I LATRATI DI JAMES ELLROY
di Paul Duncan
(1996)
BAU. BAU. ASCOLTA IL LATRATO DEL CANE DIABOLICO
NEL BUIO GLI BRILLAN TRENTA CENTIMETRI DI MANICO
IL CERVELLO L’HA GROSSO, MA IL CAZZO È UN MACIGNO
COL SUO DITO DI DESTRA PUÒ INNESCARE UN ORDIGNO
Buongiorno, Mr Ellroy.
Chiamami Cane.
Ok, Mr Cane.
No... soltanto Cane.
Se c’è una cosa che ammiro del Cane è che sa mettere su degli spettacolini niente male. Impreca. Tira fuori il suo passato e lo sbatte in faccia ai fan. Fa finta di masturbarsi sul palco. Ulula, perché si considera il Cane Diabolico della crime fiction americana. E la cosa più divertente è che molti lo prendono sul serio.
Me lo immagino che torna a casa dopo uno o due mesi di tour sfiancante, si toglie le scarpe, si lascia cadere su una sedia e scoppia a ridere al pensiero delle facce esterrefatte del pubblico. Mi fa pensare a un Muttley, più alto e allampanato, che riesce a catturare quel maledetto piccione.
Del resto, cosa si può aspettare la gente dopo aver letto almeno uno dei romanzi del Cane? Da Prega detective ad American Tabloid sono tutti zeppi di turpiloquio, razzismo, droghe, escrementi, violenza, liquidi organici, reietti e situazioni folli. Come si può pretendere che il Cane non sia rabbioso anche nella vita reale?
Il carburante che lo tiene sveglio la notte per scrivere i suoi deliri lucidi è l’omicidio irrisolto della madre, avvenuto nel 1958. I suoi libri sono pieni di surrogati materni, il più famoso dei quali è Elizabeth Short, la Dalia nera, noto caso di omicidio insoluto del 1947. È come se Ellroy stesse cercando di negare ciò che successe alla madre trattandola come un personaggio di finzione. Ma con l’ultimo romanzo, American Tabloid, Ellroy ha dimostrato di essere maturato ancora. E con I miei luoghi oscuri, che ripercorre la sua personale ricerca dell’assassino della madre, Ellroy spera di averle reso omaggio, di averla raccontata per ciò che era davvero.
Paul Duncan ha intervistato James Ellroy.
Una vita da Cane
Lee «the Big Armando» Ellroy, nato in Germania nel 1898, arrivò in America con i suoi genitori, che morirono nell’incendio di un hotel quando Lee aveva sei anni. Fu mandato in un orfanotrofio e educato da sadiche suore irlandesi. Sosteneva di aver avuto una relazione con Rita Hayworth.
Jean Geneva Hilliker nacque nel 1915 a Tunnel City, nel Wisconsin, e ricevette un’educazione severamente calvinista. Studiò per diventare infermiera e a diciannove anni sostenne di aver visto John Dillinger cadere sotto i proiettili degli agenti federali.
Lee e Jean si incontrarono nel 1939, si sposarono e vissero a West Hollywood, Los Angeles.
James nacque il 4 marzo del 1948, al Good Samaritan Hospital. Imparò a leggere a tre anni e diventò presto un avido lettore. Nel 1954 Lee e Jean divorziarono. Lee beveva Alka-Seltzer per combattere l’ulcera e andava a caccia di donne. Jean beveva bourbon Early Times e andava a caccia di uomini. James beveva quello che gli veniva dato e a scuola faceva un po’ di mezzofondo. Risultato: James andò a vivere con la madre, vedendo il padre soltanto nei fine settimana.
Jean lavorava come infermiera nell’ambulatorio di uno stabilimento della Packard Bell e frequentava regolarmente degli uomini. Uno di questi, Hank, era grasso e gli mancava un pollice. Jean era sempre ubriaca. James preferiva suo padre. Quando compì dieci anni gli fu data la possibilità di scegliere se vivere con la madre o con il padre: James scelse il padre e quando la madre lo schiaffeggiò le diede dell’ubriacona e della puttana.
Tre mesi dopo, al ritorno da un fine settimana con il padre, James trovò degli sbirri a casa della madre. Gli dissero che era morta. Uno sbirro gli diede qualche caramella e un reporter lo fotografò davanti a un tavolo da lavoro con un punteruolo in mano: non fu diffusa una seconda foto che lo immortalava mentre faceva il buffone per attirare l’attenzione.
James non andò al funerale. Si trasferì dal padre, piccolo imprenditore, donnaiolo, veterano di poco conto, gran bugiardo e cardiopatico. E per un breve periodo, alla fine degli anni Quaranta, consulente fiscale di Rita Hayworth.
«Dopo la morte di mia madre ho vissuto in povertà con mio padre a due passi da Hancock Park, una ricca enclave di wasp. Ok, avevo anch’io il pedigree da wasp, ma il rovescio della medaglia della waspità è la “spazzatura bianca”, e noi lo eravamo».
James si chiedeva se anche suo padre sarebbe stato ucciso. L’anno seguente il padre gli regalò una copia di The Badge di Jack Webb, che includeva un resoconto del caso della Dalia nera (Elizabeth Short, un’attricetta ritrovata nuda e tranciata in due con segni di tortura e mutilazioni), e a James la Dalia ricordò sua madre, anche perché entrambi i casi rimanevano irrisolti.
