1. FAMA, NOTORIETÀ E GENIO
«Non conosco nessuno che ottenga la stessa pubblicità che ottengo io senza fare nulla».
«Da adolescente», ha scritto Brendan Gill nel suo libro Here at The New Yorker, «Capote ha lavorato per un po’ di tempo come fattorino al New Yorker. Era una creatura piccola e snella, dalla faccia rotonda, esotica come un falco pescatore... Capote si vestiva con un’eccentricità che sarebbe diventata consueta tra i giovani soltanto venticinque anni più tardi; lo ricordo muoversi rapidamente nei corridoi del giornale con un mantello nero da sera, con i lunghi capelli color dell’oro che gli ricadevano sulle spalle: un’apparizione che ti faceva pensare a Oscar Wilde nel Nevada, completo di velluti e gigli».
Norman Mailer, in un articolo sulla televisione scritto per Esquire e intitolato «Su una piccola e modesta perfidia», descrive il suo primo incontro con Capote in occasione di un viaggio in macchina fino a Newark, dove dovevano apparire insieme a Dorothy Parker nel programma Open End di David Susskind.
«Durante il viaggio Truman si lamentò molto», scrive Mailer. «“Non voglio partecipare a questo programma”, diceva con quella sua vocetta piatta che sembrava fuoriuscire da un’ancia non umettata infilata nel naso. “Ho detto a Bennett Cerf che è uno sbaglio, ma lui è convinto che la televisione farà aumentare di molto le vendite dei nostri libri”».
Mailer racconta nel dettaglio come, via via che il programma procedeva, gli sembrava che stesse andando tutto bene, fino a quando non si passò a discutere dei meriti di Kerouac, scrittore che Capote detestava. «Più Mailer ne parlava in modo favorevole», continua Mailer, «più Capote diventava pignolo. Alzò sempre di più la voce, e nella sua arringa finale si appellò alle difficoltà dell’artigianato letterario in contrasto all’indisciplinato metodo di lavoro del signor Kerouac. Alla fine, con una coraggiosa e assoluta severità, Capote concluse: “Non è scrivere. È solo battere a macchina”.
«“Sono d’accordo”, aggiunse Dorothy Parker con voce roca.
«“Be’, io no”, disse Mailer, tentando una debole difesa. Dopo quell’orribile e umiliante critica di Kerouac, Mailer si sentì svuotato di tutto il suo sdegno».
Al ritorno, Capote elogiò il comportamento di Mailer, minimizzando il proprio. Andarono a mangiare a El Morocco e Capote si fece più vivace. Quella sera Mailer scoprì anche il fascino di Capote, e capì come aveva fatto a diventare «lo scrittore preferito delle donne più socialmente in vista e importanti di New York». Mailer era invidioso, tuttavia la ritenne una bella serata, «e alla fine Truman annunciò che sarebbero stati grandi amici per sempre».
Ma il giorno dopo non ci furono altri elogi, e così Mailer andò a farsi una passeggiata. Un amico lo fermò e gli disse: «Non è scrivere. È solo battere a macchina», e si mise a ridere. Un altro disse: «Truman... che forza!» Un terzo gli chiese: «Potresti presentarmi Capote?»
Alla fine, frustrato, Mailer chiamò i responsabili di Open End chiedendo di vedere la registrazione del programma. Quello che vide gli diede una nuova coscienza del mezzo televisivo. «Capote non appariva piccolo nel programma, ma gigantesco! Il suo viso era straordinario, quel giovane viso da vecchio, ancora così bello ma con la promessa di un’imminente bruttezza; e poi quella voce dallo spietato tono nasale e così piena di fruscii sprezzanti, una voce fatta per risuonare potente nelle orecchie di New York. Era la voce di un sopravvissuto che raccontava di orrori visti e passati, una voce che giudicava senza pietà».
