GLI ANNI SETTANTA
I LEONI NELLA BASSA
di Sebastian Schadhauser, Gianna Mingrone ed Elias Chaluja
Strategia del ragno si ispira a un racconto di Borges...
Trovo che sia un film molto misterioso, che rassomiglia a una terapia psicoanalitica. Il racconto di Borges si chiama «Tema del traditore e dell’eroe», è nell’antologia intitolata Finzioni, e in un certo senso mi ha ispirato. Ho preso queste tre paginette di Borges, mantenendo anche qui soprattutto il meccanismo. In Borges la storia si svolge in Irlanda, nell’Ottocento, e il discorso di Borges è tutto un discorso culturale. La storia è la seguente: un giovane in Irlanda fa un’indagine su un delitto commesso molti anni prima, delitto nel quale è stato assassinato, in circostanze molto strane, un eroe della rivoluzione irlandese, un certo Kilpatrick. L’assassinio commesso in teatro durante una rappresentazione di Shakespeare è legato a molte stranezze, per esempio chiusa nella tasca del morto è stata trovata una lettera che aveva ricevuto all’ingresso del teatro e che non aveva avuto il tempo di leggere, come Giulio Cesare... e poi c’era stata la profezia di una strega, che gli prediceva la morte, come in Macbeth. Allora il giovane continua a indagare su questo delitto compiuto molti anni prima, e scopre che c’era stata una congiura rivoluzionaria di cui il capo era stato questo grande eroe assassinato e nello stesso tempo che nella congiura c’era stato un traditore.
Questa indagine retrospettiva prosegue sino a scoprire le strane coincidenze di questo delitto con Macbeth e Giulio Cesare. A questo punto il giovane si sente disperato, perché si dice: «È possibile che la storia imiti la storia (cioè Giulio Cesare) ma è impossibile che la storia imiti la letteratura (cioè Macbeth)». Riparte da zero e scopre la verità: il traditore della congiura era proprio il capo dei congiurati cioè l’uomo che è stato assassinato, il grande eroe.
I congiurati una volta scoperto il tradimento e il suo autore avevano deciso, con lui d’accordo, che alla causa irlandese servisse un eroe e non un traditore ed è così che avevano deciso di ucciderlo (facendo ricadere la colpa sugli inglesi) e di farne un grande eroe.
Nel momento in cui il giovane scopre la verità, si trova di fronte al dubbio, se dirla o tacere, lo stesso dubbio a cui si erano trovati di fronte, tanti anni prima, i congiurati. Qui il giovane capisce che la strategia di questa macchinazione era talmente perfetta che prevedeva anche la scoperta stessa della macchinazione, e quindi decide di tacere, di non dire niente.
Ecco, io ho conservato soltanto la struttura di questo racconto di Borges. Il mio film è centrato su un ragazzo, un «figlio» che si reca oggi in Emilia, convocato da una donna misteriosa che si chiama Draifa e che là indaga sulla morte del padre, un eroe antifascista ucciso in un teatro mentre davano il Rigoletto.
Il meccanismo è molto simile a quello di Borges, ma la mia attenzione non è sul riflettersi ciclico delle cose che è molto «borgesiano». Il tema del film è questa specie di viaggio nel regno dei morti.
Infatti questo paese dove è successo tutto e dove il ragazzo non è mai andato perché la madre appena nato l’ha portato lontano, questo paese dove lui torna dopo tanti anni è una specie di regno dei morti.
L’indagine che il ragazzo conduce è come un viaggio nella memoria atavica, nel preconscio. E lui è proprio alla ricerca della figura del padre, attraverso l’indagine, e alla scoperta di una figura materna, che è rappresentata da questa Draifa, che era l’amante del padre e che lo ha chiamato lì. In questo senso direi che il film è l’iter di una terapia di tipo psicoanalitico, proprio perché questo paese che si chiama «Tara» è come l’inconscio, il preconscio.
Perché Ligabue nei titoli di testa?
