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Perché scrivere
(2011)
Non vi preoccupate: so come ci si sente. Sono stata a tante conferenze tenute da scrittori. Spesso la sala è grande e piena di spifferi, e le sedie non sono comode come quelle che avete a casa; c’è una lunga introduzione – specie se la conferenza si tiene in Italia – e poi uno scrittore sale sul podio, con l’aria a volte timida, a volte molto sicura di sé, ma sempre con la bocca un po’ troppo vicina al microfono. Il riverbero stride: lo sentite fin dentro i molari. Esaminate lo scrittore. È proprio come ve l’aspettavate, oppure totalmente diverso da come ve l’aspettavate, e pensare a questo vi porta via qualche minuto, ma intanto la conferenza è iniziata: e voi vi siete persi il titolo, vi siete persi l’argomento, sentite qualche verso di poesia in lingua straniera sfiorarvi le orecchie... La barca ha lasciato il porto e voi siete rimasti a terra, impotenti. Vi guardate le unghie. Guardate lo scrittore. Sta dicendo qualcosa a proposito della scrittura, che supera i confini e plasma le identità, o che ignora i confini e non ha identità. In mano tiene un mazzetto di fogli tremanti di cui ora tentate rapidamente di calcolare lo spessore. Dà l’idea di essere una cosa lunga – tremendamente lunga. Vi aspettano quarantacinque minuti – forse perfino un’ora intera – senza speranza di un bicchiere di vino, e nemmeno di un semplice biscotto. Insomma, si protrarrà questa sfilata fino al giorno del giudizio?
Probabilmente sì. La «conferenza sulla scrittura» è una cosa insidiosa: attira le frottole. È al tempo stesso qualcosa di troppo ampio e di troppo strettamente autoreferenziale: alla fine dell’ora è facile che ci siamo convinti che per una nazione la scrittura sia più vitale della produzione di cibo, e che gli scrittori in sé siano un incrocio fra martire, insegnante, politico, uomo del popolo, predicatore e santo. Quando mi trovo fra il pubblico, in queste occasioni, mi stupisco sempre di quanta tolleranza abbiano i lettori verso simili discorsi. In un’epoca in cui quasi nessun ruolo umano è immune dall’essere svuotato di senso, fatto oggetto di ironia e sminuito, è strano che il titolo di «scrittore» continui a esercitare tanto fascino su tanta gente. Come si spiega? Vorrei arrivarci fra un po’: ma prima preferirei, se non vi dispiace, tenervi ancora nella mia archetipica sala conferenze, con il pubblico che cambia leggermente posizione sulle sedie pieghevoli e lo scrittore a cui tremano le mani. In genere, in mezzo al pubblico ci sono diversi altri scrittori: amici di quello che parla, magari, o colleghi invitati allo stesso festival. Si riconoscono subito: non alzano mai lo sguardo. Il semplice titolo della conferenza gli è bastato. Perché scrivere? Perché scrivere? Il massimo che possono fare è starsene lì seduti e lasciare che il discorso gli entri da un orecchio e gli esca dall’altro – con tutte quelle idee nobili, ottimistiche, assolutamente intollerabili. Mentre gli studenti si appuntano le frasi a effetto, gli scrittori studiano con attenzione le mattonelle del pavimento fino a mandarne il disegno a memoria. E alla fine della conferenza tornano a casa e si mettono davanti al computer, dove li aspettano, pazienti come la morte, alcune immancabili sensazioni negative – decisamente assenti dal discorso appena ascoltato. Un senso di inutilità. Di ridondanza. Di assurdità. Non proprio di disperazione: «disperazione» è esattamente il tipo di parola che gli scrittori usano nelle conferenze; se non altro ha una certa grandiosità. «Quando mi siedo davanti al computer, mi coglie la disperazione!» è una cosa molto letteraria da dire. «Quando mi siedo davanti al computer mi sento inutile» è, secondo me, un’affermazione un po’ più vicina alla verità. Perché ci sono poche cose che possano far sentire più ridicoli, in questo anno del signore 2011, del sedersi a tavolino a scrivere un romanzo. No, in realtà eccone una: sedersi a tavolino a scrivere una poesia. Il ruolo dello scrittore è diventato assurdo. Forse i lettori non se ne sono ancora accorti, ma gli scrittori lo avvertono intensamente. Conosco un poeta che, se gli si chiede cosa fa nella vita, risponde «L’avvocato» anche se non lavora come avvocato da più di dieci anni. Gli sembra che starsene in una stanza di Londra, nel 2011, e dire «Faccio il poeta» sia come dire «Accendo i lampioni a gas» o «Sono il banditore del villaggio». Mi rendo conto che parecchia gente, animata dalle migliori intenzioni, tira in ballo la massiccia diffusione dei festival letterari e sostiene che dimostri il perdurare della rilevanza di questa figura culturale, «lo Scrittore»: ed è gentile e generoso, da parte loro. Ma l’ascesa dei festival letterari è soltanto proporzionale alla nostra assurdità: quando quello dello «Scrittore» era un ruolo veramente serio, gli scrittori non avevano alcun bisogno di viaggiare per il mondo parlando della «scrittura»; ora che siamo assurdi, dobbiamo parlare continuamente del nostro essere scrittori: è il solo modo per convincerci che esistiamo.
