1 DICEMBRE 2015
Oggi è stato il mio terzo martedì di ricevimento genitori. Alle otto e trenta mi sono messo ad aspettare davanti alla sala professori, e niente, non è venuto nessuno. Non era venuto nessuno nemmeno martedì scorso, e neanche quello prima.
Alle nove e mezza sono tornato in classe e davanti alla porta c’era Donato. Mi ha detto: Professore, io le devo parlare. Potevi venire a ricevimento allora, ho pensato io, è un’ora che mi annoio da morire. Invece gli ho detto: Che c’è? Gli sono partiti tutti quei tic facciali, poi quando si è calmato mi ha spiegato: È una cosa che riguarda il tema.
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Una volta, in prima media, il professore di educazione artistica si era preso il mio diario, ci aveva scritto sopra qualcosa e poi mi aveva detto: Fallo leggere ai tuoi. Alle elementari quando c’era da disegnare speravo di diventare invisibile. Non ho mai saputo disegnare nemmeno un omino stilizzato, non mi andava neanche di provarci, la maestra aveva capito che era una cosa che detestavo con tutto me stesso e mi trovava sempre qualcos’altro da fare. Alle medie questa cosa si era incistata, ero diventato molto presuntuoso, quando il professore mi aveva detto: Me lo spieghi com’è che ti rifiuti anche solo di provarci?, io gli avevo detto che mica eravamo cavernicoli, ormai se uno deve dire qualcosa non c’è più bisogno di fare i graffiti, abbiamo inventato l’alfabeto, basta scrivere, oppure parlare, abbiamo il linguaggio, le immagini non servono più a niente. La volta dopo il professore si era fatto dare il diario.
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Non avere ancora mai ricevuto nessun genitore mi crea un sacco di aspettative: più non viene nessuno e più mi immagino il ricevimento come una cosa importante, le mamme e i papà che chiedono al capufficio un permesso orario, si telefonano per dirsi ci vediamo qua, oppure passami a prendere tu che andiamo con una macchina sola, e poi nel bel mezzo di una mattina feriale si mettono a girare in macchina per trovare parcheggio, e poi in coda davanti all’aula professori, a chiacchierare con gli altri genitori per ingannare l’attesa, e io che sono il professore invece me ne sto seduto sulla sedia girevole, ad aspettare che mi vengano a fare visita, e poi gli dico prego, accomodatevi, e parliamo tutti e tre come se fosse una riunione di famiglia in cui si prendono decisioni serie, e anche se non faccio parte della famiglia sembra che mi abbiano invitato a dire la mia come uno zio d’America, di quelli che hanno fatto fortuna e sono diventati della autorità su tutto, oppure una specie di consigliori la cui opinione conta quanto quella dei membri più stretti. Invece niente, in tre settimane manco la nonna di Biagio, che ha tutti cinque e deve recuperare.
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Mia madre aveva letto la nota sul diario. Diceva: «Suo figlio si rifiuta di disegnare, gradirei parlarle il prima possibile, ricevo il martedì alle otto e trenta». Mia madre mi aveva restituito il diario e poi mi aveva guardato come per dire: ma la finisci di fare il cretino? Io allora di mia spontanea volontà avevo ricominciato con la mia teoria dell’evoluzione: i geroglifici erano per i trogloditi, noi ormai avevamo la parola orale e pure quella scritta e non sapevamo più che farcene dei professori di educazione artistica. Mia mamma aveva detto: Vabbe’, ma che ci vuole, disegna qualcosa, provaci, è il metodo più immediato che esista per esprimersi. Per me questa sua osservazione confermava solo l’esattezza di quanto avevo appena esposto.
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Donato mi dice: Il tema è andato male per un motivo ben preciso. Gli dico che non è andato male per niente, forse un po’ meno bene di quanto mi sarei aspettato, però guarda qua, hai preso sei e mezzo, e gli sventolo la verifica sotto al naso. Lui dice che sei e mezzo fa schifo, e comunque è inutile, tanto i temi gli vengono sempre male. E perché?, gli chiedo io. Perché bisogna piegare il foglio in due, mi dice lui. Gli dico che si può pure non fare, però piegarlo serve perché così resta un po’ di spazio e uno può fare qualche osservazione. Belle le sue osservazioni, mi dice lui. E poi: Ma lei si rende conto, a mano libera? No, non mi rendo conto, che significa a mano libera? E lui: Cioè, senza squadrette, ha presente? No, non ho presente, che stai dicendo, Donato? E lui: Piegare un foglio in due metà esatte senza almeno una coppia di squadrette è praticamente impossibile, anzi per la verità ci vorrebbe il filo a piombo. Guardo il suo foglio, mi sembra piegato molto bene. Glielo mostro come per dire: guarda, lo vedi che non c’è niente che non va? Lui invece guarda com’è piegato il foglio e gli tornano in faccia i tic, tutti quanti insieme.
