1. PUBBLICARE
«Anche Proust e Joyce hanno dovuto piegarsi alla dura necessità»
Nel Pendolo di Foucault di Umberto Eco, il giovane Casaubon all’inizio degli anni Ottanta visita, per un impiego di consulenza, la casa editrice Garamond dove lavorano gli amici Belbo e Diotallevi. L’editore, il signor Garamond, vuole conoscere il nuovo collaboratore e per raggiungerlo Casaubon passa in un altro ambiente – anzi, un corridoio, tre scalini e una porta a vetri smerigliata conducono in «un altro universo», dove i locali non sono più «bui, polverosi, slabbrati» ma sembrano «la saletta vip di un aeroporto». Il giovane prima immagina di entrare nella zona direzionale della Garamond, poi scopre di essere in un’altra casa editrice, la Manuzio. Da una parte abbiamo un serio editore di cultura, dall’altra un’impresa non ben definita e molto delicata nelle forme. Numerosi segni confermano il contrasto già visibile nei locali: la Garamond ha «una vetrinetta oscura e appannata» per libri «con fogli ancora da tagliare e una sobria copertina grigiastra», la Manuzio una vetrinetta illuminata dall’interno per libri con «copertine bianche, leggere, ricoperte di plastica trasparente, molto elegante»; le collane Garamond hanno «nomi seri e pensosi, come Studi Umanistici o Philosophia», quelle della Manuzio «nomi delicati e poetici» come Il Fiore che Non Colsi e L’Ora dell’Oleandro.
L’incuriosito Casaubon riceve una vaga spiegazione da Belbo – «il signor Garamond possedeva due case editrici, ecco tutto» – e, una volta accordatosi per la collaborazione, assiste all’incontro tra l’editore doppio e il commendator De Gubernatis, aspirante autore, scrivente in cerca di pubblicazione. Garamond ne apre il manoscritto di poesie, loda il verso «come d’autunno, il ciglio smagrito» («si sente un afflato») ed è però costretto a riconoscere che «anche l’editoria è un’industria, la più nobile tra le industrie, ma industria». Passa così a elencare le difficoltà del suo mestiere e dopo aver lodato pure la carta velina su cui De Gubernatis ha battuto il testo, fine come l’animo di un vero scrittore, lo sconfortato Garamond si lascia sfuggire un «ma questa carta velina a me costa come carta moneta». A questo punto, nominata già due volte la triste realtà economica, viene interrotto da una finta telefonata che ha il compito di spiegare ancora meglio all’aspirante autore la crudeltà del mondo e i compromessi inevitabili dell’editoria. Il passo, narrato da Casaubon, merita una lunga citazione:
Squillò il telefono. Avrei poi appreso che Garamond aveva schiacciato un bottone sotto la scrivania e la signora Grazia [assistente di Garamond] gli aveva passato una telefonata fasulla.
«Caro Maestro! Come? Che bello! Grande notizia, si suonino le campane. Un nuovo libro Suo è un evento. [...] Purtroppo Lei è in anticipo sui tempi. Abbiamo fatto fatica a vendere tremila copie...
«Non hanno coperto i costi di produzione. Vada a vedere al di là della porta a vetri quanta gente ho in redazione. Oggi per rifarmi di un libro io debbo distribuire almeno diecimila copie, e per fortuna di molti se ne vendono anche di più, ma sono scrittori, come dire, con una vocazione diversa, Balzac era grande e vendeva i libri come panini, Proust era altrettanto grande e ha pubblicato a proprie spese. Lei finirà sulle antologie scolastiche ma non nelle edicole delle stazioni, è successo anche a Joyce che ha pubblicato a proprie spese, come Proust. Di libri come i suoi posso permettermene uno ogni due o tre anni. Mi dia tre anni di tempo...» Seguì una lunga pausa. Sul volto di Garamond si dipinse un doloroso imbarazzo.
«Come? A sue spese? No, no, non è la cifra, la cifra si può contenere... È che la Manuzio non usa... Certo, lei mi insegna, anche Joyce e Proust... Certo, capisco...»
Altra pausa sofferta. «Va bene, parliamone. [...] Passi domani, e faremo una botta di conti... I miei ossequi e la mia ammirazione».
Garamond uscì come da un sogno, e si passò una mano sugli occhi, poi mostrò di sovvenirsi di colpo della presenza dell’ospite. «Scusi. Era uno Scrittore, un vero scrittore, forse un Grande.
«Eppure, proprio per questo... Talora ci si sente umiliati, a fare questo mestiere. Se non ci fosse la vocazione. Ma torniamo a Lei. Ci siamo detti tutto, Le scriverò, diciamo tra un mese. Il suo testo rimane qui, in buone mani».
Il commendator De Gubernatis era uscito senza parole. Aveva messo piede nella fucina della gloria.
