LE PICCOLE MORALI
A questo punto ti porrei delle questioni più ampie ed esplicite. E parlerei proprio dell’idea di libertà, di desiderio, e del tuo rapporto col mondo cattolico. Partirei da un pezzo che hai scritto qualche tempo fa intitolato «Noi desideranti», che secondo me coglie vari punti nodali rispetto a molti discorsi che ci siamo fatti: la contrapposizione tra garantismo e giustizialismo, l’idea di una sinistra libertaria anziché di una sinistra dell’ordine... A un certo punto di questo articolo cerchi di intervenire rispetto a un modello di politica che mi sembra si stia affermando: quello della rivendicazione di diritti da parte delle minoranze.
E dici: «Davanti a centinaia di giovani e meno giovani che ruotavano intorno ai temi del nichilismo, dell’individualismo come tentazione dell’uomo a farsi il centro di se stesso, sono echeggiate due affermazioni particolarmente squillanti e impreviste. La prima: se pure il relativismo fosse il male supremo, la risposta non può essere una fede assolutista. La seconda: esiste certo il rischio di una dittatura del desiderio, ma “ricordiamo che l’uomo è un essere desiderante”. Riassumo così, forse un po’ grossolanamente, le nette parole di Costantino Esposito».
La politica è un tentativo in parte pedagogico di creare un contrasto alla società dei consumi, alle derive di un mondo completamente avvinto nel desiderio di godimento dopo la fine degli ideali? Non è un caso forse che Recalcati abbia tutto questo successo, non è un caso che un certo cattolicesimo di sinistra si sia ritrovato in questa prospettiva. Però non pensi che ci sia una sorta di rischio della censura del desiderio rispetto alla deriva del desiderio?
E invece in qualche modo tu rivendichi un pensiero «altro», «altro» proprio sulla condizione umana. Cioè l’uomo è un essere desiderante, e mi sembra che quest’assunto potrebbe essere una chiave per una serie di questioni, dai diritti delle donne al fine vita.
Dunque, io parto da alcuni presupposti. Uno è l’intervento del filosofo Costantino Esposito, in un dibattito cui prendevo parte nel corso del meeting di Comunione e liberazione del 2014. Esposito impugna con forza la questione del desiderio e la propone in chiave umanista. Senza alcun imbarazzo verso le teorie secolarizzate che, sull’io desiderante, hanno costruito una interessante elaborazione ma anche una cattiva letteratura.
Poi, penso ad altri incontri: quello con monsignor Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, con alcuni giuristi, medici e qualche rarissimo parlamentare, e io tra questi. Ascolto in quella sede alcuni ragionamenti (di monsignor Ravasi, in primo luogo) sul rapporto tra morale di maggioranza (dunque, in Italia, quella di ispirazione cattolica) e morali di minoranza. Le parole di Costantino Esposito e di monsignor Ravasi non possono non colpirmi perché è da un quarto di secolo che rifletto e scrivo sulla base di un’impostazione assai simile.
Impostazione di metodo, sia chiaro, perché le implicazioni di merito possono essere assai diverse. Ma in questo caso l’affinità di metodo è fondamentale. La mia riflessione, certo, è occasionale e non sistematica sia perché il mio approccio alla filosofia è dilettantesco, sia perché sono attratto e coinvolto, fino alla dissipazione, da troppe curiosità e da troppi interessi. Ma il tracciato è quello. In altre parole, dalla metà degli anni Ottanta coltivo questa ideuzza.
La definisco così non per civetteria, ma perché mi sento inadeguato a svilupparla e a elaborarla come categoria autonoma. Parto dalla constatazione che la crisi della morale di maggioranza – una sorta di senso comune coincidente con una elementare precettistica di derivazione cattolica – non ha prodotto – come prevedevano gli apocalittici del cattolicesimo integralista e quelli del nichilismo agnostico – il deserto etico. Ovvero, una sorta di amoralità onnipervasiva che avrebbe tradotto il relativismo etico in atrofia dei valori, di qualsiasi valore, e che avrebbe determinato il trionfo dell’edonismo, del consumismo e del materialismo della merce e del denaro. Un paesaggio desolatamente nichilista. Niente affatto.
