Il nostro tempo
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Garth aveva un aspetto orribile. Davvero orribile. Era sempre stato una specie di Ichabod Crane, ma adesso era uno scheletro. A vederlo lì, sdraiato a letto con le ossa che sporgevano dalla pelle, ti veniva da piangere. Garth riusciva a malapena a parlare, la pelle liscia, bruno-chiara, gialla come piscio. Con le sue gambe da Ichabod e mani e piedi lunghissimi, Garth riusciva a farti ridere solo camminando per strada. Lo vedevi arrivare da lontano. Tutto gambe, per cui capivi che doveva essere Garth per come si divideva a metà all’inguine in un punto più alto di chiunque altro, tre quarti di gambe. Wilt il Trampoliere con un corpo smilzo da uccello appollaiato sopra la sua vita alta. Scarpe numero 48. Le mani potevano chiudersi intorno a una palla da basket come fosse una palla da biliardo. Le dita abbastanza lunghe da avvolgersi intorno a una palla da basket, ma Garth non era capace di piazzare neanche un tiro. Non riusciva mai a coordinare i suoi arti dinoccolati sul campo. A volte, vedendolo scarpinare giù per Homewood Avenue, ti veniva da pensare: Quel negro non sta mica camminando, quello sta cercando di ricordarsi come si fa a camminare. Goffo come un piccione sui pattini a rotelle. Giunture nodose sbilanciate, braccia e gambe che si agitavano andando ciascuna per la sua strada, mentre il corpo si dimenava per impedire che finissero troppo lontano. Camminare per strada in quel modo non poteva funzionare, non aveva senso se ti fermavi a guardare, se fingevi di non aver visto Garth raggiungere la sua meta almeno un milione di volte. Adesso però non c’era niente da ridere. Bianche lenzuola d’ospedale tirate sul torace. La testa di Garth sembrava sempre una palla da tennis lassù in alto sulle sue spalle. Adesso era un teschio giallo e rinsecchito.
Da quando Robby era entrato nel reparto, aveva desiderato allungare una mano e nascondere il braccio dell’amico sotto le coperte. Da due settimane Gar languiva a letto. Era già abbastanza brutto sapere che Gar stava morendo. Non c’era bisogno di quello stecco di braccio per ricordagli quanto ormai fosse prossimo al nulla il suo migliore amico. Così in fretta. Poteva succedere così in fretta. Se Robby avesse cercato di sollevarlo, quel braccio, gli sarebbe rimasto in mano. Tutta la delicatezza del mondo non sarebbe bastata. Il braccio si sarebbe disintegrato, come un lungo pezzo di cenere in cima a una sigaretta.
Ora di andarsene. Non ha senso stare ancora lì seduti, Garth non parla, e non c’è modo di sapere se sta ascoltando. E Robby non ha nient’altro da dire. Si sente soffocare, come sempre quando entra in un ospedale. L’odore dell’ospedale, il silenzio, i corridoi spogli, i pavimenti nudi, le eco, qualcosa in tutto questo che non può nominare, non vuole nominare, gli cresce dentro e lo raggela. È come se battesse i denti per tutto il tempo in cui è dentro un ospedale. Come se tutto il suo corpo tremasse in modo incontrollabile, solo che nessuno può vederlo, o sentirlo, tranne lui. Trema perché non riesce a respirare l’aria viziata. Caldo e freddo allo stesso tempo. È da quando è entrato nel reparto che prova un bisogno disperato di andarsene. Un bisogno disperato di schizzare fuori dalle grandi porte a vetri dell’ingresso. Un bisogno disperato di avventarsi su quel braccio rattrappito gettato dietro la testa di Garth. Un braccio troppo devastato per appartenere al suo amico. Vorrebbe afferrarlo e scaraventarlo lontano.
Robby si infila gli stretti guanti bianchi che il becchino ha distribuito a lui e agli altri che portano la bara. La sua pelle bruna traspare attraverso il tessuto sottile, scurisce il bianco. Sta ricordando quell’ultima volta nel reparto di Garth. La puzza di ospedale. L’aria bollente e gelata. Un braccio nudo che sporge dalla manica della camicia ospedaliera, uno stuzzicadenti rinsecchito più che un braccio, un rametto appassito, con le dita di Garth simili a un casco di banane marroni avvizzite che pendono dal gambo nodoso.
