SECONDA PARTE
DI LUCE E DI TENEBRE
Lasciato il porto c’è solo l’ampio mare.
Fernando Pessoa, «Al di là»
Lisbona, giugno 2016
Perché lo stavo facendo? Perché stavo scrivendo questa storia? Perché Raul Gardini mi affascinava e mi ossessionava a tal punto da non riuscire a togliermelo dalla mente nemmeno lì, a migliaia di chilometri da casa, nella città di Pessoa?
Scalino dopo scalino. Risalendo le strette e ripide strade del quartiere del Chiado, mi imbattei nella Igreja do Carmo, una maestosa cattedrale gotica, o meglio, nel suo scheletro. La chiesa, ubicata nel convento medievale delle carmelitane, fu distrutta dal terremoto del 1755, crollando sui fedeli raccolti in preghiera. Il sisma portò via con sé l’intero soffitto ma lasciò in piedi buona parte dell’ossatura dell’edificio, le arcate e le volte dietro cui si intravedeva il cielo. Forse per non dimenticare il terremoto e le sue vittime, o forse solo per mancanza di fondi da destinare alla ristrutturazione, si decise di lasciarla così: lo scheletro di una cattedrale che si erge su un promontorio del Chiado. Nell’Ottocento un gruppo di archeologi prese in carico la gestione del sito e lo trasformò in un piccolo luogo di culto in cui si collezionavano gli oggetti più bizzarri, da tombe di antichi re portoghesi a macabre mummie peruviane.
La Igreja aveva il fascino dei luoghi che sono stati un tempo maestosi e che infine sono diventati ruderi. Lo stesso fascino inconsapevole e magnetico che provavo di fronte alla vicenda di Gardini. La sua vita era come quella della Igreja do Carmo: una storia di ascesa, grandezza, terremoto e crollo che continuava a togliermi il sonno.
Chi può indossare i panni di un altro uomo fino a pretendere di raccontare la sua storia? Nemmeno la persona stessa può raccontare a un’altra la sua vita senza travisarla, senza mentire, senza aggiungere dettagli e ometterne altri.
Il cacciatore
Ravenna, giugno 1941
Sapere aspettare è la prima regola del cacciatore. Stare in assoluto silenzio, acquattati dietro i cespugli, con il fucile carico. Appena si avvista la preda, osservare la traiettoria del volo, studiare i movimenti, le incertezze, e solo a quel punto prendere la mira e sparare. Raul Gardini fin da ragazzino andava a caccia col padre, Ivan Gardini, un uomo severo, un contadino alla vecchia maniera che lo obbligava a vestire con i pantaloni corti anche se lui voleva indossare quelli lunghi come i grandi. Una volta Raul e l’amico Alessandro Casadio – avranno avuto dieci e undici anni – decisero di andare a caccia da soli. Pensarono così di costruirsi una fionda per tirare ai passeri. La fionda però non funzionava bene. Nonostante l’impegno, c’era qualcosa che non andava. «Per forza: serve una pezza di cuoio per tenere saldo il sasso e poterlo lanciare dritto», osservò Alessandro. Allora a Raul venne un’idea. Suo padre aveva scarpe di un cuoio flessibile e resistente, che sarebbe stato perfetto allo scopo. Sapeva che se Ivan li avesse sorpresi sarebbero finiti male, ma doveva riuscire a colpire quei passeri. Doveva riuscirci da solo. A tutti i costi. Prese dal magazzino una piccola falce, tagliò dalle scarpe la linguetta e la adattò alla fionda. Si appostarono dietro ai cespugli. Un passero era posato sul ramo di un pino. Raul afferrò un sasso tra l’indice e il pollice. Prese la mira, tirò verso di sé l’elastico. Il passero era ancora sul ramo, ignaro di tutto. Raul scagliò il sasso con una precisione millimetrica. Il passero si alzò in volo. Chiuse e riaprì le ali per due volte, poi precipitò a terrà tra le grida di gioia di Raul e Alessandro. L’erba secca sotto il corpo del piccolo uccellino era impiastrata di sangue. Muoveva ancora gli occhi ed emetteva soffocati cinguettii, come se cercasse di capire cosa gli era capitato. Raul prese un sasso più grosso del primo e tirò nuovamente l’elastico della fionda. La pietra spaccò il cranio del passerotto facendogli schizzare una sostanza grigiastra che macchiò le scarpe dei due ragazzi, soddisfatti del loro successo. Vedere lì a terra quel piccolo essere che fino a poco prima volava nel cielo decine di metri sopra di lui diede a Raul un brivido di esaltazione. Si sentiva enormemente potente. Lui, da solo, senza l’aiuto di suo padre, aveva messo fine a una vita e procurato la cena per tutta la famiglia. Alessandro era diventato pallido e fece due passi indietro, mentre Raul prendeva tra le mani quel corpo inerme. Stringendolo tra le dita, come se potesse nuovamente volare via, corse a casa urlando di gioia. «Mamma! Guarda cosa ho catturato! Accendi il fuoco!» La madre di Raul, inorridita, gli intimò di non varcare la soglia di casa con quell’uccello che grondava sangue da tutte le parti. «Cosa credi che ci sia da mangiare in quel mucchietto di ossa!?», gli urlò. Raul vide con la coda dell’occhio Alessandro che scappava. Prima che ne capisse il motivo, gli arrivò uno schiaffo in piena faccia. Era Ivan. «Cosa hai combinato alle mie scarpe? Piccolo delinquente! Adesso vedi cosa ti aspetta», tuonò, e poi lo conciò per le feste. Quella sera Raul, ancora dolorante per le percosse, andò a letto felice. Sapeva che i suoi genitori si erano arrabbiati tanto non perché avesse rotto delle scarpe o ucciso un passero, ma perché aveva dimostrato che non aveva più bisogno di loro.
