Con Kubrick
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eBook - ePub

Informazioni su questo libro

Nel gennaio del 1999, mentre stava terminando il montaggio di Eyes Wide Shut, Stanley Kubrick telefonò a Michael Herr, con cui aveva sceneggiato Full Metal Jacket, e disse che sarebbe stato felice di fare una lunga intervista con lui in occasione dell'uscita del film. Si erano conosciuti nel 1980 e per anni avevano scritto insieme quello che è ritenuto da molti il più grande film di guerra di tutti i tempi, ma la loro amicizia era durata ben oltre Full Metal Jacket, e quando l'improvvisa morte di Kubrick impedì l'intervista che aveva chiesto, Michael Herr scrisse al suo posto questo libro furioso e malinconico, la storia di quell'amicizia e di quel capolavoro.Nel tratteggiare la figura di Kubrick, Herr si propose di confutare la trita mitologia che lo circondava, sostituendo all'icona minacciosa del regista folle e misantropo il ritratto di un uomo pieno di calore umano, leale, appassionato e infinitamente curioso.Con Kubrick è uno sguardo privilegiato e definitivo sul regista che ha cambiato per sempre il cinema contemporaneo, e sull'uomo, complicato e spesso frainteso, che si teneva nascosto dietro l'immagine dell'artista.

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CON KUBRICK

Se non altrimenti specificato, le note sono tutte del curatore.