La crisi della morale di maggioranza non ha prodotto un vuoto di senso e di valori bensì un pieno di significati e di codici. Dunque non un deficit di morale, ma molte morali. E ancora: non la a-moralità di massa, non l’aridità tecnocratica o utilitaristica o economicistica, bensì piccole, parziali, approssimative, e tutt’ora incerte, e addirittura goffe morali di minoranza. Provvisorie, e consapevoli di essere provvisorie. Morali, per così dire, «locali»: di comunità, di genere, di movimento, di cultura, di tendenza. E così, sui temi di vita e di morte si profilano, seppur in maniera ancora malferma, risposte morali diverse da quelle previste dalla morale tradizionale di derivazione religiosa e che aspirano a soluzioni legislative differenti da quelle convenzionali-confessionali.
Tali soluzioni diverse sembrano affidarsi a due strumenti teorico-pratici: due categorie che possono ispirare l’azione pubblica. La prima è una sorta di «quadro morale»: ovvero il tentativo di fondare e argomentare in termini etici, alternativi a quelli convenzionali-confessionali, le opzioni su quei temi controversi e la loro trascrizione normativa. Il secondo strumento teorico-pratico è il criterio della «riduzione del danno»: ovvero la traduzione in linguaggio politico-sociale di quel principio che, nella teologia e nella morale del cattolicesimo, è il «male minore». Ma al di là della proposta di metodo (fondare e argomentare in termini morali le proprie opzioni su temi controversi, appunto), qual è la base etica di una morale diversa da quella tradizionale, di ispirazione cattolica?
Innanzitutto, è chiaro che, oggi, non disponiamo di un corpus compatto e coerente di valori alternativi; e proprio perché il riferimento è a codici morali che, appena poco fa, ho definito incerti. Ovvero in via di elaborazione e di sperimentazione. Ma di codici morali si tratta: combinazioni di valori e norme che ispirano e orientano i comportamenti individuali e di comunità; e dai quali discendono i fini delle azioni. Dunque, ecco il punto centrale, una pluralità di codici morali. Codici che non aspirano a diventare egemoni e omologanti, ma che intendono fondare, anche eticamente, un’autonoma idea di relazione e di scambio, di progetto e di reciprocità, di coniugalità e di genitorialità, di legame e di responsabilità.
E, dunque, le scelte anche legislative in materia di interruzione volontaria di gravidanza e unioni civili, testamento biologico e adozione, eutanasia e fecondazione assistita, e altro ancora. Che vuol dire per me tutto ciò? Vuol dire che la domanda di normative per le unioni civili e per il matrimonio omosessuale, alla quale tanti ciniconi replicano: «Ormai in Italia gli unici a volere il matrimonio sono i gay», merita invece una risposta seria. In quella richiesta di riconoscimento dell’unione tra persone dello stesso sesso c’è, appunto, un’istanza morale. Il matrimonio gay viene richiesto da chi ha un progetto di vita, una reciprocità di relazione, un’intenzione di stabilità e colloca tutto questo all’interno di un sistema di valori. Il nodo sta qui, e spero di essermi spiegato.
E questo riconoscimento morale sarebbe una di queste piccole morali di minoranza...
Esatto. Anzi, parto proprio da questo esempio, perché è quello più eloquente. Proprio dove gli avversari di quelle soluzioni normative vedono il disordine, la trasgressione, la rottura di un modello rassicurante e solo questo, io scorgo anche altro. Perché un omosessuale con vocazione libertina non richiede il matrimonio? Ovvio: perché il matrimonio, qualunque sia l’orientamento sessuale dei partner, prevede una certa stabilità. Dunque, quell’omosessuale libertino chiederà semplicemente parità di diritti.
Da dove emergono queste morali minori?
Emergono dalla crisi della morale di maggioranza, quella che per il tema in questione prevedeva solo il matrimonio eterosessuale monogamico. L’erosione di tutto ciò, come ho detto, non produce vuoto ma genera nuove morali. E con metodo analogo è possibile affrontare le questioni dette di fine vita.