La scelta di Ligabue è dovuta prima di tutto a una ragione di fedeltà geografica. Ligabue dipingeva gli stessi alberi e gli stessi paesaggi che sono nel film, perché abitava, credo, a quaranta chilometri dal posto in cui ho girato il film. Anche se era nato a San Gallo, in Svizzera, abitava lì, era proprio un personaggio della Bassa padana. Ligabue quindi fa parte del mondo, dell’universo di quella zona molto ristretta della Bassa, in cui è ambientato il film. Poi girando il film, parlavo spesso con l’operatore e i due punti di riferimento figurativi erano Magritte e i pittori naïf. Per esempio le notti le abbiamo girate, come ricorderete, con un colore abbastanza inconsueto per le notti cinematografiche, cioè tutto azzurro. Così sono notti in cui si vede tutto, sono le notti in cui si vede una casa anche a trecento metri, persa in fondo alla campagna, come nei quadri dei pittori naïf, e Ligabue è un pittore naïf. Anche in Magritte c’è questo stesso tipo di éclairage delle notti. C’è un quadro di Magritte che si chiama L’Empire des lumières in cui si vede una casa rettangolare, piuttosto orizzontale, con un albero, e due lampadine accese, proprio come nell’inquadratura della stazione, quando Athos figlio sta per partire di sera, verso la fine del film.
Il tuo interesse si è poi fermato su certi soggetti particolari di Ligabue, il leone in special modo.
Anche su dei ritratti di Ligabue, degli autoritratti, molto drammatici un po’ vangoghiani che però non ho usato. Ho usato tutti gli animali, perché nel film c’è questa mitologia dell’animale, del leone. Infatti un primo titolo che avevo pensato era La fuga del leone nella foresta dei pioppi, poi dopo non mi piaceva più. Comunque il leone era molto importante e come il leone anche gli altri animali: i gatti, i gallinacci, ci son dei gallinacci con delle grosse creste...
Gatti e gallinacci in quel paesaggio non destano meraviglia, ma il leone...
La Bassa è un universo abbastanza strano. Perché il leone? Così come nell’Aida di Verdi il Nilo è il Po, posso anche immaginare i leoni nella Bassa...
I nomi che scegli per i tuoi personaggi, come in questo caso: Athos Magnani, Draifa..., non sembrano solo nomi di pura finzione.
Lo sono, per quello che la finzione è sempre. La finzione vampireggia la realtà. Draifa è nella realtà il nome della moglie di uno dei tre amici di Athos Magnani, la moglie di quello che ha il tic degli occhi... il nome per la Valli l’ho rubato a questa signora. Magnani è un nome di quelle parti lì.
Athos ci ha fatto pensare al sacro, quindi alla sacralità dei padri che va profanata. E Draifa a dreifach («tre volte»), quindi al rapporto simbolico dei numeri...
Mi sembra che siete andati molto lontano, su una strada giusta però. Perché appunto il film è un film sui padri e sulle madri. Probabilmente avete ragione, cioè inconsciamente forse ho scelto questi nomi. Comunque nel film la Valli lo dice perché si chiama Draifa; si chiama Draifa perché suo padre era un fanatico di Dreyfus e allora l’ha chiamata Draifa.
Tara è l’inconscio.
Sì, forse Tara è l’inconscio, ma Tara prima di tutto è Via col vento, Tara è dove ritorna lei dopo aver detto: «Domani è un altro giorno». Tara è così la terra promessa di Via col vento, è un piccolo gioco. Però Tara ha un’assonanza, anche quella molto credibile nella nomenclatura dei paesi della Bassa. C’è Suzzara, Luzzara.
L’interesse per le figure che si sdoppiano, che si identificano, qui sembra assumere una dimensione gigantesca: Athos figlio, nel padre, nella madre e viceversa, nel marinaio, nel bambino, nel traditore, nell’eroe...
Non so. Mi pare che, in generale, sia il film sulla contraddizione della demistificazione, naturalmente, del mito del padre e anche della madre, con vari momenti. Il momento in cui la figura paterna è ancora mitica, il momento in cui Athos figlio dissacra la figura paterna, addirittura profana la tomba del padre, fino alla scoperta della verità, che però rimane ambigua. Cioè il protagonista scopre che il padre ha tradito, ma non sa fino a che punto nel tradimento del padre c’era già la previsione di tutto quello che sarebbe successo. È un tradimento, che però ha dato alla causa una grande figura, un grande personaggio, un eroe, e quindi un tradimento che alla fine ha dato un esito positivo per la resistenza contro il fascismo.