Lo Stato
«Stanno arrivando. Tieni il bambino lontano, gli vado incontro. Non avvicinatevi per nessun motivo». Raul non aveva mai sentito suo padre usare un tono di voce così duro parlando a sua madre.
«Mamma, cosa succede?» chiese. Suo padre era sceso nei campi, parlava a voce alta, agitato. Era con tre uomini. Uomini armati, in divisa. L’atmosfera era tesa, urlavano e gesticolavano. Raul era troppo lontano per poter sentire cosa dicessero, ma abbastanza vicino per capire che stava succedendo qualcosa di grave.
«Sono venuti a portarci via la terra», gli disse sua madre.
«Come? Ma la terra è la nostra! Sono dei ladri?»
«No, Raul, sono carabinieri. È una cosa complicata, c’è una nuova legge. Non possiamo più tenere la terra».
«Una legge per rubare?!»
«Raul, dove vai!? Fermati!»
Prima che la donna riuscisse ad afferrarlo, il bambino era già in strada che correva dal padre gridando: «Andatevene via! Questa è la nostra terra!» Uno dei carabinieri prese Raul per un braccio: «Non è una discussione per bambini, questa. Torna in casa, altrimenti...»
«Altrimenti cosa?!», tuonò Ivan. «Finché questa è la mia terra, voi non avete alcun diritto di...»
«Questa non è già più la vostra terra. Lo ha stabilito il Parlamento della Repubblica. Vuole forse mettersi contro il Parlamento della Repubblica? È per caso un anarchico?»
«Stia lontano da mio figlio!»
«E lei rientri in casa, mentre noi facciamo il nostro lavoro», disse il carabiniere appoggiando la mano destra sulla pistola. «Sono stato chiaro?»
«Andiamo via», disse Ivan a Raul.
«Ma babbo! Loro...»
«Non discutere. Vieni via».
Arrivati in casa, suo padre scoppiò a piangere. Era un uomo di campagna, che non lasciava mai trapelare un’emozione, ma quella volta non riuscì a contenersi. Erano lacrime di rancore, da parte di un uomo che si sentiva inerme, sconfitto. Raul rimase molto impressionato da quella scena.
Quella mattina lo Stato italiano portò via gran parte dei terreni della famiglia Gardini. I gendarmi stavano applicando la nuova riforma agraria approvata il 21 ottobre 1950, che prevedeva lo smantellamento forzato dei grandi latifondi e la ridistribuzione dei terreni.
Scavarono un fosso. Lungo e tortuoso. Di qua si poteva stare, di là no.
Passarono gli anni, ma il terreno sequestrato ai Gardini non venne mai assegnato. Rimase in stato di completo abbandono. Raul ogni giorno guardava crescere le erbacce infestanti sui campi al di là del fosso. Intanto dentro di lui cresceva un’altra erbaccia infestante, l’odio. Odio contro lo Stato. E odio contro i politici, ladri e ipocriti, che avevano voluto quello scempio.
Suo padre e suo nonno avevano bonificato quella terra, che prima era solo palude, e l’avevano trasformata in un terreno coltivabile con il sudore della loro fronte. Non poteva sopportare l’idea che il governo gliel’avesse portata via. Il suo fu subito un odio viscerale, contro il sistema e le sue leggi.
«Papà, ti prometto che un giorno gliela farò pagare. Che gli farò vedere che posso essere qualcuno anche senza di loro, anche senza nessuno! Ci hanno portato via un pezzo di terra, e io ne otterrò dieci, cento, mille volte di più. Avrò tutta la terra del mondo».
«Non dire cretinate. Cosa te ne faresti, di tutta quella roba? Torna a casa e aiuta tua madre ad apparecchiare. Ha ucciso il cappone per fare il brodo».