Robby aveva studiato le viscere metalliche del letto d’ospedale, i segni neri del trascinamento intorno alle gambe della sedia. Quando finalmente si era alzato per andarsene, la sua seggiola stridendo contro il pavimento di vinile aveva rotto un lungo silenzio. Il rumore doveva aver risvegliato l’attenzione di Garth. Aveva parlato di nuovo.
Tu sei buono, sai. Non dimenticarlo mai, Rob. Sei il migliore.
Le prime parole di Garth dopo il breve scambio di battute quando Robby era entrato in corsia e aveva trascinato una sedia di fianco al letto. Un sussurro quasi impercettibile adesso che Robby era in piedi. Garth aveva cercato di sorridere: un doloroso adattamento delle ossa del viso, poco più di un’ombra fugace sul volto giallastro, ma Robby aveva scorto il suo proverbiale sorriso. Esitò, smise di correre verso la porta quel tanto che bastava per ricambiare il sorriso. Perché quello era Gar. Era così che era fatto Gar. Aveva sempre un sorriso e una buona parola per gli amici del cuore. Il sorriso di Garth era sicuro come i soldi in banca. Ci potevi contare, come potevi contare su una buona parola da parte sua. Qualcosa nel suo viso ti diceva che eri a posto, più che a posto, che credeva in te, che tu eri, come aveva appena bisbigliato, «il migliore». Ci potevi giurare che Garth avrebbe detto qualcosa per farti star bene, anche se sapevi che mentiva. Ma quel sorriso che indorava la bugia ti costringeva a crederci, anche se sapevi che non era il caso. Garth era il sognatore della gang. Quando parlava, potevi vedere i suoi sogni. Per questo Robby ci aveva creduto, aveva visto il sorriso, l’ombra chiara che illuminava per un istante la faccia di Garth. Dal nulla, da dolore e paura, dalla certezza della morte che li stringeva entrambi nella sua morsa, la voce di Garth aveva fabbricato il sorriso.
Adesso dovevano seppellire Garth. Qualche giorno dopo la visita all’ospedale squillò il telefono ed era la madre di Garth con la notizia della morte del figlio. Non che fosse una notizia inaspettata. Robby sapeva che era solo questione di tempo. Che si trattava solo di aspettare il momento in cui qualcun altro avrebbe pronunciato le parole che si era detto almeno cento volte. È andato. Gar è morto. Molto prima che squillasse il telefono. Gar era morto quando lo avevano relegato in un letto d’ospedale. Quando avevano finalmente capito qual era il suo male e lo avevano ricoverato in ospedale, era troppo tardi. La malattia lo aveva ridotto a uno scheletro. Non era rimasto niente di Garth da curare. Nascosero la sua morte imbarazzante sotto bianche lenzuola, odorose di disinfettante, lo imbottirono di calmanti perché non disturbasse i vicini.
Gli altri avevano strizzato le dita nei loro guanti da portatori di bara. Guanti bianchi di cotone scadente, usa e getta, come quelli di lattice che s’infilano i dottori quando ti ficcano le dita su per il culo. Anche Michael, Cecile e Sowell portavano il feretro. Con Robby e due uomini della famiglia di Garth avrebbero portato la bara dalla camera ardente dei Gaines al carro funebre. Garth era stato il sognatore della gang. Robby contò quattro dita nere nel guanto bianco. Garth era il pollice. La mano sarebbe stata menomata, non avrebbe funzionato bene senza di lui. Garth era diverso. Ma anche tutti gli altri erano diversi. Mike, l’uomo di ghiaccio, supercool. Cecil indifferente, pronto a fare quasi qualunque cosa o niente e non gliene poteva fregare di meno in entrambi i casi. Sowell non era davvero uno della gang; non passava tutto il tempo con loro, non gli piaceva correre i rischi che facevano parte della «vita». Sowell aveva un buon lavoro e se lo teneva stretto. La «vita» per lui era solo un modo per fare soldi facili. Non si drogava; si considerava un uomo d’affari, un investitore, non un socio nelle loro imprese. Conoscevano Sowell soprattutto tramite Garth. Forse adesso le cose sarebbero cambiate. I quattro sopravvissuti erano più vicini adesso che avevano condiviso il peso della bara di Garth, dopo che l’avevano sollevata e fatta scivolare sui rulli in acciaio del carro funebre, nel retro della Cadillac dei Gaines.