L’identificazione che fa con tutti i personaggi che incontra è un movimento spirituale che mi è molto noto, cioè anch’io tendo a identificarmi spesso con tutti i personaggi dei film.
Strategia è un film tutto sul presente, anche i flashback sono il presente del passato.
Il passato può essere soltanto il modo scelto, addirittura l’alibi in certi casi, per rendere il distanziarsi dalle cose che si trattano, però non esistono film «storici», i film sono sempre «presenti». Anche Il conformista che è un film che si svolge tutto nell’arco tra il ’38 e il ’43, è un film sul presente. I flashback non sono flashback, ma sono come delle rappresentazioni di quello che è successo: tutti i personaggi, tranne Athos Magnani, non ringiovaniscono, sono identici a come sono nel presente. L’ho fatto proprio perché volevo che la cronologia convenzionale fosse un po’ sconvolta.
Ma la ricerca dei costumi sembra piuttosto esatta...
Sì, i costumi sì. I costumi di Othon sono molto precisi, ma Othon è un film sul presente, non sull’antica Roma. I costumi sono la convenzione.
La mia compagna ha curato la parte dei costumi in Strategia, soprattutto per la Valli, e per il protagonista che poi aveva un paio di scarpe di mio nonno, che ho ritrovato...
La pettinatura della Valli mi è apparsa un po’ troppo leccata.
Lei ha i capelli così nella vita. Poi volevo che la strega non venisse fuori dai fatti esteriori, ma restasse più dentro, nelle sue contraddizioni improvvise, nei cambiamenti d’umore, quando rievoca il momento della vigliaccheria fisica di Athos Magnani padre, nella stanza alla vista del leone ad esempio. Lei ha finto di svenire nel prato, si rialza, è arrabbiata con lui perché lui ride; si allontana, lui la segue; lei se ne va con una certa durezza. Poi la vediamo arrivare nel cortile del castello incantato, diciamo, dove lei è proprietaria e unica strega. A quel punto cambia completamente d’umore, comincia a tirare le scarpe per aria, balla, gioca. E poi cambia di nuovo umore, quando dice a lui di andare in veranda: «Vai via». Lo manda via, lo scaccia.
Io credo che il film per me sia soprattutto un film parallelo ai primi tre o quattro mesi di psicoanalisi che ho fatto. Ho cominciato a fare un’analisi introspettiva a febbraio dell’anno scorso e il film è di luglio, quindi è un film che non so se avrei fatto allo stesso modo se non ci fosse stato questo avvenimento nella mia vita. E la cosa che mi ha colpito è che, mentre scrivevo la sceneggiatura, ero molto consapevole di tutti gli ingredienti di tipo psicoanalitico che vi mettevo dentro, anche se molto mediati, molto indiretti. Cioè l’analisi mi serviva molto ad avere delle idee, per quel che riguarda la sceneggiatura; quando poi ho girato il film, tutta questa consapevolezza è sparita, perché il cinema è un linguaggio totalmente gestuale quindi irrazionale... e alla fine me ne sono dimenticato. Mi son dimenticato di tutto questo fino a circa venti giorni fa, quando con la copia del film sono andato in provincia, a Parma, a fare una proiezione per gli attori del film, per questi amici e per altri amici miei, amici di mio padre di Parma. A quel punto, vedendo il film, mi sono accorto di una cosa – che forse risuona solo per me, ma credo che ci sia nel film, come carica inconscia –, cioè di tutto il problema del rapporto con i genitori.
Già in altre occasioni avevi definito Strategia come un iter psicoanalitico...
Sì, ma era tutto... teorico; lo dicevo razionalmente, ma senza sentirlo. Adesso invece l’ho verificato. L’ho rivissuto, perché questa proiezione è stata magica. È stata una domenica mattina, in un cinema di Parma – un po’ come la messa della domenica mattina – con dentro queste venti o trenta persone, queste facce che avevo visto durante l’infanzia. Non le vedevo da molto tempo, alcune da anni; è stato un pochino rivivere certe sensazioni dell’adolescenza. In fondo io andavo lì, davanti agli amici di mio padre, a dimostrare che avevo una mia attività al di fuori...
Questo film...