Questo è il paese che non amo. Trent'anni nell'Italia senza stile
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Questo è il paese che non amo. Trent'anni nell'Italia senza stile

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Questo è il paese che non amo. Trent'anni nell'Italia senza stile

Informazioni su questo libro

In questo libro Antonio Pascale fa i conti una volta per tutte con il nostro paese. E scrive un saggio sull'Italia contemporanea a metà tra l'autobiografia sentimentale e l'inchiesta sul campo. Dall'arrivo dei primi senegalesi nella provincia campana alla nascita delle televisioni commerciali, dal caso Di Bella al caso Englaro, dalle passioni giovanili ai dubbi della paternità. "Questo è il paese che non amo" è un dialogo con il lettore, chiamato a mettere in crisi le sue false certezze. A riconoscere il razzismo dietro l'interesse per gli immigrati, il voyeurismo dietro la curiosità per il male, la militanza ottusa dietro le nuove ideologie, il sopruso dietro l'amore.

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Informazioni

Anno
2011
Print ISBN
9788875212179

IL PUNGOLO DEL DOLORE?

Durante la giornata di sabato 13 luglio 1985 ebbi il mio primo serio e conflittuale impatto con la rappresentazione del dolore. Intendo dire che da allora, in maniera sommessa ma perturbante, si fece strada in me l’idea che la rappresentazione del dolore contenga in sé qualcosa d’ambiguo, tanto utile quanto pericoloso.
Ma questa sensazione non maturò allora. Si mantenne a un livello troppo basso perché io stesso trovassi le parole o le teorie per dare corpo a quello che provai quel giorno.
Stavo guardando il concerto Live Aid. Per non essere disturbato, avevo trasportato in camera mia un vecchio televisore. Un Grundig. 16 pollici. Senza telecomando. Il concerto era stato organizzato da Bob Geldof e voleva sensibilizzare il mondo sul problema della fame in Etiopia, colpita l’anno precedente da una grave carestia.
Va detto subito: io volevo vedere solo il concerto. Non mi importava (non mi importava in quella calda giornata di luglio) del problema della fame in Etiopia. Un po’ perché per la prima volta avrei visto band storiche riunite per l’occasione, un po’ perché la musica è un’arte superiore in quanto ti consente di essere immediatamente altrove e altro da te.
Ero, musicalmente, cresciuto ascoltando band inglesi, come gli Stones e gli Who. Di questi ultimi apprezzavo, oltre la musica, alcuni curiosi aspetti del carattere, come l’irascibilità, le movenze disarticolate e la balbuzie (musicale) che ne conseguiva, l’esibizione plateale della violenza e, soprattutto, quel che di barbarico che durante il concerto a Woodstock spinse Pete Townshend ad aggredire Abbie Hoffman, che aveva osato interrompere l’esibizione del gruppo per leggere un proclama pacifista.
Sta di fatto che durante il Live Aid furono mostrate molte foto di bambini malnutriti. Credo che fosse la prima volta che veniva esposto un tale catalogo di sofferenza a una platea così vasta. Sicuramente era la prima volta che io ci facevo i conti.
Se non avessi avuto diciannove anni e se non avessi creduto allora (adesso meno) alla necessità di raggiungere il paradiso e l’equilibrio attraverso la cruda e brutale rappresentazione dell’inferno, di sicuro mi sarei posto una domanda: come è possibile, dopo aver visto immagini di morte, carestia, apocalisse, canticchiare poi amabilmente, appresso a Mick Jagger e Tina Turner, il motivetto di «It’s Only Rock’n’Roll (But I Like It)»?
