INTERVISTA CON JEAN RENOIR
di Jacques Rivette e François Truffaut
Un’arte provvisoria
Prima di tutto, vorremmo farle qualche domanda sui suoi vecchi film. Sappiamo che ha avuto modo di rivederne la maggior parte per farli conoscere ai suoi attori, durante la messa in scena di Orvet. Che impressione le hanno fatto?
Be’, fa sempre piacere rivedere vecchi film, perché ormai i conflitti che hanno suscitato si sono spenti. Sono stati classificati, non c’è più niente da vincere o da perdere e, per quanto uno cerchi di cucirsi addosso una corazza, non c’è dubbio che siamo tutti estremamente sensibili all’opinione pubblica – o perlomeno io lo sono – nel senso dell’opinione che il pubblico, e la critica, hanno di noi. Noi registi siamo molto vulnerabili, e per questo fa bene rivedere film che hai un po’dimenticato. Ci sembrano nuovi, o almeno li percepiamo come tali, come se avessimo appena finito di girarli, e senza quell’angoscia terribile che viene dalla consapevolezza che il film che hai appena finito di girare sta per essere giudicato.
Le resta l’angoscia di scoprire trasformazioni impreviste. Per esempio, il primo piano di Simone Simon morta, nell’Angelo del male, si è perduto.
Ed è una cosa terribile. Siamo costretti a constatare, una volta di più – io personalmente l’ho dovuto constatare ogni volta che ho rivisto un vecchio film – quanto siano fragili le nostre opere. Quando ho iniziato a fare cinema, pensavo che una delle caratteristiche che rendevano il cinema superiore al teatro fosse il fatto di essere come un oggetto, dotato di qualità plastiche, capace di durare, come dura nel tempo un quadro, una statua, buona o cattiva che sia: non mi riferisco al valore artistico ma semplicemente alla durata nel tempo. E invece non è vero, il cinema non dura. Il cinema, adesso lo so, è un’arte provvisoria proprio come il teatro, perché, nonostante gli sforzi incredibili e appassionati di molte cineteche, le copie vanno perdute o si deteriorano.
Ad esempio, poco tempo fa sono riuscito a ricostruire La grande illusione così come l’avevo girato, grazie a qualche controtipo recuperato qui e là. Adesso abbiamo una copia di buona qualità, è il film completo, tale e quale; ma si è trattato di un lavoro faticosissimo e, comunque sia, il negativo originale, completo, è andato perduto. Non ha molta importanza, perché oggi si fanno controtipi di ottima qualità, ma essere riusciti a rimettere insieme tutto il film è stato un vero miracolo, e sarebbe bastato poco a compromettere il risultato. In America, ad esempio, mi sono reso conto che il Museo di Arte Moderna possiede una copia piena di tagli, arrangiata alla bell’e meglio per le necessità commerciali, e basta. Quando si sarà rovinata, non resterà più nulla, nemmeno un controtipo.
La carta e il marmo
In realtà un film è qualcosa di provvisorio. Rivedere i miei vecchi film mi ha fatto cambiare completamente la vecchia concezione dell’eternità della nostra arte, del nostro mestiere, e l’idea che sia possibile assimilarlo alle arti plastiche. Un film è un po’ meno provvisorio di un articolo di giornale, ma di certo non è solido e durevole come un libro.
Anche un quadro sbiadisce: i colori si modificano con il tempo e il pittore deve tenerne conto.
È vero, ma per l’appunto i pittori ne tengono conto; i registi non ci pensano. Si crede che il film, una volta uscito, una volta decisa la versione definitiva del montaggio, resterà sempre com’è.
E dal punto di vista meccanico è anche vero. Con il Technicolor, il film non cambia. Si possono continuare a stampare copie in Technicolor per secoli e secoli, e teoricamente parlando saranno sempre le stesse. Il fatto è che sono i laboratori a scomparire, e poi ci sono avvenimenti molto fastidiosi come le guerre, che fanno sparire un sacco di cose, distruggono molte vite umane e – ma questo è decisamente meno importante – anche molti film.