James fece spesso avanti e indietro tra la Norton Avenue e la Trentanovesima Strada, dove era stato ritrovato il corpo della Dalia, per percepirne la presenza. Di notte gli appariva negli incubi e di giorno in flash a occhi aperti. Fu allora che cominciò a leggere polizieschi e cronaca nera. Parlò della Dalia con Randy «Rice», un amico d’infanzia. Fu espulso da scuola per colpa delle assenze. Anni dopo sarebbe andato al cimitero dov’era sepolta la Dalia e davanti alla lapide avrebbe sentito che la conosceva, e che l’amava.
Nel 1965, a diciassette anni, si arruolò. Poi suo padre si ammalò gravemente, e James finse un esaurimento nervoso e la balbuzie per farsi congedare. Suo padre morì. James si ritrovò senza soldi e senza casa.
Si mise a fare il guardone dalle parti di Hancock Park: entrava nelle case della gente e annusava le mutande delle signore. Comprò anfetamine da tale Gene, detto «la Regina Bassa». Quando non aveva soldi beveva sciroppi per la tosse, o per stonarsi ingoiava il cotone degli inalatori. Passava il tempo al Robert Burns Park a farsi di speed e a masturbarsi. Per undici anni fu questa la sua vita: bere, rubare cibo, bere, farsi di acidi, bere, taccheggiare, rubare alcol, fumare hashish, vivere per strada, rubare portafogli, dormire nell’immondizia ed entrare nelle case della gente. Visitò l’istituto di custodia cautelare almeno una dozzina di volte. Fece lavori strambi, compreso badare alla cassa in un porno shop, finché non lo beccarono a svuotarla.
Il Cane si prese una polmonite e gli fu diagnosticato un ascesso polmonare. Un paio di settimane dopo ebbe delle allucinazioni collegate all’alcol e capì che se non l’avesse fatta finita con quella vita sarebbe morto. E così la fece finita. Si iscrisse agli Alcolisti Anonimi.
Oggi Ellroy non beve, non fuma e va a letto presto. È molto lucido, meticoloso, mantiene la casa pulita, ama la disciplina. Al momento vive con la moglie, l’autrice e critica letteraria femminista Helen Knode, a Mission Hills, nel Kansas.
«È l’equivalente di Hancock Park però nel Midwest».
Non devi più entrare nelle case.
Ho una casa come quelle, adesso. La zona è pacifica, piacevole, e c’è il silenzio di cui ho bisogno per lavorare. Detesto i rumori della strada, mi distraggono.
Prega detective (1981)
Nel 1977 il Cane cominciò a lavorare come caddie, prima allo Hillcrest Country Club e, dopo aver menato un altro caddie, al Bel-Air, dove guadagnava 200, 300 dollari a settimana. Viveva in una stanza da 25 dollari a settimana al Westwood Hotel. Nel 1978 gli venne un’idea per un giallo e il 26 gennaio del 1979 cominciò a scriverlo.
La storia: Fritz Brown, un ex sbirro trasformatosi in repo, che recupera crediti per conto degli autonoleggi e ha conservato il distintivo per sfruttarlo in attività illegali, viene ingaggiato dal super-caddie Freddy «Fat Dog» Baker per tenere d’occhio sua sorella e il vecchio riccone con cui vive.
Ho notato che in altre interviste hai sminuito questo libro. Non capisco perché. Credo che sia un gran libro, parecchio sottovalutato.
È un buon libro, sì.
Ha tutti i tratti distintivi del Cane: sbirri corrotti, violenza eccessiva, il caso della Dalia nera, l’eroe che viene pestato a sangue, Tijuana, i reietti, il vino, le donne e le droghe, e un finale ambivalente. La donna inconquistabile era un elemento ricorrente nei tuoi primi romanzi.
L’ho scritto poco dopo aver smesso di bere. Non stavo con una donna da anni. Avevo avuto poche esperienze e stavo cercando quella giusta. Ero un ragazzo di quelli molto grrr, grrr, grrr e le donne avevano paura di me. Non avevo ancora raffinato i miei comportamenti sociali. Lavoravo come caddie, avevo smesso di bere e stavo scrivendo il mio primo libro. Volevo una donna, volevo far sesso, volevo tutte quelle cose e non ne avevo nessuna. Tutto ciò si evince dal libro. È autobiografico. Il protagonista è identico a me: ha origini tedesche, ascolta musica classica, proviene dal mio quartiere, e frequenta un gruppetto di caddie. Praticamente sono io. Lui era un investigatore privato e un ex sbirro, io no. Avevo fatto il repo per pochissimo tempo nel 1978, e quindi ne sapevo qualcosa.
Com’era fare il caddie?
Praticamente fai parte della malavita. Il novantanove per cento dei caddie nei country club d’America sono drogati, alcolizzati, giocatori d’azzardo, ex carcerati e in generale reietti. Io smisi di bere nell’agosto del 1977 e quello del 1977-78 fu il mio primo inverno da sobrio. Ricordo che quell’anno a L.A. venne giù una pioggia torrenziale. Non potevi allestire il campo da golf per i ratti, e allora le giornate in cui pioveva tiravamo su soltanto cinque dollari e gli altri caddie li investivano in vino scadente e sigarette, accampandosi nei due ristoranti del club, dormendo nel parcheggio o rubando delle bistecche per farci un barbecue. Tutti tranne me. Avevo un posto dove stare. E avevo smesso di bere.
Fare il caddie significava bei soldi in nero e mi permetteva di tornare a casa alle due del pomeriggio per mettermi a scrivere. Ho continuato finché non ho venduto i diritti del quinto libro. Adesso posso permettermi l’iscrizione al ...