Potevo commuovermi per un minuto appena e subito dopo tornare alla spensieratezza che la musica porta con sé?
Una pagina del libretto del dvd celebrativo del Live Aid mostra a sinistra (a colori) gli spettatori del concerto bagnati dall’acqua degli irrigatori; a destra (in bianco e nero e con un leggero effetto sgranatura) dei profughi etiopi, seduti, distrutti dalla fatica. Più avanti, il catalogo sottolinea sia il momento finale del concerto sia la preparazione degli aiuti, con la nave verde Band Aid I. Nell’ultima foto del catalogo (spalla destra della pagina) compaiono dei bambini sorridenti (si suppone abbiano potuto usufruire degli aiuti). La narrazione di questo catalogo, un po’ come quella del Live Aid, rispecchia la capacità degli occidentali di creare eroi umili che riescono a comporre sulla stessa pagina colori e bianco e nero: una sorta di cromoterapia che placa le nostre ansie, perché alla fine qualcuno sorride.
Quel giorno, costretto a cambiamenti di umore repentini, sballottato tra le crude immagini della carestia e gli stadi di Wembley e JFK Philadelphia, mi sentivo ansioso.
Avrei scoperto, a breve, che ci sono vari modi per combattere l’ansia. C’è un ampio ventaglio di possibilità che spazia dagli ansiolitici alla masturbazione. Ma, a parte questo, forse la maniera più elementare per combattere l’ansia consiste nel pagare, per così dire, il conto. Versare soldi alla causa.
Durante il Live Aid, dopo le immagini crude, di soldi ne furono raccolti in abbondanza: 300 milioni di dollari, pressappoco.
Ricordo ancora la faccia di mio padre quando entrò nella mia stanza e guardando le immagini disse con un po’ di strafottenza: Ma che cos’è questa speculazione? E ricordo anche l’espressione stupita di mia madre mentre mi confessava, qualche giorno dopo, che mio padre era andato in banca a fare un versamento sul conto del Live Aid.
In realtà dopo qualche tempo cominciarono le polemiche su come fossero stati spesi i soldi e soprattutto dove fossero finiti. Il filosofo francese André Glucksmann denunciò che gran parte dei dollari erano andati a rimpinguare il conto di Mengistu, uno dei tanti militari sanguinari che all’epoca comandava un governo dittatoriale. Comunque, per risolvere la questione furono diffuse alcune foto che raffiguravano nuove scuole, nuovi ospedali, nuovi pozzi in costruzione in qualche villaggio dell’Etiopia. Queste immagini, sempre le stesse, apparvero su molti giornali e per un periodo ci divennero così familiari, consuete, intime, che la nostra ansia ancora una volta si placò.
Poi venne agosto. Sulla battigia, sdraiati sugli asciugamani a goderci il tramonto, a osservare i primi windsurf che cominciavano a solcare il mare oltre le boe, si continuò fra noi che non avevamo ancora vent’anni a parlare del Live Aid.
Sì è vero, si commentava, c’era qualcosa di stonato nella rappresentazione del dolore, però quello che contava, in fondo, era aver raggiunto il risultato. Dare da mangiare agli affamati. Non era solo un comandamento evangelico ma un sentimento dettato anche dal buon senso. Forse, alla fine, quello che era importante era la sincerità dei cantanti.