Per esempio, non c’è dubbio che sia un’istanza morale a ispirare la volontà di preservare fino all’ultimo una qualche qualità della vita della persona – ecco il significato della parola dignità – all’interno di un sistema di esperienze e di relazioni. Dunque, si profila una morale – certo tutt’ora approssimativa – che dice: la morte dignitosa è quella che non accetta la riduzione dell’essere umano a vegetale o «cosa», e dunque rifiuta la sua reificazione. Anche quando quella cosizzazione è il risultato di una medicalizzazione tecnologica della fase ultima della vita del paziente. E, invece, si può moralmente affermare che il contrario della reificazione è una vita che sia considerata tale e preservata come tale fino a quando la persona sia capace di relazione, sentimento, esperienza, conoscenza. Questa impostazione può essere sottoposta, ovviamente, a giudizio critico, fino a dichiararne la totale erroneità, ma non la si può definire in alcun modo – ne sono convinto – immorale o a-morale.
Al contrario, essa tende a costruire, con i rozzi materiali di cui dispone, un proprio sistema di valori. Non lo penso certo da ora. Bensì da tempo (ed è per questo che ne parlo con tanta foga): da quando, cioè, ho cominciato a riflettere con più serietà sulla questione della legalizzazione delle sostanze stupefacenti; e da quando ho trovato una importante sollecitazione teorica nel documento «l’aborto procurato» (18 novembre 1974) della Sacra congregazione per la dottrina della fede, ovvero ciò che fu il Sant’Uffizio. In quel testo di oltre quarant’anni fa si poteva leggere: «L’aborto clandestino espone le donne che vi ricorrono ai più gravi pericoli non solo per la loro fecondità futura ma anche, spesso, per la loro vita. Pur continuando a considerare l’aborto come un male, il legislatore non può forse proporsi di limitarne i danni?». La risposta della Sacra congregazione è naturalmente negativa: «È vero che la legge civile non può abbracciare tutto l’ambito della morale, o punire tutte le malefatte: nessuno pretende questo da essa. Spesso essa deve tollerare ciò che in definitiva è un male minore, per evitarne uno più grande. Bisogna, tuttavia, far bene attenzione a ciò che può comportare un cambiamento di legislazione: molti prenderanno per un’autorizzazione quel che, forse, altro non è che una rinuncia a punire. E, nel caso presente, tale rinuncia sembra comportare che il legislatore non consideri più l’aborto come un crimine contro la vita umana, poiché l’omicidio resta sempre gravemente punito».
Un «male minore». Dunque, la Sacra congregazione sembra prendere in considerazione questa ipotesi: e tuttavia paventa le conseguenze di una riforma legislativa. La depenalizzazione può essere scambiata per «un’autorizzazione». E quindi la rinuncia a punire sarebbe interpretata – questa è la preoccupazione – non come un provvedimento atto a conseguire il male minore e ridurre il danno, ma come una sorta di de-rubricazione morale dell’interruzione di gravidanza, non più considerata un «crimine».
Se ne deve dedurre che, a impedire l’accoglimento dell’opzione a favore del male minore, intervengano preoccupazioni ideologiche e psicologiche. Ovvero il rischio che nella sensibilità collettiva quello che è un disvalore possa ricevere una minore riprovazione morale. La lettura di quel testo, alla fine degli anni Ottanta, per me fu decisiva, perché mi dissi: certo, la Chiesa cattolica non può accettare l’aborto, ma quel ragionamento alludeva alla qualità morale della concezione del «male minore», ovvero di quella che, in termini politico-sociali, in quel periodo cominciava a essere chiamata «strategia della riduzione del danno». Quest’ultima corrisponde a una istanza – prioritaria rispetto a ogni altra considerazione – di limitazione della sofferenza, dunque la legalizzazione dell’aborto contiene in sé una sua ragione etica perché intende limitare il male. Mira cioè a ridurne gli effetti perniciosi sulla comunità, sulle persone, sulle donne e su quella donna. Anche se lo strumento utilizzato – la legalizzazione – resta inaccettabile. Per me fu un’illuminazione.
Coglievi nella controparte un riconoscimento morale.
Sì, e da allora mi sono reso conto che in tutti i conflitti – ma anche semplicemente nelle discussioni su queste grandi questioni – si manifestano tre opzioni diverse. La prima è tutta in chiave strumentale e utilitaristica: per esempio, legalizzare le sostanze stupefacenti per non alimentare il mercato nero e per non finanziare le mafie. O anche – versione libertaria – in nome del libero commercio e delle libere scelte degli individui. O, infine, perché gli effetti del proibizionismo sono peggiori degli effetti dell’antiproibizionismo. Si tratta di motivazioni tutte condivisibili, ma che rivelano un limite economicistico, troppo concentrate, come sono, sul rapporto costi-benefici.