Riconoscendo l’impatto avuto da Capote, Mailer si sentì sconfitto. Quando lo rivide, Capote «aveva una sicurezza nuova più forte della vecchia [...] Truman aveva iniziato a sviluppare una nuova idea di se stesso. La personalità con cui si era presentato a una parte assai speciale del mondo, con quella sua precoce aria spavalda, adesso sembrava che sarebbe stata accettata dal mondo intero».
Sicuramente sarebbe stato così.
Lei si è sempre riferito a se stesso come a uno scherzo di natura. In altre parole, si è sempre considerato un diverso, un freak. Si sente davvero così?
Mi sono definito così, ma in realtà penso che la cosa valga per tutti gli artisti. Penso che tutti gli artisti siano scherzi di natura.
In generale quando sei un artista sei dissociato dalla realtà. Il cervello di un artista lavora molto più rapidamente e velocemente del cervello della maggior parte delle persone, e in modo più ricettivo. Diciamo che la maggior parte delle persone ha dieci percezioni al minuto, mentre un artista ne ha qualcosa come sessanta, settanta.
È sempre così o riesce a spegnere, o rallentare, queste percezioni?
Penso che questo sia il motivo principale per cui tanti artisti bevono o prendono pillole o cose del genere: per calmarsi, per acquietare questa veloce macchina sempre in funzione. So che per Tennessee Williams era così. Doveva prendere sedativi e bere a quel modo perché possedeva una delle menti più rapide e ricettive mai viste. Non riusciva a dormire molto bene.
E lei?
Ho un sacco di problemi a dormire.
Lei ha parlato di questi problemi nell’ultimo pezzo contenuto in Musica per camaleonti, «Rigiramenti notturni». È un pezzo diventato famoso per quelle frasi verso la fine, quando scrive: «Non sono ancora un santo. Sono un alcolizzato. Sono un tossicomane. Sono un omosessuale. Sono un genio». In relazione a quello che ha scritto allora, dove si trova oggi?
Be’, non sono un alcolizzato. C’è stato un periodo in cui lo sono stato. Non sono per niente un tossicomane. Per un brevissimo periodo di tempo ho preso delle pillole. Quando scrissi quelle righe lo feci per scherzo, ma se vengono estrapolate dal contesto, come hanno fatto parecchi critici, suonano piuttosto bizzarre.
Anche quando si definì un genio scherzava?
Sì e no. Per metà ci credevo, e per l’altra metà era uno scherzo.
Per lei cosa significa essere un genio?
Significa saper fare una cosa in modo eccezionale, come nessun altro riesce a fare.
Proust definì il genio come originalità, fascino, eleganza, forza. Disse che il genio consiste nel potere di mostrare e non nel valore intrinseco della cosa mostrata. È d’accordo?
Sì. Non credo che sia tanto importante il materiale trattato dall’artista, quanto il modo in cui lo usa. È questo a fare la differenza tra chi ha un talento fuori dal comune e chi ha semplicemente del talento. Un grande artista sa prendere qualcosa di molto ordinario e, grazie alla pura creatività e alla forza di volontà, trasformarlo in un’opera d’arte.
Può fare un esempio?
In questo gli attori mi sembrano molto più geniali che non, diciamo, i musicisti. Anche se ci sono determinati cantanti che sanno prendere una canzone davvero brutta e, solo grazie a una incredibile combinazione di stile e potenza, renderla fantastica, come faceva Billie Holiday. In tutta la sua vita Billie Holiday praticamente non ha mai cantato una canzone decente, ma era capace di interpretare queste canzoni del tutto mediocri e farle diventare stupefacenti concentrati di stile e arte. Billie era in grado di prendere una mela da un cestino e, per quanto questa mela fosse marcia, trasformarla in un’opera d’arte. Perché aveva stile. Lee Wiley era un’altra cantante con un grande stile. Non ha mai avuto il riconoscimento che meritava. Se Frank Sinatra ha imparato a leggere un testo, lo deve soltanto a lei e a Billie Holiday. E Sinatra è uno che li legge bene, i testi.
E che ne pensa degli scrittori? C’è qualcuno tra i suoi contemporanei che considera geniale?