Ora, tra tutte le esibizioni una in particolare aveva colpito (quasi con certezza statistica) l’immaginazione di noi ragazzi: quella degli U2. Soprattutto quando Bono Vox aveva cantato la canzone «Bad». Con i capelli striati di biondo, tagliati corti davanti e lunghi dietro (così come si portavano in quegli anni in periferia), con una brutta giacca alla russa, i pantaloni di pelle infilati in un paio di stivali fino al ginocchio, neri con i tacchi alti, il cantante, sudato e contratto, aveva intonato un’ottima, anzi fenomenale, versione di «Bad». A rifletterci, l’emozione nasceva dall’assenza di una coreografia studiata: tutto, dal modo di vestirsi a quello di tenere l’asta del microfono, era istintivo e spesso impacciato e sembrava voler dire: non guardate me, ma ascoltate il mio canto, perché è qualcosa che mi trascende.
Il momento più bello fu quando Bono invitò qualcuno del pubblico a raggiungerlo. E siccome il servizio d’ordine faceva fatica a prelevare le ragazze dalla folla, Bono scese dal palco e ne abbracciò una, ballando stretto con lei.
Che ne so. Sarà perché alle cinque e mezzo ora locale (pressappoco il momento dell’esibizione della band al Wembley Stadium) il cielo stava per scurirsi facendoci sentire la tipica malinconia che precede il vespro, sarà il gesto di Bono, inaspettato, sarà anche la faccia pulita, impubere, del cantante (allora così somigliante alla nostra), ma quel momento ci sembrò, per così dire, un nuovo grado zero del rock. Dimostrava a tutti la forza e la sincerità della musica e con essa la possibilità di occuparci spontaneamente del mondo che ci circondava, di accogliere l’altro, scendendo dal palco. (Tempo dopo, Raj Patel, l’autore di I padroni del cibo, avrebbe definito Bono Vox come l’uomo del quale nessuno ha mai visto gli occhi, definizione in parte sbagliata: nel 1985 gli occhi di Bono erano ben visibili e seducenti e lo sarebbero rimasti per diversi anni; solo dal 1991 – dal video di «Zoo Station» – avrebbe cominciato a portare gli occhialoni neri.)
Insomma, noi ventenni avremmo seguito l’esempio.
In quel periodo, sulle spiagge italiane, o almeno su quelle che io frequentavo (il litorale tirrenico che da Baia Domizia si spinge fino a Serapo), cominciarono a vedersi i primi immigrati senegalesi. L’Africa che avevo conosciuto attraverso le foto aveva ora un volto più concreto.
In verità, i ragazzi che vendevano la merce apparivano spesso sorridenti e in carne, ma quando alla fine della loro giornata lavorativa tornavano a casa, carichi di roba invenduta, allora la nostra mente li ricollegava a quelle immagini di fame e solitudine. Ancora qualche mese e quegli stessi immigrati – in fondo, sulle spiagge, una presenza non inquietante – sarebbero giunti fino alle nostre città.
Caserta, per esempio, avrebbe visto crescere in maniera esponenziale (e ora sì, inquietante) le file davanti alla questura. Un nuovo ceto sociale povero reclamava cittadinanza. Toccava a noi giovani, cresciuti sposando di volta in volta cause giuste, occuparci di loro. La nostra prima volta in politica fu all’insegna di una nuova domanda: siccome questa causa è la più giusta fra le cause, come rappresentare gli immigrati senegalesi che arrivavano via mare fin da noi? Che immagini della loro cultura produrre?