Ecco, accanto a queste argomentazioni, io credevo di cogliere un’altra opzione. Che rafforzava le prime, e si ispirava all’idea di bene comune e di moralità pubblica. Cioè la legalizzazione delle sostanze stupefacenti, nel momento in cui riduce la sofferenza degli individui, trova la sua profonda ragione morale. E riduce la sofferenza degli individui perché limita le conseguenze dell’azione commessa e la sottrae alla sfera penale; ma anche perché consente delle terapie più accorte e delle strategie mediche o assistenziali più intelligenti.
Consente, cioè, un vero e proprio programma di riduzione del danno, non a caso sostenuto in Italia con particolare energia da due sacerdoti, don Luigi Ciotti e monsignor Vinicio Albanesi. Ecco, io vedo nell’elaborazione di tali questioni (politiche sulle sostanze stupefacenti, tematiche del fine vita e tutela degli orientamenti sessuali) il faticoso aggregarsi di opzioni, di pratiche e di principi che vanno nella direzione di una ricerca etica.
Questa tua prospettiva morale va a comporre un’idea di politica che per certi versi potrebbe essere molto normale, ordinaria, e per altri si presenta come straordinaria, per quello che è il progressismo.
Ricorrerei a due categorie: anima e corpo. Vedi, io ho un’idea tutta razionale della politica. Un’idea utilitaristica, e non mi turba il suono che può sembrare sgradevole di questo termine. L’utilitarismo, infatti, come concetto filosofico non ha nulla a che vedere con un atteggiamento cinico o con una interpretazione strumentale e praticona dell’azione pubblica, ridotta a realismo d’accatto e a mera amministrazione dell’esistente. L’utilitarismo a cui penso è proprio quello delle classiche categorie filosofiche: l’utilità come criterio dell’azione morale e, secondo la celeberrima definizione di Jeremy Bentham, come mezzo per il raggiungimento della massima felicità possibile per il più grande numero possibile di persone.
Conosco bene, s’intende, la critica di Luigi Ferrajoli all’utilitarismo della linea Beccaria-Bentham, attento a fondare la massima felicità per la maggioranza, ma indifferente al destino delle minoranze e, specificamente, dei condannati.
Rispetto a ciò la teoria del diritto penale minimo, nell’elaborazione di Ferrajoli, tende a conciliare la massima utilità per la maggioranza non deviante con la massima utilità per la minoranza (fino al singolo) deviante.
Ma, tornando con i piedi per terra, e abbandonando le velleità teoretiche, è forse meglio riprendere il filo del ragionamento sull’azione politica in una società come la nostra. Insomma, quanto ho detto finora va sempre ricondotto alla vitalità del legame sociale, al vincolo di reciprocità, al sistema di relazioni in cui gli interessi e i valori si integrano e coltivano una dimensione di mutualità e di vicendevole obbligazione. Dentro questa prospettiva io mi interesso politicamente, in maniera prioritaria, di questioni che il novanta per cento dei miei colleghi, il novanta per cento del mio partito e il cento per cento del suo gruppo dirigente ritengono non siano politiche. E me ne interesso perché penso – al contrario – che siano le questioni più politiche del mondo. Quelle da cui partire per un rinnovamento radicale della politica. Semmai questo rinnovamento radicale fosse possibile. E sono tutte questioni che alludono a un punto cruciale da cui muovere: la sofferenza umana.
Perché – al di là del personale coinvolgimento emotivo – mi interesso di Stefano Cucchi? Intanto perché ho un’idea del metodo dell’azione politica, di cui abbiamo già parlato: la necessità, cioè, di partire sempre dalle biografie, dai nomi e cognomi, dalla fisionomia di una persona o di dieci persone, ma sempre da un’identità concreta e riconoscibile. E da un’identità – ecco il secondo punto – raccontabile. In altre parole, Cucchi è il termine ultimo, ultimissimo, estremo, del funzionamento del sistema della giustizia nel nostro paese. Ma ne è anche la rappresentazione più eloquente.
Dunque, partendo da questa vicenda, si può arrivare a parlare nel modo più lineare e più limpido, senza ipocrisie e strumental...