TERZA PARTE
UNA VITA NEL TEATRO
IN MEMORIA DI TENNESSEE WILLIAMS
Il teatro è una vita meravigliosa ma un mestiere difficile. Come il prezzo dell’oro rappresenta le migliaia di ore improduttive spese alla sua ricerca, così la fama artistica e la remunerazione che ne consegue, benché accordate a un singolo individuo, rappresentano il debito della società nei confronti di molti.
Tale debito, anche quando viene pagato con riconoscenza, è più un’amministrazione fiduciaria condizionata che un bene di cui si gode in permanenza il pieno possesso. Può essere ritirato e accordato a qualcun altro.
La pressione per una continua produzione di risultati, che tale condizione esercita, rende la scrittura drammaturgica un’attività adatta ai giovani, perché può tollerare facilmente una situazione del genere solo chi è ingenuo e ispirato, solo chi non sta nella pelle dalla gioia della scoperta ed elargisce pienamente e con disinvoltura questo dono.
Sono state questa generosità e questa sovrabbondanza di vita ad attrarre il pubblico verso gli scritti di Tennessee Williams, e quando la sua vita e la sua visione del mondo sono diventate meno immediatamente accessibili, la gratitudine ha lasciato il posto alla venerazione distante nei confronti di un uomo che, se si voleva continuare ad amare, era necessario considerare già morto.
Il fatto che abbia seguitato a esistere e a lavorare ha offuscato quell’illusione, e ci siamo sentiti in imbarazzo per non aver saputo nascondere il disagio né a noi stessi né all’oggetto di tale disagio, Tennessee. E ci ha indispettito che, a quanto pare, lui non volesse né contestare né scansare tale atteggiamento nei suoi confronti. Ha semplicemente continuato a scrivere.
Siamo un popolo buono ma viviamo in tempi crudeli. Non sappiamo come mostrare il nostro amore. Tale incapacità era l’argomento dei suoi drammi, l’esempio più alto di poesia drammatica scritto in lingua americana.
Noi lo ringraziamo e gli auguriamo, con amore, ciò che a maggior ragione avremmo potuto augurargli – e non lo abbiamo fatto – mentre era in vita. Gli auguriamo ciò che egli augurava a noi: la pace di cui tutti siamo alla ricerca.
A PROPOSITO DI UNA VITA NEL TEATRO
Ha scritto Thorstein Veblen che intorno al 1880 i compositori tipografici erano dediti all’alcolismo perché esercitavano una professione mobile e instabile.
Cambiavano spesso lavoro quando la loro opera veniva richiesta in qualche altra città o in un’altra parte del Paese; e potevano farlo perché il loro mestiere era molto ricercato e l’unico equipaggiamento di cui disponevano era il loro talento.
Non investivano denaro in macchinari o merce, non avevano spese di avviamento e si spostavano non appena gli si presentava la necessità di lavorare o quella di cambiare.
Nella nuova località i compositori andavano a cercarsi gente della loro specie. Al termine della giornata lavorativa si riunivano nei pub o nei ristoranti vicino al posto di lavoro e socializzavano.
Gli unici mezzi che avevano a disposizione per dimostrare l’uno all’altro quanto valevano, erano mezzi sociali: il convivio, la generosità, l’arguzia, un buon carattere.
Perciò bevevano e chiacchieravano, e l’uomo che valeva di più era quello che sapeva bere molto, quello che pagava da bere ed era in grado di raccontare in maniera interessante le sue prodezze e quelle degli altri appartenenti alla confraternita. Il compositore tipografico non possedeva beni. Non poteva dimostrare il proprio valore esibendo una splendida carrozza o una bella casa.
Non aveva storia tranne quella che inventava lui stesso e a cui era in grado di dare corpo con le vanterie e il senso dell’umorismo.
Viaggiava leggero e portava con sé pochi abiti, cosicché non poteva far colpo sugli altri col suo guardaroba.
Riusciva ad affermare la sua bravura unicamente sul terreno delle abitudini sociali.
E quindi beveva un sacco.
La bravura in teatro è la capacità di dare.
L’attore eccelso non è colui che si sforza di stabilire, di codificare, ma colui che crea per il presente, liberamente, senza fermarsi a rivendicare il valore di ciò che ha appena fatto o ad ammirare compiaciuto la creazione.
(Ecco perché le foto di scena sono molto spesso rigide e poco interessanti: l’attore non sta recitando, non sta mettendo in pratica ciò che ha imparato a fare e per cui è probabilmente tagliato, ma si sta mettendo in posa, sta accennando determinate emozioni, proprio il contrario della recitazione.)