A dire la verità, sono arrivato persino a chiedermi – e da parecchi mesi – se tutte le opere umane non siano in fondo provvisorie: anche i quadri, le statue, le opere architettoniche, persino il Partenone. Quale che sia la solidità del Partenone, non ne resta granché e non abbiamo idea di che aspetto avesse quando era appena stato costruito. E comunque anche tutto quello che ne resta adesso è destinato a scomparire. Forse, a furia di fare iniezioni di cemento alle colonne, riusciremo a farlo durare altri cento, duecento, forse cinquecento, forse addirittura mille anni. Ma arriverà il giorno in cui il Partenone cesserà di esistere. Mi chiedo se non sia in fondo un approccio più onesto verso quelle che continuiamo a chiamare opere d’arte tenere a mente che l’opera d’arte in sé è provvisoria e destinata a scomparire, e dato che, in fondo, tutto è relativo, non c’è poi una gran differenza tra una costruzione in marmo massiccio e un articolo di giornale stampato su carta che non durerà che un giorno. E sono arrivato a chiedermi se la sola scusante dell’opera d’arte non sia il bene che può fare agli uomini: intendendo per «bene» non l’esposizione di una teoria – conoscete il mio timore del «messaggio» – ma un certo grado di partecipazione a quello che dovrebbe essere il lavoro di ogni uomo, e che è il vero significato della cultura: il miglioramento dell’essere umano, in senso fisico, morale, e soprattutto metafisico.
Anche quando il Partenone sarà ormai interamente distrutto, ne resterà il ricordo. L’idea di Partenone rimarrà, come anche l’idea di Fidia, di cui pure non si è conservata nessuna scultura.
Ma certo. È per questo che mi domando se il ricordo, l’idea di un’opera non sia in fondo più importante dell’opera in sé, e se, a sua volta, l’importanza di questa idea non si fondi sul bene che questa idea ha saputo fare agli uomini: un bene di cui è impossibile dare una definizione, e che mi rifiuto di classificare. Mi rifiuto di fare affermazioni del tipo: «Questo è bene, questo è male». Ma il bene e il male esistono, non c’è dubbio. Esiste, è certo, una sorta di elevazione metafisica: da che mondo è mondo, l’uomo ha tentato di sfuggire alla materia e di entrare in una dimensione più spirituale, e questo suo tentativo è evidente: e secondo me, ogni opera d’arte che riesce a farci fare anche solo un piccolo passo, anche pochi millimetri in direzione di questa spiritualità, è un’opera d’arte che ha dell’interesse.
Perché, anche nel caso in cui l’opera d’arte venga distrutta, il passo è stato fatto.
Sì. E poi si fanno anche passi indietro, e bisogna ricominciare: la storia del mondo è così.
Un litro di vino
Leggendo la sua intervista su Le Monde, siamo stati colpiti dal pessimismo quanto meno apparente delle sue convinzioni sull’avvenire della cultura occidentale. Abbiamo ripensato a quello che scriveva cinque o sei anni fa, quando ha girato Il fiume: sembrava convinto che stessimo per entrare in un’epoca migliore, un’epoca di bontà.
Continuo a credere nella bontà e a crederci completamente, ma mi chiedo se la bontà sarà sufficiente a contenere i disastri prodotti nello spirito umano dal progresso materiale, che, dai tempi del Fiume, ha fatto passi da gigante.
A mio avviso, ad esempio, certi paesi, come l’India, vivranno tempi durissimi nel tentativo di assimilare un progresso che non rifiutano affatto – al contrario, sembra che l’invochino a gran voce – e che rischia di radere al suolo la loro cultura, che si basa su principi, sentimenti e sensazioni del tutto opposti a quei principi e a quelle sensazioni che vanno d’accordo con il progresso meccanico, fisico o chimico.
Si ritorna, ancora una volta, all’eterno conflitto tra lo spirito e la materia, e sembra che qualche spirito malvagio voglia distruggere nell’uomo tutti i tentativi fatti per liberarsi dalla materia, dato che, in principio, il progresso dovrebbe liberarci stornando da noi una gran quantità di incombenze materiali. Il progresso ci solleva dalla fatica di accendere il fuoco come prima cosa al mattino, o di farlo accendere a qualcun altro; al giorno d’oggi basta premere un pulsante e il riscaldamento elettrico compie egregiamente il suo dovere. Pare che ci sia una specie di legge che fa sì che ogni passo che sembra allontanarci dalla materia ci riporti poi di nuovo a lei, in modo tortuoso, e più vicino di quanto non ce ne fossimo allontanati. A mio avviso, il problema principale, il più importante problema del nostro mondo, è il problema della diffusione: è il modo in cui concepiamo la diffusione a farci rischiare di sprofondare in una vera catastrofe, tanto che ci si arriva a chiedere se l’idea della massa che è stata la nostra religione – l’idea, diciamolo pure, del suffragio universale, in arte come in politica – se questa idea della massa non debba, insomma, essere in qualche modo rivista, o quanto meno impiegata in un altro modo, perché nel modo in cui ce ne stiamo servendo adesso, non significa altro se non una risuddivisione di certe risorse. Prendiamo ad esempio un litro di vino: se è destinato a essere bevuto da tre o quattro persone, è un qualcosa di forte, di generoso: ma se quello stesso litro di vino vogliamo dividerlo tra mille, dovremo allungarlo con l’acqua, e non saprà più di niente. E dovremmo chiederci se anche per l’idea della diffusione le cose non vadano più o meno allo stesso modo.