Primo amore
«Era bellissimo, mi affascinò da subito. Faceva delle cose che all’epoca, parlo degli anni Cinquanta, erano eccezionali». A parlare è la voce di Idina, filmata in casa sua, in un salone ampio con molti divani e ceramiche, una giacca a collo alto blu su cui splende una grande spilla d’oro con dei diamanti. Ha i capelli cotonati, come andavano di moda negli anni Ottanta. La ripresa è un po’ sfumata e dà una patina di ulteriore nostalgia alle sue parole.
«Si tuffava dal molo del porto. Dei tuffi stupendi, ad angelo. Io non sapevo nemmeno nuotare. Mi faceva soggezione parlare con lui, era troppo bello. Poi mi dedicò un tuffo da un palo del molo alto: venti metri, magnifico. E così ci innamorammo».
Si conoscono da quando erano giovanissimi, Raul e Idina, fin da bambini. Abitano vicini in via Ravegnana e trascorrono l’estate nelle rispettive case a Marina di Ravenna. Molti i giovanotti che ronzano attorno a lei, che è una bella ragazza. Ma Serafino è un padre severo, all’antica, non ama vederla circondata da perdigiorno e la vorrebbe accasata con un tipo sveglio. Sono gli anni del dopoguerra e molte famiglie soffrono ancora la miseria, in Romagna. La ricchezza in queste terre arriverà solo un decennio più tardi, grazie anche alle nuove industrie chimiche che creerà il gruppo Ferruzzi. La maggior parte delle persone sono ancora braccianti o poco più, con l’eccezione di chi ha i terreni, come i Ferruzzi o i Gardini. Serafino ha il timore che qualcuno di questi braccianti, magari un bel ragazzo dal fisico scolpito dal lavoro nei campi, possa essere interessato a sistemarsi in una famiglia ricca o, come si dice in Romagna, a «mettere il culo nel burro»: trovare una soluzione comoda che gli risparmi in futuro di doversi guadagnare da vivere. Allora è lo stesso Serafino a fare la prima mossa. Ha visto il giovane Raul un paio di volte, che sbirciava Idina oltre il cancello, mettendosi in punta di piedi sui pedali della bicicletta, e una sera decide di invitarlo a cena da loro. Raul ha appena sedici anni, Idina quattordici. È un amore romantico e spregiudicato, come lo sono gli amori che nascono d’estate, in spiaggia, tra adolescenti. Idina scrive a Raul teneri bigliettini che il fratellino Arturo gli porta di nascosto, lasciandoli sotto una pietra, vicino al faro. Raul invita Idina a ballare, sempre con la nonna al seguito, che controlla. È il 1957 quando si sposano. Raul piace a Serafino Ferruzzi perché è un tipo brillante, tenace, spavaldo e determinato. Gli ricorda molto come era lui alla sua età. Sono gli anni più felici per Idina, spensierati ed entusiasmanti. Non sa ancora che, dopo quei pochi attimi di gioia, la sua vita sarà segnata dal dolore.
Raccontando questa storia rifletto spesso su cosa sia la memoria. I nostri ricordi mutano nel tempo, e ogni volta che ripensiamo a un episodio, che lo riviviamo nella nostra testa, inevitabilmente lo modifichiamo. Lo vediamo alla luce di ciò che siamo in quel momento. Ma è inevitabile, perché se non lo rivivessimo nel ricordo non si altererebbe, ma lo dimenticheremmo. Ricordare è un po’ tradire. È come ingannare il nostro io del passato.
Mia nonna l’altro giorno mi ha detto che lei al matrimonio di Idina e Raul c’era. Pensai che se lo fosse inventato, che si ricordasse male. A volte la memoria ci inganna, soprattutto quando non si è più dei ragazzi: sentiamo parlare molto di qualcosa e a un certo punto ci convinciamo di esserci stati. Esistono moltissimi casi simili, ed è il motivo per cui le testimonianze in tribunale di crimini di cui si è parlato molto in televisione spesso non sono considerate attendibili. Perché la nostra mente ci fa degli scherzi. Non diedi molto peso a mia nonna, quando me lo disse. Poi un giorno saltò fuori da un cassetto una foto. C’erano Raul, Idina vestita di bianco e un gruppo di persone sorridenti attorno a loro, tra cui mia nonna da giovane. «Ecco, adesso mi credi?» Era lì, anche se non ho capito perché. «In quegli anni camminavano ancora per terra. Solo dopo cominciammo a vederli passare sospesi nell’aria, tre metri sopra le nostre teste».
Oltre l’orizzonte
Una sera, mentre mangiavano la polenta preparata da Elisa, la madre di Idina, Serafino fece una domanda che a Raul parve innocente. «Cosa vuoi fare della tua vita?» Raul rispose senza pensare: «Non voglio fare il lavoro di mio padre. È troppo ripetitivo, io voglio fare qualco...