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In un modo o nell’altro io e lui finiamo a fare chiacchierate piuttosto impegnate sulla morte, sull’infinito, sull’origine del tempo, cose di questo genere.
Terry Southern2
Stanley Kubrick era mio amico, nella misura in cui le persone come Stanley hanno amici, e ammesso che ci sia anche una sola persona come Stanley adesso. Noto per essere un solitario, e sono certo che avrete sentito questa diceria, come solitario era in realtà un totale fallimento, a meno che non siate di quelli che credono che un solitario è semplicemente qualcuno che lascia di rado casa sua. Stanley vedeva un sacco di gente. A volte usciva anche per incontrare qualcuno, ma non molto spesso, anzi raramente, quasi mai. Eppure era uno degli uomini più socievoli che io abbia mai conosciuto, e non cambiava molto se gran parte della sua convivialità passava attraverso la cornetta del telefono. Vedeva il telefono nel modo in cui Mao vedeva la guerra, come lo strumento di una prolungata offensiva in cui il controllo del territorio era decisivo e la scelta dei tempi cruciale, mentre il tempo in sé non aveva alcun significato se non come qualcosa che bisognava avere dalla propria parte. Un’ora non era niente, giusto un approccio, una mossa d’apertura, un gambetto, un piccolo assaggio del suo virtuosismo. Lo scrittore Gustav Hasford3 dichiarò che una volta lui e Stanley erano rimasti al telefono per sette ore, e in molti casi io ho superato le tre. Ho sentito dire di un gran numero di persone che hanno raccontato di aver parlato con Stanley il giorno prima che morisse, e per quante possano essere, io credo a tutte.
Qualcuno che lo conobbe quarantacinque anni fa, quando era ancora agli inizi, ha detto: «Stanley recitava sempre la parte di quello che sa qualcosa che tu non sai», ma in tutta onestà non aveva nessun bisogno di recitare. Non solo; quando aveva finito di intrattenere con te quello che lui chiamava, in tutt’altro contesto, un «intenso scambio», sapeva molto di quello che sapevi anche tu. Hasford diceva che era come una forbicina, uno di quei piccoli e lunghi insetti dalle mascelle robuste: ti entrava da un orecchio, e non usciva dall’altro fino a che non aveva divorato tutto quello che avevi dentro la testa.
Quando parlava aveva un’abitudine che ispirava simpatia e finiva sempre per sedurre: quella di lasciar scivolare il tuo nome dentro il discorso ogni poche frasi, specie alla fine di una battuta a effetto, e c’era sempre una battuta a effetto. Aveva comunque un modo di fare particolarmente fraterno, ma conosco un buon numero di donne che lo trovavano molto, molto affascinante. Alcune erano perfino attrici.
Ci sono americani che si trasferiscono a Londra e nel giro di tre settimane parlano come Denholm Elliott.4 Ogni tanto Stanley assimilava qualche locuzione britannica, ma non serviva il professor Higgins di My Fair Lady per riconoscere in lui un puro, quasi inossidabile accento del Bronx. La voce di Stanley era molto fluida, perfino melodiosa. A dispetto di questa cadenza del Bronx caustica e nasale, forse l’ombra di qualche vecchio trauma alle adenoidi, quella voce era simile alla musica quanto può esserlo la parola senza smettere di essere parola, come quella che potrebbe avere un coltissimo musicista jazz, con un piacevole e delicato fluire e rifluire dell’inflessione, un po’ alla Groucho, per esprimere l’enfasi, una voce che suggeriva l’aprirsi e il chiudersi delle virgolette e perfino delle «caporali» per segnalare una citazione, riferire un commento o trasmettere una divertita indignazione, scandendo in modo particolare frasi che lo avevano colpito per la loro favolosa banalità, con un sacco di allusioni e di latente sarcasmo, e a volte neanche poi così latente, con ritmi vivaci, brillante scelta dei tempi, eloquenti silenzi; e sempre con magistrali, invisibili raccordi: «Cambiamo argomento solo per un attimo», o: «Di cos’è che parlavamo prima di cominciare a parlare di questo?» Non l’ho mai sentito cercare di imitare altre voci o altri dialetti, nemmeno quando raccontava barzellette ebraiche. Stanley citava altra gente in continuazione, gente «del settore» con cui aveva parlato quel pomeriggio (Steven e Mike, Warren e Jack, Tom e Nicole) o gente che era morta mille anni prima, ma era sempre Stanley che parlava.
Quando lo conobbi, nel 1980, non ero solo affascinato dalla leggenda di Stanley, ero sinceramente predisposto ad ammalarmene. Aveva saputo che vivevo a Londra da un amico comune, David Cornwell (meglio noto come John le Carré), e ci invitò a vedere un film e poi a cena. Il film era una proiezione di Shining agli Shepperton Studios alcune settimane prima che venisse distribuito negli Stati Uniti, e fu seguita da una cena a Childwick Bury, la tenuta di cinquanta ettari vicino a St. Albans, a un’ora di strada da Londra in direzione nord, dove Stanley, la sua famiglia e i suoi cani e gatti si erano appena trasferiti. Stanley voleva conoscermi perché gli era piaciuto il mio libro sul Vietnam. Fu la prima cosa che mi disse quando ci incontrammo. La seconda cosa che mi disse fu che non voleva trarne un film. Intendeva farmi un complimento o qualcosa del genere, ma voleva anche essere sicuro che io non mi stessi facendo nessuna idea sbagliata. Aveva letto il libro diverse volte cercando di tirarne fuori la storia, e citò a memoria vari passaggi, alcuni piuttosto lunghi, durante la cena. E dato che io amavo i suoi film da qualcosa come venticinque anni, fui commosso, lusingato e molto felice di conoscerlo, perché naturalmente sapevo benissimo che non era facile incontrarlo. Stanley non era il tipo di persona in cui ci si imbatte a una festa stringendo subito amicizia.