Poveri scrittori del ventunesimo secolo! Certo, è tipico degli scrittori di tutti i secoli autocommiserarsi e pensare che la loro situazione, qualunque sia, non abbia eguali. Mentre preparavo questa conferenza ho cercato di chiedermi onestamente se quello che a pelle mi sembra vero sia in effetti vero: è più difficile scrivere oggi di quanto lo fosse un tempo? Abbiamo motivi particolari per lamentarci? Ci sembra di sì: Melville aveva un sacco di grane con i suoi editori, ma non si trovava a fronteggiare l’imminente scomparsa del diritto d’autore; Keats è stato bersaglio degli strali di parecchi critici, ma non ha mai dovuto vedersela con metà di internet che gli dava del coglione; Emily Brontë ha faticato a trovare un pubblico, ma non era in competizione con l’industria dell’intrattenimento audiovisivo globale, cinema, televisione, videogiochi online, iPod, iPad e telefonini superaccessoriati carichi di distrazioni da due minuti quante ne bastano per una vita intera. Quelle con cui abbiamo a che fare noi sono senz’altro delle circostanze particolarmente sconfortanti, no? Ma poi, se uno comincia a fare un po’ di ricerche, a origliare negli archivi, si ritrova in una sala riecheggiante di lamentele. Perché gli scrittori si sentono sempre trascurati. Rimpiangono sempre una mitica età dell’oro, appena passata, in cui potevano essere scrittori nel senso nobile del termine, o quanto meno in un senso più nobile. Pope rimpiangeva l’epoca di Orazio. Henry James rimpiangeva l’epoca di Jane Austen. Noi scrittori del ventunesimo secolo idealizziamo disperatamente il modernismo, che a posteriori ci sembra un periodo in cui si poteva scrivere un libro così rivoluzionario che bisognava farlo arrivare clandestinamente in Francia per vederselo pubblicare. Eppure anche Virginia Woolf, vissuta durante quello straordinario periodo, provava la stessa forma di «invidia storica», e descrive in maniera precisa questo circolo di illusioni nel suo saggio La narrativa moderna: «Non veniamo per scrivere meglio: l’unica cosa che si può dire è che continuiamo a muoverci, ora un po’ in una direzione, ora in un’altra, ma con una tendenza alla circolarità, se si guardasse il tracciato del percorso da un punto di vista abbastanza elevato. Inutile dire che non pretendiamo di trovarci, anche solo momentaneamente, in quel luogo di osservazione. In piano, tra la folla, mezzo accecati dalla polvere, ci voltiamo indietro a guardare con invidia quei guerrieri più felici che hanno ormai vinto la battaglia e i cui successi hanno ai nostri occhi un’aria di perfezione talmente serena che a stento riusciamo a trattenerci dal sussurrare che per loro la lotta non dev’essere stata così feroce come lo è per noi».
A posteriori, tutto sembra più facile perché sembra ottenuto senza sforzo, dato che qualunque missione portata a termine assume un’aura di inevitabilità. Quando il poeta del ventunesimo secolo osserva la sua vita letteraria, è probabile che veda una terra desolata di energia mal diretta. Come sta impiegando il suo tempo? Litiga con editori recalcitranti, viene rifiutato dalle riviste, cerca di rivendicare il proprio diritto d’autore calpestato dagli abusi online, si imbarca in una guerra di flame contro un anonimo blogger appassionato di poesia che ha stroncato la sua ultima raccolta e ha un indirizzo IP belga, crea un account Facebook fingendo di essere il proprio fan club, fa lo stesso su Twitter, odia i colleghi suoi pari, invidia i poeti superiori a lui, teme quelli inferiori, si indigna quando un editor gli sollecita l’invio del prossimo manoscritto (gli serve tempo: è un artista!), si mortifica quando un editor non lo fa (se è vivo o morto non importa a nessuno; è un uomo dimenticato; è assurdo!). In confronto, quanto appaiono sereni i versificatori del passato, dedicati com’erano alla propria arte, e solo a quella. Quanto sembrano puri, e centrali per la propria cultura, e convinti del proprio talento. Sembra che non si siano mai posti la domanda «Perché scrivere?» Scrivere gli veniva naturale come respirare, forse perché vivevano in un’epoca in cui metafore come questa non erano tanto abusate da risultare totalmente stantie. Beati loro! Ma è tutta un’illusione, ovviamente. Ce ne offre una bella e utile confutazione l’«Epistola a Arbuthnot», una poesia di Alexander Pope in confronto alla quale una guerra di flame su internet è l’equivalente di un bisticcio fra due marmocchietti al parco giochi. Ha la forma di una lettera in versi indirizzata a John Arbuthnot, amico e medico personale di Pope, e l’autore la descrive come «una Sorta di Elenco di Rimostranze», una velenosa risposta in rima a tutti quelli che avevano «attaccato in maniera assolutamente formidabile non solo i miei Scritti [...] ma la mia Persona, la mia Morale e la mia Famiglia». Scritta da un uomo che all’epoca – non ce lo dimentichiamo – godeva di una fama letteraria senza precedenti, è un monumentale esempio di mala grazia, una specie di epico piagnisteo, in cui il poeta del ventunesimo secolo può felicemente veder rispecchiati tutti i propri vizi. Qui si lamenta del fatto che, in quanto autore di successo, a volte gli viene chiesto di leggere le opere di giovani aspiranti scrittori:
Accalappiato e costretto a giudicare, o me tapino!
Che non posso tacere, e non voglio mentire;
Ridere sarebbe mancar di buon cuore e di eleganza,
E restar serio è chieder troppo alla mia faccia.
Seduto con triste decoro, leggo
Con sincera angoscia e la testa che duole;
E lascio cadere infine, ma in orecchie restie,
Il salvifico consiglio: «Fallo riposare nove anni».
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