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Mia madre era andata a ricevimento da quello di educazione artistica: ha la testa dura, gli aveva detto, lo punisca con un brutto voto, vedrà che poi per orgoglio si metterà a disegnare. Il professore le aveva sventolato sotto agli occhi un foglio di album vuoto. Guardi qua, le aveva detto: in basso, sulla destra, c’era la mia firma. Bianco su New York, ci avevo scritto prima di consegnarglielo.
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Gaspare chiede se può sedersi in cattedra perché ha dimenticato gli occhiali a casa e dall’ultimo banco non vede la lavagna. Si mette là e per la prima volta da quando è cominciato l’anno segue la lezione senza fiatare. A un certo punto mi metto spalle alla cattedra e ci appoggio sopra le mani, come per sorreggermi: sto provando a spiegare come si contano le sillabe di un metro, dove cadono gli accenti, ma non ci capisco niente nemmeno io, e allora provo a fare degli esempi. Parlo un sacco, recito un verso del sonetto di Dante, quello famoso, «Tanto gentile e tanto onesta pare», poi me ne viene un altro dal Cantico delle creature: ecco, questa invece è una specie di ballata, dico, ci sono versi di diversa lunghezza, e li ascolto mentre provano a fare il conteggio, uno, due, tre, quattro, poi nei minuti successivi mi perdo: quando loro sono concentrati, mi metto a guardarli e mi distraggo subito, non mi ricordo più cosa gli avevo detto di fare.
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Mia madre, a pranzo, mi aveva detto: Ma forse tu mi sei venuto scemo. Io mi ricordo che avevo ghignato. Lei aveva detto: Senti, non sei più un bambino, certe cose uno le deve fare anche se non gli va di farle, magari disegnare non ti piace o ti riesce male, però è una materia scolastica come tutte le altre, quindi devi disegnare e basta. Mentre lo diceva, a me continuavano a venire in mente titoli per degli altri fogli bianchi: Ed è subito neve, oppure Nulla su tela, 1985.
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Dopo un po’ che loro contavano sillabe ho sentito una specie di solletico e mi sono riscosso. Cos’è, una mosca? Mi giro e c’è Gaspare che chissà da quanto tempo mi sta attorcigliando i peli del braccio. Ma che è?, gli dico, che fai? E lui, come se si stesse svegliando da una specie di sonno: Mi scusi, è una cosa che faccio quando mi siedo vicino a mio padre, mi viene automatico quando vedo braccia pelose. Gli dico: Va bene, non fa niente, ora però finiscila. Poi vado avanti con la lezione, passiamo a geografia, la Spagna e la sua produzione sterminata di olio. Donato invece passa tutta l’ora a contare sempre le stesse sillabe.
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La volta dopo, nell’ora di educazione artistica, avevo preso le squadrette che usavamo per educazione tecnica e avevo riempito il foglio di un sacco di piccolissimi trattini, in direzione casuale, destra, sinistra, centro, obliquo, una bella confusione nella parte alta del foglio, poi avevo lasciato la parte centrale bianca, e poi avevo fatto partire due parallele dal basso verso l’alto. Prima di consegnarglielo avevo piegato il foglio stando attento che fosse in due metà esatte, in modo che non si vedesse niente da fuori.
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Donato mi dice che il conto delle sillabe non torna mai, però forse ha capito una cosa. Che cosa, gli chiedo? Che se è un endecasillabo l’accento cade sempre sulla nona, anche se ci sono più sillabe, e se è un settenario sempre sulla quinta. Ah, gli dico, hai visto? E lui: Il prossimo tema lo posso scrivere senza piegare il foglio?