Robby era grato per i guanti. Non era mai riuscito a toccare qualcosa di morto. Si era preso una ripassata da suo padre piuttosto che toccare la trappola per topi insanguinata che sua madre aveva sospinto dietro la porta con la punta del piede e gli aveva ordinato di vuotare. La maniglia d’ottone della bara sembrava umida attraverso il guanto. La strinse più forte per fermare il flusso di sangue o il sudore, qualunque cosa stesse colando da lui o filtrando attraverso il metallo. Garth si era ridotto a niente verso la fine, quindi non poteva essere lui la causa dello strattone che per poco non slogò la spalla di Robby quando la cassa si spostò e il peso cadde in avanti. Sembrava una bara piena di mattoni. Robby lanciò un’occhiata a Mike, ma Mike era un soldato, sull’attenti, lo sguardo fisso sul portellone spalancato del carro funebre. Gli occhi di Mike non volevano ammetterlo, ma per poco non avevano fatto cadere la bara. Erano reclute, portatori principianti, e scendendo i gradini rivestiti da una guida davanti alle pompe funebri si erano quasi lasciati sfuggire di mano Garth. Avevano bisogno di qualcuno che sapesse il fatto suo. Un vecchio capo fidato che mostrasse loro la strada. Avevano bisogno di Garth. Ma Garth ormai era andato. Cenere dentro la cassa d’acciaio.
Cominciarono a bere più tardi nel pomeriggio a casa dei genitori di Garth. Donne e cibo in una stanza, uomini a scolare whisky in un’altra. Era il tipico appartamento da case popolari in cui era capitato a tutti di abitare o di metterci piede. Piccolo, squallido, privo di carattere. Non un posto in cui vivere. Qualunque cosa cercassi di fare di quell’appartamento, per quanto lo tenessi pulito o lo riempissi di mobili, le pareti e i soffitti non erano fatti per essere la casa di qualcuno. Era un posto di passaggio. Non tuo perché la gente che c’era stata prima di te aveva lasciato segni indelebili dappertutto e tu non potevi fare a meno di aggiungere altri graffi e ammaccature per i prossimi inquilini. Potevi affittare una cucina, una camera da letto, un bagno e un soggiorno, gli appartamenti del complesso popolare erano disposti in modo da offrirti uno spazio per ciascuna delle cose che la gente fa in una casa. Il problema era che tutto era stato fatto all’insegna del risparmio. Un conto è vivere ammassati in uno spazio ristretto, talvolta la gente riesce a star bene negli ambienti più angusti. Un altro è vivere in un posto progettato per essere un po’ meno che adeguato. Nessuna possibilità di rilassarti, nessuno spazio da personalizzare, cui dare l’impronta del tuo stile. Come un uomo seduto su una tazza troppo piccola e troppo vicina alla vasca da bagno per cui urta con le ginocchia il bordo smaltato. Può svuotarsi le budella anche così e al mondo c’è un sacco di gente che è messa molto peggio, tuttavia quell’uomo non sarà mai contento di essere seduto lì, non si sentirà mai pienamente a suo agio in quel posto in cui si deve accucciare.