Stava pensando di fare un film di guerra, in quel periodo, ma non sapeva su quale guerra, e in effetti, adesso che ne parlava, non era nemmeno così sicuro di voler fare un film di guerra.
Mi chiamò due sere più tardi per chiedermi se avevo mai letto qualcosa di Jung. Sì. Avevo presente il concetto di Ombra, il nostro lato oscuro e segreto? Gli assicurai di sì. Passammo una mezz’ora a parlare del concetto di Ombra, e di quanto lui volesse a tutti i costi metterlo nel suo film di guerra. Ah, e conoscevo per caso qualche buon libro sul Vietnam? «Capisci, Michael, qualcosa che abbia una storia?» No, non ne conoscevo nessuno. Gli dissi che, dopo aver lavorato per sette anni a un libro sul Viet­nam e quasi altri due ad Apocalypse Now, era più o meno l’ultima cosa al mondo che mi interessava. Mi ringraziò dell’onestà, del «brutale candore», e disse che, con ogni probabilità, la cosa che voleva fare di più era un film sull’Olocausto, ma se c’era da mettere tutta quella roba in un film di due ore, be’, tanti auguri. E poi c’era quest’altro libro da cui era affascinato, era quasi certo che io non ne avessi mai sentito parlare, un racconto lungo di Arthur Schnitzler del 1926, Traumnovelle, che si può tradurre come Novella di sogno, insensatamente rititolata Rhapsody5 nell’unica edizione inglese esistente all’epoca. Lo aveva letto più di vent’anni prima, e aveva comprato i diritti nei primi anni Settanta (è il libro su cui è basato Eyes Wide Shut), e la ragione per cui io non ne avevo mai sentito parlare (scoppiò a ridere) era che ne aveva comprato lui ogni singola copia in commercio. Magari me ne avrebbe mandata una. Potevo leggerla, e dirgli che cosa ne pensavo.
«Senti, tu leggilo e poi ne parliamo, mi interessa sapere che ne pensi. E Michael, chiedi in giro tra gli amici che hanno fatto la guerra con te, forse loro la conoscono, una buona storia sul Vietnam. Sai, no, tipo al prossimo incontro della Legione Americana? Ah, Michael... me lo fai un favore?»
«Certo».
«Non dire a nessuno di cosa abbiamo parlato...»
Il pomeriggio seguente mi arrivò una copia del libro di Schnitzler insieme all’edizione in brossura della Distruzione degli ebrei d’Europa di Raul Hilberg, recapitate dall’autista di Stanley, Emilio, il quale – che me ne rendessi conto o meno – stava per diventare il mio nuovo, grande amico.
Lessi subito Schnitzler, e quella fu la prima volta che ebbi sentore di quanto Stanley fosse davvero brillante. Traumno­velle, pubblicato a Vienna nel 1926, è il fulgido, straziante fiorire di un luogo e un tempo voluttuosi e consci della propria decadenza, una sconvolgente e pericolosa storia di sesso e ossessione sessuale e della sofferenza che il sesso produce. Nella sua impietosa visione dell’amore, del matrimonio e del desiderio, resa quanto mai disturbante dalla suggestione che tutti e tre – o forse uno o due, o magari nessuno – sono un sogno, penetra nelle radici segrete della vita erotica occidentale come una lama, sussurrando discretamente, da dietro il paravento del sogno, cose che vengono riconosciute e confessate di rado anche in privato, e mai dette alla luce del sole. Stanley pensava che sarebbe stato perfetto per Steve Martin. Gli era piaciuto moltissimo Lo straccione.
Aveva parlato di questo libro con un sacco di gente, tra cui David Cornwell e Diane Johnson,6 e dato che in seguito David, Diane e io ne parlammo tra noi (e senza che ci fosse Stanley, penso) so che la sua idea all’epoca era sempre di farne una commedia erotica, ma percorsa da una vena di follia nera. Per noi non aveva molto senso, ci era parsa un’opera di grande valore letterario, e non particolarmente divertente. Forse Traumnovelle è una commedia nel senso in cui lo è il Don Giovanni: tentato stupro ed elenchi compulsivi e patetici, una sottintesa impotenza e Don Giovanni trascinato per sempre giù all’inferno, vecchia macchina da sesso ignorante e insolente fino alla fine. Una commedia piuttosto dura e disturbante, non molto giocosa,7 e non l’essenza di Traumnovelle, che più di ogni altra cosa era sinistro. Per come la vedevamo noi scrittori, faceva paura come Shining. Adesso penso che fossimo tutti troppo privi di fantasia per immaginare quello che Stanley vedeva in Steve Martin, perché questo non era Lo straccione. Poteva finire per essere un’altra di quelle storie che avrete sentito così spesso su di lui, raccontate di solito dai cameraman o da altri membri importanti della troupe, Stanley diceva che dovevamo provare a farlo in quel modo e io gli dicevo che non si era mai fatto in quel modo, e che non si poteva fare in quel modo, gli stop sbagliati sulle lenti sbagliate sulla cinepresa sbagliata, e lui lo faceva lo stesso, e aveva ragione lui.