Flannery O’Connor aveva qualcosa di geniale. Non penso che John Updike, o Norman Mailer o William Styron, i quali hanno tutti del talento, siano geniali, perché non eccellono in niente. Norman Mailer pensa che William Burroughs sia un genio, la qual cosa è semplicemente ridicola. Secondo me William Burroughs non ha un briciolo di talento.
Una volta James Michener mi ha detto che le uniche persone che aveva conosciuto e che considerava geniali erano Bobby Fischer e Tennessee Williams.
È possibilissimo che Bobby Fischer sia un genio. A un certo punto della sua vita Tennessee lo era, ma poi s’è buttato via e ha iniziato a interessarsi più di pittura che di scrittura.
Lei è stato criticato perché si divide tra l’arte in sé e la ricerca della fama. Il defunto Thomas Thompson l’ha definita una creatura nello zoo delle celebrità. Crede che lei abbia seriamente danneggiato la sua carriera soccombendo alla voglia di diventare famoso.
Thompson ha seriamente danneggiato la sua carriera anche solo pubblicando un libro.
Tuttavia, essere una celebrità ha avuto qualche effetto su di lei?
No, naturalmente no.
Nel libro Here at The New Yorker Brendan Gill scrive che lei fa pubblicità a se stesso così come altri fanno pubblicità ai rossetti o al talco per bambini. È vero?
No. Non sono d’accordo.
Tuttavia sembra che lei finisca sui giornali più per quello che è che per quello che scrive.
Ma non vale per tutti? Voglio dire, io sono un personaggio. Ho letto sul New York Times quanto è difficile ottenere pubblicità per i libri e gli scrittori. Il giornalista concludeva l’articolo dicendo che gli editori non riescono a far apparire gli scrittori in televisione, eccetto quelli che si occupano di ginnastica e salute. Il romanziere medio che ha scritto un libro di qualunque genere non viene preso nemmeno in considerazione. «E, naturalmente, questo non vale per Truman Capote, perché lui è una celebrità oltre a essere uno scrittore». (Ride.) Ho avuto tanta pubblicità da sopravvivere a un esercito di supervermi. Non conosco nessuno che ottenga la stessa pubblicità che ottengo io senza fare nulla.
Preferirebbe essere meno conosciuto in modo da poter osservare meglio senza essere visto?
È passato troppo tempo perché possa porre rimedio a questo stato di cose. Voglio dire, sono diventato famoso a sedici anni. Life pubblicò un articolo intero su di me, lo scrittore prodigio. Da allora in poi la conclusione è stata scontata. Se sei famoso, lo sei e basta. Fine della storia. Non puoi farci nulla.
È d’accordo con Proust quando dice che la nostra fama è una creazione degli altri?
Non la mia! (Ride.)
Di sicuro la sua non è una voce costruita ad arte. Mailer scrisse che «era una voce fatta per risuonare potente nelle orecchie di New York».
Oh, dice così solo per quella volta che la mia voce risuonò potente nelle sue orecchie quando lo conciai per le feste, in quel programma televisivo.
Comunque la sua voce è stata descritta da molti. Che effetto le fa?
Non saprei. Capisco sempre quando chi mi sta intervistando mi sarà leggermente ostile perché, chiunque egli sia, dice subito qualcosa sulla mia voce, nel primissimo paragrafo. Da quel momento in poi... mmmh, va bene, ho capito, ci sarà un po’ di maretta. (Ride.) Però non capisco proprio perché alcuni hanno scritto che ho la s blesa. Cioè, ho registrato nove dischi con i miei racconti per la Columbia e la RCA, e do un milione di dollari a chiunque riesca a trovarci questa s blesa!
In Colazione da Tiffany lei ha scritto: «La personalità media assume di frequente un aspetto nuovo». Ma la personalità di Holly Golightly non subisce variazioni. E la sua?
Non così spesso come quella di una celebrità. Però il mio atteggiamento è cambiato. Adesso son...