Sia come sia, il whisky cominciò a scorrere a fiumi in quel piccolo appartamento da case popolari. Robby, per amore di Garth, ascoltò finché gli fu possibile le reminiscenze dei vecchi sui funerali cui avevano partecipato, su tutti gli amici e parenti che avevano scortato fino alle rive del Giordano, vecchi che sorseggiavano buon whisky tra gemiti e lamenti, finché sembrava un peccato essere lasciati su questa sponda del fiume dopo che tanti santi lo avevano attraversato. Ascoltò persone esprimere il proprio dolore, raccontare storie tristi e familiari. Man mano che l’alcol faceva il suo effetto, cominciò ad ascoltare meno attentamente le parole. Facce e gesti erano più che sufficienti. Quando prese commiato da Mike e Cecil e le loro signore, Sowell si accodò. A quel punto le brutte stanze dai soffitti bassi erano piene fino a scoppiare. Conversazioni chiassose, risate, intrattenitori che facevano a gara per conquistarsi un pubblico. Quasi quasi Robby si aspettava che la porta che si era chiuso alle spalle si spalancasse di nuovo, che il rumore imbottigliato lì dentro esplodesse nel corridoio puzzolente.
Nessuno pensava più ai cimiteri adesso. Non c’era nessun altro da seppellire quel giorno, quindi era ora di passare ad altro. Alcuni avevano quasi perso il controllo. Altri si erano infuriati, infuriati con uno degli ospiti nell’appartamento, infuriati con i dottori, gli ospedali, e i bianchi in generale che avevano tutto il mondo nelle loro mani e non sapevano cosa farsene. Un uomo basso, un nero con gli occhi a palla, in un impeccabile tre pezzi di lana spigata, aveva inveito contro l’indifferenza, l’ignoranza di quei ciarlatani di dottori bianchi che, sbagliando a diagnosticare la malattia di Garth, avevano firmato la sua condanna a morte. La sua arringa aveva attirato un folto numero di spettatori. Non stava solo parlando, rendeva testimonianza, e su metà della stanza era calato il silenzio mentre lui discettava sugli sporchi trucchi dei bianchi. Se qualcuno si fosse precipitato all’ospedale e avesse acchiappato un dottore in camice bianco e lo avesse gettato nel cerchio che circondava l’ometto con gli occhi da pesce, i dolenti avrebbero fatto a pezzi quel demonio di viso pallido. Robby gliene avrebbe procurato uno assai volentieri. Ricordava Garth, debole e impotente nel suo letto e i dottori e le infermiere che passando veloci nei corridoi scherzavano con gli altri pazienti, e ignoravano Garth, come se non ci fosse. Garth era morto perché aveva creduto alle loro chiacchiere. Morto perché non aveva un altro posto cui rivolgersi quando i suoi dolori di pancia e il mal di testa erano diventati insopportabili. Non che si fidasse dei dottori o credesse che gliene importava un beneamato cazzo di lui. Solo che non aveva alternativa e aveva dovuto mettersi nelle loro mani. Gli dissero che il suo problema era l’itterizia, e mentre il suo fegato marciva e il dolore gli annebbiava il cervello, Garth assicurava tutti quanti che si trattava solo di aspettare che le medicine facessero effetto. Per attutire il dolore aveva fumato erba fin quando aveva avuto la forza di tenere lo spinello tra le labbra. Ci vuole una vagonata di fumo per calmarmi di questi tempi. Fumò come una ciminiera finché non ce la fece più e ricadde sui cuscini e Robby dovette prendere il cannone al volo prima che Garth si desse fuoco.
Quando ci pensavi, la morte di Garth non aveva senso. E più ci pensavi, più capivi che nemmeno tutto il resto aveva senso. Il mondo è una puttana fatta e finita. Se non è vero questo, non è vero niente. Il bianco fa quel che vuole con te. Possiede tutto ciò che vale la pena di possedere e a te tocca solo che quello che lui non vuole più, quello che ha masticato e sputato nel rigagnolo, lasciando che i negri se lo contendano. Garth aveva indicato la strada e aveva detto: Se mai ce la faremo, è da qui che deve partire, dal marciapiede. Dobbiamo fondere quella pietra fino a spremere dei soldi. Poi aveva sorriso. Non ci manca molto. Ce la faremo, fratello. Abbiamo quel che ci vuole. È il nostro momento.
