamenti più generali avvenuti nel panorama mediale negli ultimi due decenni. Anche se, come vedremo, la natura esatta di questo cambiamento è diversa a seconda dell’area, tutte sono influenzate in modo analogo dai «nuovi imperativi strategici dell’ubiquità, della mobilità e dell’interattività»10 che abbiamo delineato nell’introduzione di questo libro. Questi imperativi strategici rappresentano un utile dispositivo organizzativo per tratteggiare i contesti nel terreno dei media contemporanei in cui le linee di confine tra promozione e contenuto si sono erose.
I primi decenni del ventunesimo secolo sono caratterizzati da un rapido aumento del numero di spazi in cui è possibile vedere forme audiovisive. Questi vanno dallo sviluppo di nuove piattaforme per le immagini in movimento, come smartphone e tablet, alla crescita dei media out-of-home, quali i cartelloni digitali e le installazioni interattive. Per molti aspetti, quest’aumento dell’ubiquità dei media audiovisivi si può far risalire agli sviluppi del satellite, del cavo, della fibra ottica e della banda larga, che da decenni aumentano il numero di punti d’accesso a film, programmi televisivi e materiali pubblicitari. Tuttavia l’onnipresenza dei media audiovisivi è stata accelerata dalla digitalizzazione durante gli anni Zero del nuovo millennio. Questa ha facilitato la riproduzione e la trasmissione di testi audiovisivi su piattaforme diverse.11 Pertanto, l’aumentata ubiquità dei media con immagini in movimento è strettamente collegata alla aumentata mobilità di questi media. Anche se, come sostiene Chuck Tryon,12 la distribuzione digitale è tecnologicamente praticabile dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso, è soltanto a partire dalla metà degli anni Zero che ha cominciato a emergere come elemento dominante del paesaggio mediale contemporaneo. Essa comprende l’espansione del cinema e della televisione digitali, l’ascesa di internet come piattaforma per i materiali audiovisivi, soprattutto nell’area nascente del video online. Più in generale, il web ha esercitato un’influenza importante sul campo dei media sia perché ha aumentato il numero di spazi che contengono immagini in movimento sia perché ha agevolato la distribuzione e la diffusione di questi contenuti.13 Dietro l’ascesa del cinema e della televisione digitali c’è quella che Tryon chiama «mobilità della piattaforma», caratterizzata dal «crescente spostamento verso un accesso ubiquo e mobile a un’ampia gamma di opzioni di intrattenimento».14 La proliferazione di siti d’accesso ai media audiovisivi e la facilità con cui questi media possono spostarsi da una piattaforma all’altra ha provocato una maggiore frammentazione del pubblico. Lontana dal pubblico di massa dell’«era della scarsità»15, la distribuzione digitale si rivolge a spettatori mirati, o persino singoli, tramite interfacce che puntano a offrire la scelta o il controllo della visione mediale.16 L’aumento dell’ubiquità e della mobilità dei media, pertanto, è accompagnato da una nuova dinamica di consumo caratterizzata dall’interattività. Ancora una volta, possiamo interpretare questo dato come un’estensione del passato, anziché come un allontanamento fondamentale da esso. Radicate in tecnologie come il telecomando della televisione, le nuove interfacce come il videoregistratore personale (Pvr) o i servizi on demand (come Netflix, Hulu e Bbc iPlayer) offrono allo spettatore contemporaneo una scelta e un controllo molto maggiori su quali contenuti di immagini in movimento guardare e dove e quando farlo. A questo si riferisce Philip Napoli con l’espressione «autonomia del pubblico», che descrive fino a che punto gli spettatori detengono il controllo sul proprio processo di consumo dei media.17 Se le alterazioni nella natura del coinvolgimento dello spettatore sono spesso esaminate in rapporto alle forme interattive di narrazione o a quelle di produzione partecipativa,18 Napoli sostiene che il cambiamento fondamentale nell’autonomia del pubblico non consiste nella capacità dello spettatore di produrre contenuti, ma in quella di diffonderli.19 Questa è quella che Jenkins, Ford e Green definiscono la nuova «diffondibilità» (spreadability) dei media,20 agevolata da siti di condivisione di video come YouTube e da social network come Facebook e Twitter. Internet è diventata una piattaforma partecipativa, caratteristica incarnata nel concetto di web 2.0, «fondata sulla condivisione, la collaborazione e la creazione di contenuti».21 In questo contesto, le reti digitali costituiscono uno spazio in cui il contenuto è solo una parte della più ampia cultura partecipativa dell’interazione sociale online. Quindi ubiquità, mobilità e interattività non vanno interpretate come caratteristiche distinte, bensì come fenomeni interconnessi e legati all’espansione digitale in rete, che agevola una maggiore diffusione dei contenuti audiovisivi e la possibilità di interagirvi.
Spesso questi cambiamenti nel paesaggio mediale vengono interpretati come un elemento o una conseguenza della convergenza. Jonathan Hardy22 distingue tre aree di convergenza mediale: tecnologica, testuale e industriale. La convergenza tecnologica è caratterizzata dall’ascesa di sistemi di rete che offrono il potenziale di un’intercambiabilità digitale dei media senza soluzione di continuità tra una piattaforma e l’altra. A ciò si accompagna il potenziale di una convergenza testuale, in cui si possono fruire immagini e suoni su una serie di media differenti e ricombinarli, ripartirli e ricomporli a volontà. Invece la convergenza industriale descrive la formazione di giganteschi conglomerati che sfruttano questo scenario trasmettendo e controllando i molteplici servizi mediali che caratterizzano i sistemi di comunicazione contemporanei. In tal senso, la convergenza mediale descrive una serie di processi, pratiche, condizioni di mercato e rapporti di potere complessi e discontinui, incentrati sulla «fusione di diverse tecnologie e industrie al fine di creare nuove modalità di produzione, distribuzione e utilizzo di oggetti e servizi culturali».23 In pratica, la convergenza comporta livelli di divergenza per il confronto tra i modi in cui sono prodotte e sono consumate differenti tipologie di media.24 Come sostiene Gerard Goggin, «il processo con cui si ottengono le tecnologie digitali e la loro convergenza in realtà è una faccenda caotica, complicata, cari...