Quando l’ora finisce c’è ricreazione e io posso andare a casa. Prima di uscire da scuola chiedo in segreteria: Ma com’è che in tre settimane non è venuto neanche un genitore a ricevimento? La segretaria mi guarda e mi fa: Strano, anche oggi? E io: Eh, anche oggi. E lei: Però era pieno di gente. E io: Ma dove, scusi? Io ho aspettato in sala professori tutta l’ora e non c’era un’anima. Lei mi guarda e mi fa: Veramente il ricevimento si fa giù a piano terra, nell’aula ricevimento. Ah, le dico, e c’era tanta gente? Un sacco, mi dice lei, anche martedì scorso.
Gaspare mi rincorre sulle scale e mi strilla: Professore! Mi giro di scatto, che c’è, m’hai fatto pigliare un colpo. Mia mamma mi ha telefonato adesso per sapere se lei era venuto a lezione, l’ha aspettata tutta l’ora, e c’era anche mio padre, e il padre di Agata e anche la nonna di Biagio, come mai non li ha ricevuti? Non so cosa rispondergli, perciò sorrido e gli dico: Gaspare, quante volte te lo devo dire che il telefono non lo puoi accendere neanche a ricreazione? È scritto sul regolamento. Lui è fermo sul pianerottolo del primo piano: Le volevo dire anche un’altra cosa, mi fa. Che cosa?, gli chiedo. Che lei secondo me è come sarò io da grande. E cioè?, gli chiedo. Un po’ dimentichino, mi fa lui. E se ne va.
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Il professore di educazione artistica aveva aperto il foglio e mi aveva chiesto: Cos’è ’sta cosa? È un albero con un sacco di rami secchi, gli avevo detto io. Lui l’aveva guardato e poi ci aveva scritto sopra un cinque. Però lo aveva fatto sorridendo come se gli fosse piaciuto.
16 DICEMBRE 2015
Oggi mentre la classe si agitava in modo inconsulto intorno a un album Panini e io cercavo di parlare di come è fatta una terzina dantesca, l’esasperazione mi è montata altissima e ho detto una serie di nomi a raffica: Gaspare, Iolanda, Fabrizio, Fausto! Quando si sono girati verso di me ho detto: Ora però bonu chiui. Gli è venuta una faccia perplessa, non capivano fino a che punto era un rimprovero e fino a che punto una specie di battuta da ridere, in una lingua incomprensibile. Sono rimasto zitto qualche secondo. Fausto ha detto: Ma che significa? Ho sentito parole risalirmi le viscere e farsi suoni gutturali da sussurrare con la bocca mezza chiusa, e poi invece mi sono ascoltato pronunciare: Significa che mi avete fatto perdere le staffe, mettete via tutto e tornate a posto.
A terza ora avrebbero dovuto avere educazione fisica. Invece arriva una telefonata in segreteria, mi chiedono se posso sostituire. Sostituisco, ma sono stanco, la terzina dantesca, Fausto che si scambiava le figurine con Biagio da un banco all’altro, venti pacchi ciascuno, il nervoso che mi veniva dal pensare che a me venti pacchi di figurine tutte in una volta non me li aveva mai comprati nessuno, uno, massimo due alla volta, ogni quindici giorni.
La classe è insubordinata, non tollerano di rinunciare alle due ore di educazione fisica settimanale, mi chiedono: Ci porta fuori? Fuori?, dico io. Ma fuori dove? Qua sotto, dicono loro, al dopolavoro, la Brucchelli teneva un pallone nell’armadio della sala professori, quando capitavano queste cose ci portava al dopolavoro a giocare.
Sono molto irritato dal fatto che questi hanno venti pacchi di figurine ciascuno e quando manca quella di educazione fisica vanno a giocare a pallone al dopolavoro, che è sotto la scuola. Li porto giù lo stesso, tanta fortuna sarebbe disonesto sprecarla. Gioco pure io però, dico a tutti. Sembrano contenti della mia partecipazione, io invece penso solo: venti pacchetti, ma veramente?
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Fausto dice che lui è il capitano e Biagio l’altro capitano e cominciano a scegliersi i componenti delle squadre. Vengo scelto per ultimo da Biagio, Fausto mi preferisce una femmina. Sono abbastanza nervoso: ora quei venti pacchetti li dai a me, penso.