Qualcosa si era insinuato nella pancia di Garth. Il bianco disse che non era niente. Gli vendette delle aspirine e disse che sarebbe stato benissimo. Il bianco ha ucciso Garth. Non avrebbe potuto farlo più secco con una .357 Magnum, ma non è stato commesso nessun crimine. Macché. Sono cose che succedono. Insomma, tutti fanno degli errori. E un negro morto non è un errore così grave, se ci pensi. Anzi, si fa prima a dimenticarsi di tutta la faccenda. E poi quel negro non andava a finire bene comunque. Cioè, non era mica un chirurgo del cervello o un astronauta, o una star del cinema, o un grande atleta. Facile che fosse un drogato o un gangster. Capace che uccideva un innocente o faceva fuori un altro negro. Sciocchezze, dico io. Dovrebbero dargli una medaglia a quel dottore.
Ehi, amico. Robby incrociò lo sguardo di Mike. Poi Cecil e Sowell si girarono verso di lui. Sapevano che stava parlando a ciascuno di loro. Tardi ormai. Le dieci o le undici, perché fuori era buio da ore. Un gran silenzio adesso. Troppo silenzio nel suo appartamento. E troppo fumo e alcol dopo il funerale. Da una lampadina spoglia sul soffitto della cucina la luce filtrava in corridoio e aleggiava fioca sulla soglia della stanza dov’erano seduti. Robby si chiese se gli altri stavano male come lui. Se i completi da funerale pizzicavano la pelle. Se sentivano ancora l’odore della polvere della tomba sulle scarpe. Sperava di finire alla svelta la bottiglia di vino e chiudere la giornata. Aveva bisogno di dormire, di una pausa per liberare la mente dal peso terribile della morte di Garth. Era stato grato per il buio. Per la compagnia dei suoi migliori amici dopo il funerale. Per la cassetta di Sun Ra finché non finì, facendoli piombare tutti nel silenzio più profondo che avesse mai conosciuto. Garth era morto. Di lì a pochi giorni la gente avrebbe smesso di parlare di lui. Era sottoterra. Morto stecchito. Robby aveva tenuto un pezzo di terra friabile tra le dita guantate di bianco e lo aveva sbriciolato per gettare la polvere nella fossa. Adesso la terra si era chiusa su Garth e cosa significava? Un giorno ci sei e il giorno dopo non più, e questo è quanto. Domani avrebbero seppellito qualcun altro fuori dalle pompe funebri Gaines. La gente avrebbe indossato il vestito buono, avrebbe pianto, si sarebbe ubriacata raccontando bugie e il giorno dopo sarebbe toccato a qualcun altro morire. Quale delle ombre in quella stanza buia se ne sarebbe andata per prima? Che importanza aveva? A chi interessava? Chi avrebbe ricordato i loro nomi; erano già dei fantasmi. Già morti, come Garth. L’unica differenza era che Garth non doveva più preoccuparsene. Garth non doveva far finta di andare da qualche parte, perché ci era già arrivato. Era già arrivato nel posto cui tutti loro erano diretti, veloci quanto potevano portarli le gambe. Ogni passo era un passo più vicino alla terra fredda, alla fossa nera come la pece in cui avevano calato la salma di Garth.
Ehi, voialtri. Dobbiamo brindare a Garth per l’ultima volta.
Fecero tintinnare i bicchieri al buio. Robby cercò qualcosa da dire. Le parole giuste non volevano venire. Sapeva che c’era qualcosa di appropriato e preciso che doveva essere detto. Siccome le parole esatte gli sfuggivano, siccome solo le parole esatte sarebbero andate bene, buttò giù una sorsata di vino dolce e pesante in silenzio.
Sapeva che stava deludendo Garth. Se fosse morto un altro di loro, Michael o Cecil o Sowell o lui stesso, Garth non l’avrebbe lasciata passare così, non avrebbe permesso che tutto finisse come tante altre sere, con gli amici che si appisolavano uno dopo l’altro, inebetiti dal fumo e dall’alcol, ciascuno incominciando a vagliare mentalmente le varie possibilità, cercando di capire se era il caso di andare a dormire o se...