Una vita nel teatro è una vita spesa a elargire.
È una vita mobile, instabile, in cui non si è sicuri né di trovare lavoro né di ottenere consensi.
Il futuro dell’attore è reso incerto non solo dal caso, ma dalla necessità, vale a dire intenzionalmente.
I nostri problemi, esattamente come quelli inerenti a ogni professione, sono unici.
Gli scherzi che si fanno in teatro, le nostre esigenze, le nostre stranezze, possono apparire divertenti agli estranei, ma noi ne siamo affascinati.
Il problema di chi ha fatto cosa a chi, chi si è scordato le battute, che cos’ha detto l’impresario all’attrezzista, chi ha ottenuto la parte di chi e chi l’ha persa e perché (“È così che è andata. Io c’ero”), sono le domande che ci poniamo senza fine e che troviamo interessanti.
Noi che lavoriamo in teatro raccontiamo storie su noi stessi e sui nostri colleghi, le medesime storie che Aristofane raccontava agli amici e parlando di loro. Sono indirizzate ad altri personaggi, ma sono identiche. I problemi sono gli stessi, le gratificazioni sono le stesse.
È importante continuare a raccontare storie poiché la sola vera storia di quest’arte effimera è storia orale; tutto svanisce rapidamente e l’unica certezza è la parola di qualcuno che era sul posto, di qualcuno che ha parlato con uno che c’era, di qualcuno che garantisce la veridicità delle parole di un tizio che gli ha detto di aver parlato con una donna che conosceva qualcuno che si trovava là.
Inoltre, tutto accade in fretta.
L’apprendistato viene ricompensato con un consenso o un rifiuto. Sembra che tutto avvenga dalla sera alla mattina e, ripensandoci, non è mai l’evento che secondo noi avrebbe dovuto essere il punto di svolta di una carriera a esserlo veramente.
Una vita nel teatro è una vita in cui l’attenzione è rivolta all’esterno, in cui il ricordo e la conferma che ci vengono dalle altre persone sono molto importanti.
L’abilità si acquisisce con una pratica costante e proviene da miglioramenti così modesti che sembra di non star facendo alcun progresso. L’abilità si perde nello stesso modo, dando per scontate abitudini conquistate a duro prezzo senza rendersi conto che ci stanno abbandonando.
Al termine di uno spettacolo, alla fine di una stagione teatrale, l’unica creazione che rimane all’attore è la propria persona. Questo e qualche manufatto: ritagli di giornale e programmi di sala.
Che sono, forse, una delle ragioni per cui amiamo le storie.
“Ti ricordi...?” vuole anche dire “Io me lo ricordo, vero?”
Alla Neighborhood Playhouse School of the Theatre, Sanford Meisner diceva: “Quando entrerete nel mondo del lavoro, in un qualunque posto dove faranno teatro di repertorio, incontrerete dietro le quinte un attore più vecchio, qualcuno che bazzica le scene da un po’ di tempo.
Vi racconterà storie e aneddoti sulla vita teatrale.
Vi parlerà di come avete recitato e di come recitano gli altri, farà delle generalizzazioni sulle leggi che governano la scena basandosi sulla sua esperienza e sul suo intuito. Ignoratelo”.
Non solo questa gente esiste, ma avanzando nella carriera teatrale, tutti hanno la tendenza a diventare come loro. Io, per lo meno, credo di esserlo diventato.
Abbiamo tutti bisogno d’amore. Abbiamo tutti bisogno di svago e di amicizia in un mondo in cui la durata di un impegno fra noi e gli altri (un impegno peraltro intensissimo) si limita per lo più alla durata delle repliche dello spettacolo.
Dice Camus che l’attore è un ottimo esempio per capire che la natura umana è una fatica di Sisifo.
È sicuramente vero, e non è certamente una novità, ma c’è qualcosa che voglio aggiungere: la vita che si svolge in teatro non deve per forza essere considerata un’equivalente della “vita”. È vita.
Rappresenta la scelta e la vocazione di un considerevole numero di individui, tecnici e artisti, e lo è da molto tempo.
La mia commedia Una vita nel teatro, benché io vi abbia forse convinto del contrario, parla di questa vita.
È il tentativo di guardare con amore a un’istituzione che tutti noi amiamo, il Teatro, e all’unica sua componente (verso la quale i nostri sentimenti sono meno ovvi): gli uomini e le donne del teatro, le effimere più schiette di questa terra, le persone che scegliamo e a cui diamo l’incarico di esternare i nostri sogni sulla scena.