Prendiamo subito un gol, ha segnato Fausto, che ora festeggia. Lo blocco e gli chiedo: Cos’è un endecasillabo? Mi dice: E che c’entra, adesso? Gli dico: O lo sai o non lo sai. Non lo so, mi risponde lui. Allora siamo a zero a zero, gli dico io. Si infuriano anche quelli della mia squadra. Prendo il pallone e dico che o così o rientriamo. Dicono tutti: Va bene.
Fausto segna un secondo gol. Festeggia di nuovo. Non dico niente. Battiamo da centrocampo, mi faccio passare la palla da Gaspare. Tiro fortissimo dalla distanza, segno. Fausto dice: Uno a uno. Va bene, dico io, però tu non sai cos’è un endecasillabo e io invece sì, quindi comunque stiamo vincendo noi.
Fausto passa pochissimo la palla, vuole fare tutto da solo, salta due, tre avversari e tira. Spesso manca la porta perché insiste troppo. Decido che adesso lo marco io, così la finisce di fare lo smargiasso. Fa di nuovo un dribbling, poi trova me, gli prendo la palla e lui fa finta di cadere e dice ahi, e si rotola per terra. Va bene, gli dico, fallo, alzati, e gli tendo la mano per farlo rialzare. Lui si rialza ma platealmente non mi dà la mano, i compagni, suoi e miei, ridono. Appena il gioco riprende, qualcosa mi viene su da non so dove, aspetto il momento in cui lui è senza palla, a centrocampo, gli vado molto vicino e gli sussurro in un orecchio: Allò ’a prossima uota t’astruppiu bonu. Fausto non sa cosa pensare, non sa cosa dire, non ha capito una parola, ha solo sentito un tono di voce strano, basso, dolce anche. Da quel momento in poi gioca con molta meno sicurezza, sbaglia un sacco di volte quando prova a saltare qualcuno, segna solo un altro gol. Venti pacchetti, penso io, è assurdo.
Alla fine della partita torniamo in classe. Fausto viene alla cattedra, mi chiede: Professore, ma cosa mi ha detto prima nell’orecchio? Non ha nessuna importanza, gli rispondo, anzi è una cosa che non si fa, non mi piace, se ti vedo farlo a qualcuno ti metto una nota sul registro elettronico. Lui mi dice: Io gioco nelle giovanili della Ternana, magari mi torna utile quando ci sono le partite. Niente, gli dico, non c’entra niente cosa ti ho detto, al limite puoi provare a fare così. Così come?, chiede lui. Gli vai vicino e gli dici qualcosa sottovoce, non si grida come fai tu, ti avvicini e glielo dici come fosse una cosa normale, che dici tutti i giorni. Gli dici cosa?, insiste lui.
Non mi va di parlare in quel modo, l’ho sempre detestato quando l’hanno fatto a me, però Fausto mi assilla e comunque voglio togliermelo di torno perché secondo me venti pacchetti sono una cosa immorale, mi vengono certe frasi dritte dall’esofago e gliele dico in dialetto: Manco a fare spacchio ravanti a tutti, ni viremo sutt’ ’a casa to appena finemo i iucare, e poi gli fai una carezza in faccia, gli dico. Ma che significa, mi chiede lui. È come un endecasillabo, gli dico io: serve a creare un effetto in chi ti ascolta, anche se a volte è tutto un bluff, suoni più che parole, lo sai cos’è un endecasillabo tu, gli chiedo? Non me lo ricordo, mi fa lui. E allora vattelo a studiare, gli dico. Fausto fa come per andare a posto. Poi però si gira, si avvicina al mio orecchio e con la bocca semichiusa mi sussurra: Poi domani ci incontriamo sotto casa sua e glielo spiego io, che cos’è un endecasillabo.
20 DICEMBRE 2015
Domani ci sarà il concerto di Natale: prenderanno gli zufoli e si metteranno a suonare aula per aula le canzoni natalizie che hanno imparato e provato nelle ore di educazione musicale.
In ogni classe ci sono almeno venti studenti, significa venti zufoli, cioè un’orchestra di zufoli che suonano la stessa melodia, ho assistito ad alcune delle prove e devo dire che sentire venti strumenti identici suonare all’unisono produce in chi ascolta molta irritazione.
Le melodie vanno da «Adeste Fideles» a «Last Christm...