Ne parlammo per anni, a cominciare da quel pomeriggio, perché credo che Emilio non avesse ancora fatto in tempo ad arrivare a St. Albans quando Stanley mi chiamò: «L’hai letto? Che ne pensi?» Dopo circa un’ora mi chiese se avevo già avuto occasione di dare un’occhiata al libro di Hilberg. Gli ricordai che lo avevo appena ricevuto.
Quando ti mandava un libro, voleva che tu lo leggessi, e non solo che lo leggessi, ma che lasciassi stare tutto e ti ci gettassi dentro. John Calley, che era probabilmente l’amico più intimo di Stanley, mi disse che, quando era responsabile della produzione alla Warner Bros. negli anni Settanta e lavorò per la prima volta con lui, Stanley gli fece avere l’edizione integrale del Ramo d’oro, e poi per un anno lo tormentò ogni due o tre settimane perché lo leggesse. Alla fine Calley disse: «Stanley, ho una casa di produzione da mandare avanti. Non ho tempo per leggere un libro di mitologia». «Non è mitologia, John», disse Stanley. «È la tua vita».
Presi in mano Hilberg molte volte per poi rimetterlo giù. Ho finito per leggerlo qualche anno fa, quando sapevo che non c’era nessuna possibilità che Stanley lo usasse più per un film, e ho capito perché ne era stato così assorbito. Era un volume che respingeva la lettura, stampato fitto in caratteri minuti su due colonne, lungo quasi ottocento pagine, pieno di note, così meticolosamente dettagliato che bisognava essere molto più interessati di quanto io fossi all’epoca al suo tema inconcepibilmente orribile. Mi resi conto che era davvero esaustivo; dava di sicuro l’impressione di un lavoro imponente, e si leggeva come una sorta di registrazione completa della Soluzione Finale. E ogni due o tre settimane Stanley mi chiamava per chiedermi se l’avevo letto: «Dovresti leggerlo, Michael, è monumentale!» Andò avanti così per mesi e mesi.
Alla fine dissi: «Stanley, non ce la faccio».
«Perché no?»
«Non lo so. Penso di non aver voglia di leggere, in questo momento, un libro che si intitola La distruzione degli ebrei d’Europa».
«No, Michael», disse. «Il libro che non vuoi leggere in questo momento è La distruzione degli ebrei d’Europa – Parte seconda».
«Sai, Michael, non è sempre vero che un sapientone non piace mai a nessuno», diceva Stanley.
Una volta ho descritto il periodo tra il 1980 e il 1983 come un’unica telefonata lunga tre anni, con alcune interruzioni. Questa telefonata seriale ebbe molte delle caratteristiche delle discussioni di gruppo che si fanno al college, lunghe indagini intellettuali, conversazioni fino a tarda notte, chiacchierate informali e sfoggi di erudizione, come quando stavi a parlare nel dormitorio fino alle tre del mattino con un compagno di stanza molto intelligente, e io pensavo: Ma non è mai stanco quest’uomo? Stanley però non era andato al college; era solo un autodidatta straordinariamente in gamba, una di quelle persone di cui può capitarci di sentir parlare, ma che di rado riusciamo a conoscere, il quasi (ma non del tutto) leggendario Uomo Con Il Quale Nulla Va Sprecato.
«Ehi, Michael, l’hai mai letto Erodoto? Il Padre di Ogni Menzogna?», oppure: «Francamente non ho mai capito perché Schopenhauer è considerato così pessimista. Io non ho mai pensato che fosse pessimista, e tu, Michael?», diceva, ridendo alle quattro o cinque cose che trovava divertenti nella faccenda, con un affascinante tocco di autocritica e un accenno di scuse: Non è colpa mia se sono così intelligente. E io pensavo: Non ha nient’altro da fare? Ma era questo che faceva. Queste telefonate erano un modo di raccogliere informazioni. Erano il lavoro di Stanley.
Stavamo parlando di qualcosa, per esempio del perché «la maggior parte dei film di guerra sembrano così finti», o di come spiegavamo il fatto che quel film o quel libro fosse stato un successo, e ci trovavamo ad attraversare duemila anni di cultura occidentale, «da Platone alla televisione». Era proprio (almeno in apparenza) un classico darwinista sociale, con strati su strati di un vecchio umanesimo liberale ora in via d’estinzione, che era stato deluso ma non offuscato, e che non cadeva mai in contraddizione; se non faceva nessuna distinzione tra Arte e Commercio o Poesia e Tecnologia o perfino tra Personale e Professionale, perché avrebbe dovuto farne tra «Politica» e Filosofia?
Stanley aveva opinioni su tutto, ma non le chiamerei proprio opinioni politiche. («Ehi, Michael, lo sai cos’è un neoconservatore...? Un democratico che è appena stato rapinato, ah ah ah».) Le sue idee sulla democrazia erano quelle della maggior parte delle persone che conosco, né di destra né di sinistra, non esattamente traboccanti di fiducia: si trattava di un nobile esperimento fallito lungo la via della nostra evoluzione, rovinato dagli istinti più bassi, dal denaro, dagli interessi personali e dalla stupidità. (Se un romanziere esprime opinioni come queste, è un visionario, a quanto pare, mentre se le esprime un regista, è un misantropo.) Pensava che il miglior sistema di governo fosse quel...

Indice dei contenuti

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  3. Kubrick come guerra - di Simone Barillari
  4. Con Kubrick