WE ARE THE WORLD?

Cominciava ad andare di moda allora (1986-87) la teoria di Edward Lorenz, quella dell’effetto farfalla. «Può il battito d’ali di una farfalla in Brasile provocare un tornado in Texas?» era il titolo di una conferenza tenuta da Lorenz nel 1979. Siccome tanti di noi si guardavano bene dal leggere per intero e con il gusto dell’approfondimento i lavori di Lorenz sul caos o sugli attrattori strani, successe che quella teoria subì un processo di eccessiva semplificazione.
Dunque la farfalla, da allora in poi, diventò per noi il simbolo di una generale chiamata in correità. Le nostre azioni, qui e ora, hanno di sicuro una conseguenza da qualche parte lontana. Ci tocca essere responsabili delle nostre ali. Per farlo, però, è necessario raccontare non come sono fatte le nostre ali ma dove va a finire il vento. Non importa se soffia lontano. L’importante è rappresentare questa lontananza.
Fu per questo, cioè pensando a quelle immagini di fame, sofferenza e guerre lontane, e ancora, agli effetti delle carestie, della malnutrizione, al disagio prodotti dalla condizione di nomadismo, fu per tutto questo che alcuni di noi ventenni casertani decisero di mettere in piedi un’associazione. Era giusto e necessario fondare un nuovo patto di cittadinanza, tra casertani e senegalesi. Una causa giusta.
Ora, una delle prime cose che venne alla luce, diciamo così, nello scambio culturale era che molti di loro non gradivano affatto che questo scambio ci fosse. Non si fidavano.
Gli davamo ragione, naturalmente. Soprattutto sul piano politico, come italiani eravamo indifendibili. Quelli di noi, giovani casertani, che si erano appena iscritti a scienze politiche si davano da fare per ricordare un po’ a tutti l’impatto che l’avventura coloniale aveva avuto sull’immaginario collettivo: l’Africa descritta a fine Ottocento dai primi resoconti dei giornalisti sull’Illustrazione italiana (il modello è Ferdinando Martini, prima che diventasse commissario parlamentare) e attraverso i disegnatori e i reportage degli esploratori, era a tutti gli effetti un continente esotico; per quanto selvaggio e brutale, in fondo rappresentava un paradiso terrestre che, tra l’altro, piaceva contrapporre alla società borghese dell’Italia umbertina.
Nemmeno, poi, ci si poteva fidare dei resoconti scientifici. Peggio. Tutti oleografici. L’esploratore Brunialti, nelle sue pubblicazioni di inizio Novecento sull’Africa, non perdeva mai occasione per ribadire quanto primitivo fosse il continente africano: in ordine sparso, nelle pagine di Brunialti si trovavano belve feroci, sacrifici umani e tanta, ma tanta, natura.
Quelli di noi che si erano iscritti a scienze politiche, insomma, ci tenevano a instaurare con i senegalesi uno scambio alla pari e, per questo, mostravano attenzione alla storia africana. Non si poteva mica abbassare la guardia: il colonialismo con tutte le sue strategie era ancora vivo e forte.
Appunto, disse un giorno, durante una lieta serata in pizzeria, un amico, Mustafà, un laico senegalese. In realtà, non solo avete abbassato la guardia – e chissà se poi avete mai avuto voglia di tenerla alta – ma a parte questo siete, voi occidentali, oggi responsabili di una nuova forma di colonialismo, più subdola: la retorica del corpo.
In una pubblicazione diffusa in Italia a metà del Settecento, l’Africa veniva raffigurata come una donna intenta a conversare con l’America. Il corpo della donna Africa era coperto quasi interamente da una nuvola bianca, chiaro elemento simbolico per indicare un continente poco conosciuto. Tra Ottocento e Novecento, nell’iconografia, quella nuvola si dissolse e apparve il corpo femminile, spesso svestito, deforme, sensuale, nero. Il bianco della nuvola, lo spazio bianco della carta, spinse molti a viaggiare e l’atto di vedere si caratterizzò allora come pratica esotica, in quanto quell’atto svelava l’intento segreto del desiderio: di contemplare, di conoscere ma soprattutto di conquistare l’altro. Da allora la nudità delle donne africane divenne una costante esotica e i viaggiatori, i fotografi cominciarono a raffinare quel progresso moderno che consiste nel ridurre la complessità del mondo a un’immagine.
Finora lo scambio aveva avuto più svantaggi che vantaggi. In effetti, a riguardare l’iconografia del periodo coloniale, non è che venissero dubbi sulle pose utilizzate. Una grande quantità di immagini avevano ritratto corpi femminili lascivamente abbandonati in atteggiamenti provocatori e ammiccanti, o donne in piedi, languide, con il seno scoperto e le braccia dietro la testa: veneri nere da conquistare. La nudità significava anche la vicinanza alla natura e dunque la prosperità e la convenienza del territorio da colonizzare. E non bastò. Dopo i fotografi arrivarono gli antropologi, e allora ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Introduzione
  3. 1. Il pungolo del dolore?
  4. 2. We are the world?
  5. 3. Un breve passo indietro
  6. 4. Le conseguenze morali dell'ottimismo
  7. 5. Il fastidio del dolore (di scarto)
  8. 6. La vera esperienza (o l'immaginazione) del dolore
  9. 7. Il ritorno del miracolo italiano
  10. 8. Modello e metodo
  11. 9. Ci penso dunque un po' su
  12. 10. Mentre ci pensavo un po' su...
  13. 11. Confusioni, emozioni, Berlusconi
  14. 12. Emozione reazionaria, passione progressista
  15. 13. L'importanza del post scriptum
  16. Bibliografia
  17. Nota biografica dell'autore