E poi, allo stesso tempo, il mondo si va concentrando intorno a conventicole di specialisti. È ormai chiaro che al giorno d’oggi la fisica atomica – che è la grande questione – si trova nelle mani di pochissime persone e, anche se queste poche persone dovessero andare in giro a raccontare tutto ciò che sanno, la gente non le starebbe a sentire e nemmeno capirebbe quello che dicono. Può darsi quindi che si faccia ritorno all’esoterismo egiziano, che, d’altra parte, non ha dato poi una così cattiva prova di sé, dato che l’Egitto è andato avanti per cinquemila anni e ha costellato le rive del Nilo di non pochi capolavori.
O anche al Medioevo...
...che pure aveva una cultura di tipo esoterico. Comunque sia, quando mi permetto di far udire un’eco pessimista, penso soprattutto alla tradizione culturale a cui appartengo, che è quella del Rinascimento. Sono passati secoli, abbiamo distrutto la tradizione culturale medioevale, e forse abbiamo fatto male: il Medioevo era una gran cosa. O forse, chissà, non abbiamo avuto torto, dato che non si può mai distruggere nulla, e le cose si distruggono da sole, gli elementi distruttivi si trovano all’interno degli individui e dei gruppi, che sono composti da individui.
Ci raccontano che la Rivoluzione Francese e il popolo, nel 1789, hanno abbattuto la monarchia, ma non è così: la monarchia si è abbattuta da sola, perché aveva in sé i germi della propria distruzione. Con il Medioevo dev’essere successa la stessa cosa. Il Medioevo è stato rimpiazzato dallo stato di cose in cui viviamo adesso, e in cui sono cresciuto io, che consiste nel suddividere il mondo in nazioni non troppo grandi e di lingua diversa, e nel dare a ciascuna di esse la possibilità di avere una propria forma di espressione artistica, letteraria, musicale e umana, piuttosto appassionante.
In altri termini, questa tradizione culturale, che ha originato Mozart e anche mio padre, mi sembra in pericolo, e il mio pessimismo nasce da queste constatazioni.
Mentre l’altro polo, quello della bontà, sarebbe al di là...
Il polo della bontà si trova al di là di questa constatazione, perché, comunque sia, resto convinto del fatto che l’umanità ce la farà. A che cosa stiamo assistendo, in questo momento? A un nuovo tentativo di costruzione della Torre di Babele. E costruirla, la Torre di Babele, non dev’essere stato affatto male: parlavano tutti la stessa lingua, ci si capiva a perfezione. E forse assisteremo proprio a questo: ma prima di arrivare alla posa della prima pietra di questa nuova Torre di Babele, temo che ci saremo già messi nei guai. Del resto, non sono il solo a pensarla così, è quello che pensiamo tutti.
La natura cambia
Ritorniamo al passato. Prima della guerra, aveva scritto un articolo rimasto famoso in cui affermava di considerare Nana il suo primo film. La pensa ancora così?
Sì, continuo a pensarla così. Nana è stato il primo film che mi ha fatto scoprire che non si può copiare la natura ma che bisogna ricostruirla, che ogni film, ogni opera che abbia delle pretese artistiche dev’essere un atto di creazione, buona o cattiva che sia. E poi ho scoperto che era meglio inventare, creare, anche qualcosa di cattivo, piuttosto che contentarsi di copiare la natura, per quanto brillantemente uno sia capace di farlo.
C’è un abisso tra La Fille de l’eau e Nana, ma non si può certo dire che La ...