La Manuzio è una casa editrice per «APS», autori a proprie spese, e De Gubernatis è il nuovo bersaglio di questa vanity press con fatturato altissimo e spese di gestione nulle. Il signor Garamond continuerà nel suo abile raggiro del commendatore, tra cene letterarie ed elogi per il testo ben giudicato da quattro lettori di professione (fasulli pure questi, «sgualcire i manoscritti è compito della signora Grazia»). Purtroppo l’opera è «in anticipo sui tempi» e non potrà vendere più di 2000, 2500 copie: numero basso per un editore tradizionale ma perfetto per De Gubernatis e il suo piccolo mondo di provincia. Il commendatore si ritrova così in una situazione difficile, «tutti in casa, in paese, in ufficio, sanno che ha presentato il manoscritto a un grande editore di Milano», che ora, di fronte a un capolavoro lontano dai gusti comuni, pare tirarsi indietro. De Gubernatis fa una botta di conti e «offre timidamente di partecipare alle spese», Garamond si mostra turbato ma alla fine accetta. Dopo avere ricordato ancora una volta che «in fondo anche Proust e Joyce hanno dovuto piegarsi alla dura necessità».
Il pendolo di Foucault esce nel 1988, quando un De Gubernatis poteva arrivare alla pubblicazione solo attraverso la via a caro prezzo Manuzio, poiché l’altra strada, la Garamond dell’editoria-di-qualità, gli era preclusa per quella mancanza di talento che un commendatore-poeta non può o non vuole riconoscere in sé. Preferisce interpretare il rifiuto come complotto editoriale, prova di un’impenetrabile consorteria letteraria («se non sei uno dei loro...»), e può persino ricorrere al sillogismo bacato che, partendo dalle premesse «Proust ha ricevuto molteplici rifiuti e pubblicato a proprie spese Du côté de chez Swann» e «io sono rifiutato dagli editori e pubblico a mie spese», conclude con «quindi io sono il nuovo Proust».
Oggi un De Gubernatis e pure un novello Proust potrebbero ricorrere all’autopubblicazione. Grazie a internet puoi creare subito l’ebook, il libro digitale, con servizi come il Kindle Direct Program di Amazon, e il libro cartaceo con servizi come Amazon CreateSpace, Lulu e ilmiolibro.it del Gruppo Editoriale L’Espresso. Il preventivo rapido disponibile sul sito di quest’ultimo per un’opera di 100 pagine in formato standard (15x23 cm) con copertina morbida da stampare in 1000 copie (quantità massima consentita dal form di richiesta) ammonta oggi a 5387 euro, circa 5 euro a copia; mentre il concorrente Lulu per 2000 copie con caratteristiche simili richiede 6375 euro, circa 3,20 a copia. Queste cifre non sono certo piccole e restano probabilmente ben inferiori al conto totale di un editore a pagamento; se il commendatore scegliesse l’autoproduzione e autopubblicazione solo in ebook l’esborso potrebbe però essere bassissimo: con il Kindle Direct Program il costo per la distribuzione digitale di una copia è al massimo qualche centesimo di euro. E in questi calcoli non abbiamo previsto che l’autore venda copie, ma solo che le compri e paghi i costi di distribuzione digitale.
Negli anni Ottanta non c’erano il Kindle e Amazon. Ma l’ebook inteso come testo elettronico già esisteva: l’americano Project Gutenberg, tradizionalmente considerato la prima biblioteca digitale, prende avvio nel 1971, e cresce molto lento nei primi vent’anni di vita (nell’agosto 1989 viene digitalizzato il decimo libro, la King James Bible); Umberto Eco scrive la prefazione per Come fare una tesi di laurea con il personal computer di Claudio Pozzoli, pubblicato all’inizio del 1986; e lo stesso Pendolo di Foucault aggiorna con i file digitali di Belbo, entusiasta del word processor, l’artificio del manoscritto ritrovato. Esisteva già pure l’autopubblicazione in rete, sebbene non fosse alla portata del pubblico comune.
Il pendolo di Foucault non descrive solo due modi di produzione editoriale, ma due circuiti completi del libro, quello «di qualità» e quello a pagamento, che costituisce la parodia del primo e prospera sulla non percezione da parte degli APS della parodia. Il libro pubblicato a proprie spese viene infatti segnalato su riviste come L’Atanòr Poetico e La Rosa e la Spina, «diffuse solo presso i clienti della Manuzio» (qui con clienti s’intendono gli autori), è distribuito esclusivamente «a librerie secondarie e consorziate», partecipa a un premio letterario fasullo («Petruzzellis della Gattina, creatura di Garamond. Costo totale: vitto e alloggio per la giuria, due giorni, e Nike di Samotracia in vermiglione») e consente all’autore l’entrata con tutti gli onori in un’enciclopedia taroccata scritta da Belbo e Diotallevi dove si dedicano due righe a Tomasi di Lampedusa per non rubare spazio all’APS Lampustri Adeodato, la cui figura «giganteggia nella letteratura italiana del nostro secolo».