ANNOTAZIONI SU THE WATER ENGINE
Noi americani lo sappiamo che le notizie vere non compaiono mai sui giornali. Lo sappiamo che gli interessi in gioco sono di gran lunga troppo potenti per permettere ad avvenimenti che potrebbero mettere in crisi lo status quo di venire riportati dalla stampa esattamente come sono.
Tutti abbiamo un’opinione personale su chi ha davvero ucciso Kennedy, chi ha ammazzato Lincoln; che cosa è successo veramente al figlio di Lindbergh,1 o alla Baia dei Porci; quante cose sapeva realmente Nixon.
Non ci aspettiamo che la stampa convalidi le nostre opinioni. Ci convincono più i pettegolezzi del giornalismo, ed è più probabile che prendiamo per buona l’affermazione fatta dal parente di un tassista che ha sentito l’Uomo Politico X dire così e così nel taxi piuttosto che le dichiarazioni rese dalla classe politica a nostro uso e consumo tramite i mezzi di comunicazione.
Prima di credere alle dichiarazioni di una stampa senza volto, crediamo alle parole degli esseri umani che possiamo guardare negli occhi, anche se gran parte delle loro testimonianze si basa sul sentito dire.
Miti e leggende esistono senza bisogno di pubblicità, senza il sostegno di interessi potenti, perché raccontandoli nessuno ne trae profitto.
L’unico profitto che si può trarre da un mito è quello che si spartiscono i presenti, chi racconta le storie e chi le ascolta, vale a dire la condivisione dell’esperienza in sé, la celebrazione della storia e della sua verità.
Noi crediamo che Edith Wilson abbia governato il Paese al posto del marito che versava in stato comatoso e che abbia falsificato la sua firma sui documenti di Stato; siamo convinti di aver avuto contatti con esseri intelligenti provenienti da altri mondi e che il governo abbia tenuto segreta la notizia; crediamo che, da qualche parte, qualcuno abbia scoperto una cura per il cancro; che Roosevelt abbia permesso a Lindbergh di entrare nella cella di Hauptmann prima che venisse eseguita la condanna a morte; che i servizi segreti abbiano ammazzato Martin Luther King.
Tali convinzioni sono parte della nostra storia orale. Sono vere né più né meno delle cose che leggiamo sui giornali.
Ma la gente ci crede fermamente.
La nostra sfiducia nelle istituzioni è grande e ha ragion d’essere.
Riguardo alle istituzioni siamo sempre pronti a credere alle cose peggiori, perché siamo consapevoli che non ne verremo mai a conoscenza.
Uno dei nostri miti più amati e audaci è quello della soppressione da parte del governo, o di un governo parallelo di industriali, delle invenzioni o delle scoperte che potrebbero migliorare la nostra vita.
Tutti noi abbiamo sentito parlare, che ci sia stato presentato come dato di fatto o come invenzione, della lampadina che non si fulmina, delle calze che non si smagliano, della pillola che si trasforma in benzina quando viene gettata in acqua, della medicina brevettata a poco prezzo che potrebbe curare il raffreddore...
I miti di soppressione suonano veri alle nostre orecchie perché non abbiamo fiducia nelle istituzioni.
Le percepiamo come malevole perché non sono figure che rispondono direttamente delle proprie azioni.
Non possiamo parlare con loro. Chi è il “Governo”?
Chi è il “Mercato”?
Sentiamo che questi monoliti senza volto non possono che augurarci il male.
Non possiamo guardarli negli occhi. Non possiamo identificarli in maniera diretta come responsabili di una certa azione, e in tale mancanza di responsabilità percepiamo il pericolo, sentiamo che sono capaci di qualunque cosa ed esprimiamo questi sentimenti con i nostri miti.
Tolstoj ha scritto che gli esseri umani diventano spietati gli uni contro gli altri soltanto dopo che si sono associati formando delle istituzioni.
Sostenuti da un’istituzione, ha detto, siamo capaci di perpetrare atti di crudeltà selvaggia e triviale, chiamarli “adempimento del dovere” e non sentire alcuna necessità di giudicare le nostre azioni.
Le regole istituzionali ci autorizzano a comportarci in maniera amorale, poiché ogni colpa che potrebbe scaturire dalle nostre azioni non dipende da noi ma viene distribuita tra tutti tramite l’istituzione.
C’è qualcosa nella nostra natura, ha scritto Tolstoj, che ci fa compiere azioni orrende che mai ci verrebbero in mente come individui e ci porta a pensare che siano s...