Il signor Garamond è un editore doppio: pubblica senza grande guadagno libri seri mentre fa ottimi profitti sulle ambizioni sbagliate dei commendatori. E non si sente affatto in colpa, nemmeno quando inganna De Gubernatis sul numero di copie stampate, riuscendo, dopo un anno e con la minaccia del macero, a fargliene pagare 500 due volte: è «senza rimorsi: distribuisce felicità». In fondo che male c’è se qualcuno paga per credersi poeta? Poco male, se i due circuiti del libro rimangono sempre separati, se Tomasi di Lampedusa non si mischia con Lampustri Adeodato; ma questo è proprio ciò che non può accadere, perché la pubblicazione a pagamento si sogna a occhi aperti come editoria seria e vive nell’imitazione, grottesca e non percepita come tale, di questa.
Si può rischiare il contenimento, cercare un qualche equilibrio tra i principi di valore e d’interpretazione da mantenere saldi e il disincantato fare profitto sui gonzi? La stessa editoria seria del resto può rendersi disponibile al compromesso, doloroso ma inevitabile (direbbe il signor Garamond da quegli anni Ottanta tanto più economicamente felici rispetto al presente), con titoli che lucrano con disinvoltura non sull’autore a proprie spese ma sui gusti più facili del pubblico pagante. Cede al mercato, con libri spudoratamente commerciali che però negano la loro natura e sfruttano la garanzia culturale e cultuale del marchio editoriale, la forza del catalogo. Per potersi permettere il libro del grande scrittore dalle scarse vendite non si fanno quindi i libri a pagamento ma i libri del famoso cantante: persino Einaudi pare «sostenere» con Luciano Ligabue, Giuliano Sangiorgi e Lorenzo Cherubini la pubblicazione di Michele Mari.
Nulla impedisce, in linea di principio, che un celebre cantante, presentatore, calciatore scriva un romanzo di grande dignità letteraria o un’autobiografia appassionante o persino un capolavoro, ma è lecito chiedersi: quanti libri «alimentari» ci vogliono per normalizzare verso il basso l’editoria di qualità? Quanti libri effimeri ci vogliono perché lo stesso «pubblico colto», sommerso da titoli deboli garantiti dal marchio editoriale, non ricerchi o non comprenda più Mari? E questo restringersi dell’orizzonte, pur consentendo all’editoria di qualità di «tirare il fiato» nel breve, quali effetti porta, nel lungo periodo e per la società in generale? Diamo pure per scontato che un qualche compromesso, una qualche manomissione della barriera all’entrata intesa come difesa della qualità, sia inevitabile, oggi più di ieri, ma quando il compromesso diventa insostenibile? E continuando a cedere ogni giorno un piccolo spazio in più, l’editoria saprà ancora accorgersi dei confini superati?
Eco iscriveva la sua satira della pubblicazione a pagamento teratologica in una più ampia narrazione sulle deformazioni della cultura e i suoi pericoli; un finto circuito del libro come quello della Manuzio, perfettamente efficiente e deformato, non è forse mai esistito, e ha valore di esempio morale, monito severo contro l’indistinzione. Nel Pendolo di Foucault, infatti, senza filtro editoriale, inteso non come difesa feroce di una posizione di vantaggio ma come giudizio fondato sul valore e la verità dei testi, crolla il mondo del libro, anzi crolla letteralmente e materialmente il mondo. L’editoria può sbagliare in modo clamoroso, rifiutando testi di alto valore e ottima leggibilità come è accaduto proprio con Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, pubblicato postumo nel 1958 da Feltrinelli, dopo i pareri negativi di Einaudi e Mondadori, e subito amatissimo dai lettori. Eco ritiene però che il filtro funzioni, pur con gli occasionali falsi positivi e falsi negativi (opere indegne trovano pubblicazione mentre libri meritevoli rimangono inediti a lungo), nel lungo periodo e alla fine dei conti. Soprattutto non vuole scambiare uno strumento imperfetto per individuare e far conoscere il valore con la rinuncia a qualsiasi filtro professionale prima della pubblicazione.
La vita letteraria e l’autore autoautorizzato
L’aspirante autore Simone Bartoletti scrive a Umberto Eco, il più famoso intellettuale italiano, una lettera dove chiede la disponibilità alla lettura di un suo manoscritto e lamenta con i toni forti di una persona ferita il totale silenzio delle case editrici a cui aveva inviato il testo (dopo averne cercato l’indirizzo su internet e compreso che «avevano interesse a valutare inediti»). Nel maggio 2001 Eco risponde a Bartoletti su Golem, rivista online da lui fondata (insieme a Gherardo Colombo e altri) nel 1996, nella speranza «di raggiungere altre persone che si trovano nella sua situazione, per dire loro candidamente come vanno le cose a questo mondo». Dichiara in primo luogo di non essere disposto a leggere il manoscritto, per semplice mancanza del tempo materiale necessario a un esame attento, quindi chiarisce che gli aspiranti autori segnal...